Scrissi
questo articolo qualche tempo fa, e non lo proposi alla pubblicazione perché
troppo vicino ad altri pezzi già inviati. Tuttavia credo abbia sempre qualcosa
da dire, per cui mi sarebbe spiaciuto lasciarlo perdere.
Di
solito evito di soffermarmi su film per il cinematografo o per la televisione;
di regola non intendo guardarli, essendo stanco di dover ripetere le stesse
osservazioni, le stesse critiche allo stile, le stesse condanne dei contenuti. Pornografia
propinata con pretesti, lenocinio di volgarità e di turpiloquio evitabili, immoralità
e vano abbellimento dei vizi, della fornicazione caccosa: gira e rigira si ritrova tutto ciò ad ammorbare
l'atmosfera, senza che sia possibile riscatto di sorta grazie all'arte della rappresentazione.
Ma in questi giorni una persona a me vicina, che ci tiene a vivere assai
la vita sociale e a usufruire degli spettacoli (la cui rinuncia a me giova,
anziché infondermi rammarichi), questa persona ha visto il filmato La mossa del cavallo, tratto da un
racconto di Andrea Camilleri pubblicato nel 1999, e si è dichiarata
soddisfatta, consigliandomi di non perderlo.
Già pochi minuti innanzi la proiezione televisiva, il primo canale Rai
aveva tessuto gli elogi del lavoro dei cineasti, dello scrittore siciliano,
degli interpreti. Nel gioco alla tivù in cui un concorrente deve indovinare le
attività delle persone che gli si presentano, era comparsa fra loro l'attrice
giovane e carina, protagonista femminile del filmato, della cui pubblicità ella
aveva costituito il motivo. Era venuta in abbigliamento modesto, mentre negli
spezzoni di scene proiettate per saggio, il suo petto emergeva provocante,
sebbene quel personaggio di vedova seducente non facesse ancora immaginare la
sua prostituzione e l'esibizione di questa nei rapporti avuti con un parroco.
Mette
conto notare che simile oscenità libidinosa non sarebbe mai passata alla
censura sino alla fine degli anni Cinquanta. E dirò, a chi mi compatisce
facendo appello all'attuale comune senso
del pudore, che me ne infischio, che compatisco lui, perché nudo disonesto
e lascivia restano i medesimi per sempre e per chiunque, da Adamo in poi. Ma
siamo precisi: all'epoca della benedetta censura, questa non escludeva le
miserie, non tagliava alcuna situazione disonesta che fosse resa implicita o
raffigurata decentemente e senza complicità o indulgenza riguardo a vizi e
delitti.
I
più che boccacceschi episodi dello scambio delle grazie muliebri con i beni
materiali del prete potevano benissimo essere resi con accenni, e si sarebbe persino
ricavato maggior profitto per l'economia dell'intreccio eliminandoli o
adoperando un diverso accidente.
La
vicenda poliziesca, nel siculo contesto mafioso, comincia con l'arrivo di un
ispettore del macinato, sul quale bisogna
pagare un'imposta che si presume iniqua, ma importante per le finanze statali.
Il giovane funzionario di famiglia siciliana proviene da Genova dove è
cresciuto, sostituisce il suo predecessore corrotto e fatto fuori per essersi
opposto a interessi illeciti. L'usciere che riceve il nuovo arrivato è l'umile
rappresentante dell'omertà rivestita di buon senso. Il delegato di polizia è al
servizio del capoccia latifondista e cerca di dissuadere l'ispettore, che
intende mettere ordine e giustizia, nondimeno fra i suoi collaboratori
malfidati, dispersi sul territorio. Il superiore in grado, l'intendente di
Finanza, è colluso col grande malvivente. I carabinieri sembrano dover
adattarsi al malcostume. In seguito, anche il prefetto appare rassegnato.
Resisterà invece il pubblico ministero, che persegue la colpevolezza dei
delinquenti; ma alla fine è costretto ad augurarsi, soltanto, la sconfitta del
capo mafioso, per ottenere la quale occorre risalire a lui con l'imputazione,
mentre costui si difende procurando la morte dei suoi strumenti compromessi e divenuti
pericolosi. Ad ogni modo, mandare in galera una colonna della società criminale
risolve ben poco. Oggi ne sappiamo qualcosa.
A
tale proposito non resisto alla tentazione di andare fuori tema: ci sono storici
illustri che disprezzano lo Stato della Chiesa perché subì il brigantaggio.
Essi salverebbero questa democrazia italiana che è molto più infestata, ospitando
mafie formidabili e droga a go-go.
