martedì 12 gennaio 2016

La metafisica dopo Emanuel Kant

Il Kant che tesse le lodi dei liberi pensatori, di quanti cioè hanno scosso  da sé il giogo della tutela cattolica, è lo stesso Kant che esige obbedienza  cieca nei confronti del sovrano e delle sue decisioni.
 Michele Federico Sciacca

La metafisica creazionista, l'unica possibile vittoria sul nulla, ci permette di  conoscere il nostro essere ontologicamente creature teistiche, il nostro essere creati a Sua immagine e somiglianza.
Maria Adelaide Raschini


 Il velenoso soffio del neomodernismo, intensificato e accresciuto dalle intrepidezze suggerite da una disarmante interpretazione del Vaticano II, ha fatto uscire dalla memoria storica le riserve del re di Prussia sul criticismo ed entrare nella teologia novista la smancerosa/avventurosa convinzione intorno alla possibilità di avviare un dialogo serio, costruttivo e pio con la fumosa eredità di Immanuel Kant (1724 - 1804).
 I novisti contemplano con legittimo spavento gli storici orrori della Germania neopagana ma ignorano (o fingono di ignorare) che l'onesto Kant ha rovesciato le nebbie della foresta teutonica nelle labirintiche e avvolgenti pagine delle Critiche, preparando e illuminando gli imperi della nuova criminosa sofistica, tirannie alle quali si sono seriamente opposti soltanto i cattolici fedeli alle indeclinabili verità della teologia e della metafisica.
 La filosofia kantiana, surreale pistola a tappi velenosi, è stata, infatti, avversata e contrastata soltanto dalle puntuali obiezioni formulate da studiosi cattolici d'alto profilo, ultimamente da Carmelo Ottaviano, Michele Federico Sciacca, Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Maria Adelaide Raschini e Paolo Pasqualucci, gli autori che hanno svelato le nascoste radici dei tossici paralogismi squillanti nelle venerate Critiche.
 Alla confutazione della mitologia intorno al tramonto - dopo Kant - della metafisica tomista, contribuiscono recentemente i saggi di due giovani e animosi allievi di Evandro Agazzi: Sebastian Kunkler (profondo conoscitore della lingua e della letteratura tedesca) e Maurizio Duce Castellazzo (eminente giusnaturalista), autori dei due avvincenti saggi raccolti in un volume (“IL PONTE DI REMAGEN. Le ragioni per ripensare la dottrina kantiana circa la prova cosmologica dell'esistenza di Dio”) pubblicato in questi giorni dalla romana casa editrice Vertigo.
 Nell'introduzione gli autori sostengono concordemente la necessità di riabilitare la filosofia perenne, “capace, nel momento fondante e fondamentale in cui ogni persona sceglie se impostare la propria vita sull'esistenza di un sommo Giudice o sulla tragedia della totale mancanza di senso, di far pendere la bilancia sulla prima”.
 Rammentano, inoltre, che “lo stesso Kant riconosce che la metafisica risponde ad un'esigenza che non si può sopprimere, questo dovrebbe già bastare per dichiararne senza esitazione la possibilità, ma il filosofo di Konigsberg, al contrario, ci ha lasciato tutta una serie di complicate argomentazioni che, fino ad oggi, in buona sostanza sono state prese per buone”.
 Nel saggio che occupa la prima parte dell'interessante volume, Kunkler sostiene che una spregiudicata lettura del testo kantiano attinge e svela la contraddizione che in esso si agita, inducendo il lettore ad “ammettere che il circolo teoretico criticista significa cadere nel monismo, in cui il contingente non è che un modo di esistere non necessario dell'assolutamente necessario”.
 L'eredità, che la filosofia kantiana consegna ai nomadi in circolazione nel deserto postmoderno, è l'illusione circolare, che attribuisce alla realtà contingente “una modalità d'essere in se stessa; dunque l'assoluto necessario diventa causa prima dell'ente contingente in quanto causa dell'energia ontologica (distinta da esso) del contingente stesso, che diversamente non diverrebbe che un gioco di maschere proiettate sullo schermo dell'assoluto”.