Or dunque, l'ispettore dei mulini viene incolpato dell'uccisione del
parroco, invece assassinato da un cugino pazzoide. I cugini avevano avuto una
questione d'interesse, e lo squilibrato aveva perso la causa. Lo ha mosso a
commettere il delitto l'avvocato del gran capo mafioso. Qui sorge il punto
debole. L'omicidio del sacerdote, predisposto per la levata di mezzo del
giovane, venuto dal Nord a rompere le uova nel paniere, avrebbe dovuto svolgersi
in una circostanza prevista e non fortuita. Viceversa le coincidenze giungono
eccezionali. Il parroco, non si capisce come, si è trovato in aperta campagna
boscosa, e lì lo ha colpito la micidiale revolverata. Contemporaneamente è
accaduto il transito solitario dell'ispettore a cavallo. Sappiamo che si recava
a compiere le verifiche spingendosi sui luoghi della molitura, per diffidenza
verso i suoi sottoposti. Ma ci è stato anche detto che si rifiutava di preavvertire
chiunque riguardo alle proprie ispezioni. Egli, messo in allarme dallo sparo
dell'attentatore, subito dileguatosi, ha sparato a sua volta alle ombre, per
poi rinvenire il morente sacerdote, dimenticando presso di lui la rivoltella.
La
macchinazione ai danni del protagonista reca con sé ulteriori artifici. Egli è
andato dal delegato a denunciare l'assassinio. Ha raccolto dalle labbra dell'agonizzante
il nome del suo uccisore, ma, approfittando della sua scarsa conoscenza del
dialetto, gli inquirenti smontano la comprensione di quel nome, ritenuta
scorretta. I sospetti gravanti sull'interrogato sarebbero avvalorati dalla sua
denunciata scoperta d'un mulino clandestino, allestito provvisoriamente in
aperta campagna, di cui però non si rinvenne traccia. Il caso accredita l'accusa
di invenzioni fantasiose, come quella del ritrovamento del prete nella
boscaglia, del quale pure non si è vista ombra di cadavere.
L'azzeccagarbugli al servizio del capoccia ha
fatto trasportare la salma in casa dell'ispettore. Questi, dopo essere svenuto
per il trauma causatogli dall'arresto, eseguito per i gravi indizi raccolti a suo carico, viene rianimato
somministrandogli nel contempo un barbiturico. Rimesso in libertà provvisoria,
giunge nella sua abitazione del tutto stordito, incapace di reagire di fronte
all'incontro col morto. Si trarrà successivamente d'impaccio dimostrando che la
giacca, da lui stesa sul ferito a morte, si è macchiata di sangue, mentre, se
avesse compiuto l'omicidio fra le pareti domestiche, non avrebbe coperto il
defunto con l'indumento.
Inoltre,
l'aver i malfattori messo nell'alloggio dell'accusato le cose pregiate del
prete, ricevute dalla vedovella in cambio dei suoi favori accordatigli, e
l'aver dovuto togliere perciò quest'ultima dalla circolazione, appaiono manovre
sproporzionate, poco verosimili. Il gioco non valeva la candela, ossia tanto
daffare e rischio al fine di creare una debole prova a carico, un movente
malamente spiegato dal fatto che la poco di buono era proprietaria della casa
presa in affitto dall'imputato, sicché i due avrebbero dovuto intendersela ed
essere stati complici. La prova decisiva dell'innocenza verrà con
l'eliminazione del cugino che ha accoppato il parente ecclesiastico e che,
messo alle strette, avrebbe potuto cantare.
La macchinosità è quasi necessaria a ogni trama gialla. Si può
riconoscere che sceneggiatura, regia e attori abbiano ovviato abbastanza ai
difetti, essendo non poco aiutati dal mezzo cinematografico. Con la sua
realistica ripresa, esso rende spesso credibile l'inverosimile.
Ma la pecca maggiore è costituita dalla mancanza di un personaggio piuttosto
buono o redento nella società siciliana di fine Ottocento. Le pie donne, in
chiesa e affacciate alla sacrestia, hanno un'aria equivoca di beghine. Si
direbbe normale, benché assuefatta all'ambiente anomalo, soltanto la famiglia
del barbiere, cugino primo dell'ispettore, stranamente da lui ignorato prima
del suo arrivo nell'isola e casualmente incontrato nella barbieria.
Facendo ritorno in ufficio, dopo
essersi destreggiato (mossa del cavallo)
secondo gli accorgimenti d'uso locale, il giovanotto abbraccia il suo aiutante,
di cui all'inizio rifiutò il comportamento omertoso e retrogrado. Ma a parte
lui, in conclusione, l'orizzonte tutto fosco della Trinacria resta privo d'un
solo, possibile, soggetto che si distingua per rettitudine e coraggio.
Piero Nicola
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