 Se non che attribuire alla realtà contingente una modalità d'essere in se stessa, costringe ad ammettere che “l'assoluta necessità diventa causa prima dell'ente contingente … così il criticismo risulta immediatamente identico all'idealismo assoluto”.
 Nascosto nelle pagine nebbiogene da Kant, l'assoluto immanente si manifesterà rovesciandosi senza ritegni nella filosofia di Hegel, divinizzazione degli assolutamente orrorosi atti della rivoluzione assoluta.
 In altre parole: “ammettere il circolo teoretico criticista significa cadere nel monismo o, forse, addirittura in un monismo panteista, in cui il contingente non è che un modo di esistere non necessario dell'assolutamente necessario”.
 A conclusione di un penetrante esame delle tesi criticiste, Kunkler afferma che la dimostrazione kantiana dell'impossibilità di stabilire l'esistenza di Dio ha come luogo di verifica l'ambito sintetico e metafisico di enti soprasensibili: “Infatti per definizione gli oggetti metafisici sono appunto soprasensibili e asserirne l'impossibilità di verifica sulla base del fatto che essi non sono appunto sensibili, non è una dimostrazione ma un paralogismo”.
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 Dal suo canto Duce Castellazzo dimostra che Kant stesso riconosce “la naturalità di quel pensiero che porta dall'esistenza delle cose contingenti alla realtà del loro Autore” e a conferma della sua tesi cita un brano della Critica della ragion pura, in cui si ammette che “la prova [dell'esistenza di Dio] comincia propriamente da un'esperienza, e perciò non è condotta del tutto a priori, ossia ontologicamente. E poiché l'oggetto di ogni possibile esperienza si chiama mondo, essa viene chiamata la prova ontologica”.
 Duce Castellazzo sostiene pertanto che “Kant non ha dubbi sul fatto che la prova parte, propriamente, dall'esperienza: quindi non è condotta interamente a priori o ontologicamentee stabilisce altresì che tale ammissione “depone contro le successive argomentazioni, in cui Kant cercherà di ricondurre interamente la prova all'argomento ontologico”.
 Specialmente acuta e convincente è la confutazione dell'affermazione mediante la quale Kant credette di escludere tassativamente la possibilità di rifiutare una serie infinita di cause date.
 Kant credette di aver dimostrato che i princìpi di ragione non autorizzano tale conclusione neppure nell'esperienza. Duce Castellazzo dimostra, invece, che è possibile “attribuire a cause del tutto invisibili per noi, la responsabilità di effetti che, viceversa, si trovano sotto i nostri occhi”.
 Il suggestivo esempio addotto per confutare e rovesciare il pregiudizio antimetafisico di Kant contempla “uno scorcio di ferrovia, stiamo a guardare un treno che stia appena uscendo da una galleria, sospinto da una locomotiva posta in fondo al convoglio, fuori dalla nostra visuale: per quanto possa essere lunga la teoria di vagoni, di cui ciascuno spinge il successivo, noi saremo comunque certi che prima o poi, dovrà apparire, in fondo alla fila, anche la motrice: una serie infinita di vagoni non assicurerebbe, infatti, la realtà del movimento osservato – nemmeno se cingesse tutta la superficie terrestre: avrebbe comunque bisogno, al suo interno, di un elemento che muova senza essere mosso; la locomotiva, appunto”.
 La incombente mole degli scritti kantiani e lo squillo delle trombe accademiche, che ne salutavano il trionfo indiscutibile, hanno scoraggiato la qualunque obiezione al criticismo, abbassandola al livello di una stolta offesa alla squillante Ragione.
 L'avanzamento della ragione cattolica lungo sentieri non segnati da abbagli kantiani e non interrotti da laiche scomuniche, ha colpito duramente la filosofia dei luterani, assestando un duro colpo alle presunte ragioni del sincretismo conciliare. E' pertanto dimostrato che le avventurose opinioni teologiche, in discesa intrepida dal concilio pastorale (teutonico) Vaticano II, corrono senza un motore, imitando (fino alla prossima, inevitabile accoglienza dell'avviso gridato della ragione) i vagoni kantiani, in movimento senza locomotiva.


Piero Vassallo

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