martedì 6 marzo 2018

LA MOSSA DEL CAVALLO (di Piero Nicola)


  Scrissi questo articolo qualche tempo fa, e non lo proposi alla pubblicazione perché troppo vicino ad altri pezzi già inviati. Tuttavia credo abbia sempre qualcosa da dire, per cui mi sarebbe spiaciuto lasciarlo perdere.
  Di solito evito di soffermarmi su film per il cinematografo o per la televisione; di regola non intendo guardarli, essendo stanco di dover ripetere le stesse osservazioni, le stesse critiche allo stile, le stesse condanne dei contenuti. Pornografia propinata con pretesti, lenocinio di volgarità e di turpiloquio evitabili, immoralità e vano abbellimento dei vizi, della fornicazione caccosa:  gira e rigira si ritrova tutto ciò ad ammorbare l'atmosfera, senza che sia possibile riscatto di sorta grazie all'arte della rappresentazione.
  Ma in questi giorni una persona a me vicina, che ci tiene a vivere assai la vita sociale e a usufruire degli spettacoli (la cui rinuncia a me giova, anziché infondermi rammarichi), questa persona ha visto il filmato La mossa del cavallo, tratto da un racconto di Andrea Camilleri pubblicato nel 1999, e si è dichiarata soddisfatta, consigliandomi di non perderlo.
  Già pochi minuti innanzi la proiezione televisiva, il primo canale Rai aveva tessuto gli elogi del lavoro dei cineasti, dello scrittore siciliano, degli interpreti. Nel gioco alla tivù in cui un concorrente deve indovinare le attività delle persone che gli si presentano, era comparsa fra loro l'attrice giovane e carina, protagonista femminile del filmato, della cui pubblicità ella aveva costituito il motivo. Era venuta in abbigliamento modesto, mentre negli spezzoni di scene proiettate per saggio, il suo petto emergeva provocante, sebbene quel personaggio di vedova seducente non facesse ancora immaginare la sua prostituzione e l'esibizione di questa nei rapporti avuti con un parroco.
  Mette conto notare che simile oscenità libidinosa non sarebbe mai passata alla censura sino alla fine degli anni Cinquanta. E dirò, a chi mi compatisce facendo appello all'attuale comune senso del pudore, che me ne infischio, che compatisco lui, perché nudo disonesto e lascivia restano i medesimi per sempre e per chiunque, da Adamo in poi. Ma siamo precisi: all'epoca della benedetta censura, questa non escludeva le miserie, non tagliava alcuna situazione disonesta che fosse resa implicita o raffigurata decentemente e senza complicità o indulgenza riguardo a vizi e delitti.
  I più che boccacceschi episodi dello scambio delle grazie muliebri con i beni materiali del prete potevano benissimo essere resi con accenni, e si sarebbe persino ricavato maggior profitto per l'economia dell'intreccio eliminandoli o adoperando un diverso accidente.
  La vicenda poliziesca, nel siculo contesto mafioso, comincia con l'arrivo di un ispettore del macinato, sul quale bisogna pagare un'imposta che si presume iniqua, ma importante per le finanze statali. Il giovane funzionario di famiglia siciliana proviene da Genova dove è cresciuto, sostituisce il suo predecessore corrotto e fatto fuori per essersi opposto a interessi illeciti. L'usciere che riceve il nuovo arrivato è l'umile rappresentante dell'omertà rivestita di buon senso. Il delegato di polizia è al servizio del capoccia latifondista e cerca di dissuadere l'ispettore, che intende mettere ordine e giustizia, nondimeno fra i suoi collaboratori malfidati, dispersi sul territorio. Il superiore in grado, l'intendente di Finanza, è colluso col grande malvivente. I carabinieri sembrano dover adattarsi al malcostume. In seguito, anche il prefetto appare rassegnato. Resisterà invece il pubblico ministero, che persegue la colpevolezza dei delinquenti; ma alla fine è costretto ad augurarsi, soltanto, la sconfitta del capo mafioso, per ottenere la quale occorre risalire a lui con l'imputazione, mentre costui si difende procurando la morte dei suoi strumenti compromessi e divenuti pericolosi. Ad ogni modo, mandare in galera una colonna della società criminale risolve ben poco. Oggi ne sappiamo qualcosa.
  A tale proposito non resisto alla tentazione di andare fuori tema: ci sono storici illustri che disprezzano lo Stato della Chiesa perché subì il brigantaggio. Essi salverebbero questa democrazia italiana che è molto più infestata, ospitando mafie formidabili e droga a go-go.
  Or dunque, l'ispettore dei mulini viene incolpato dell'uccisione del parroco, invece assassinato da un cugino pazzoide. I cugini avevano avuto una questione d'interesse, e lo squilibrato aveva perso la causa. Lo ha mosso a commettere il delitto l'avvocato del gran capo mafioso. Qui sorge il punto debole. L'omicidio del sacerdote, predisposto per la levata di mezzo del giovane, venuto dal Nord a rompere le uova nel paniere, avrebbe dovuto svolgersi in una circostanza prevista e non fortuita. Viceversa le coincidenze giungono eccezionali. Il parroco, non si capisce come, si è trovato in aperta campagna boscosa, e lì lo ha colpito la micidiale revolverata. Contemporaneamente è accaduto il transito solitario dell'ispettore a cavallo. Sappiamo che si recava a compiere le verifiche spingendosi sui luoghi della molitura, per diffidenza verso i suoi sottoposti. Ma ci è stato anche detto che si rifiutava di preavvertire chiunque riguardo alle proprie ispezioni. Egli, messo in allarme dallo sparo dell'attentatore, subito dileguatosi, ha sparato a sua volta alle ombre, per poi rinvenire il morente sacerdote, dimenticando presso di lui la rivoltella.
  La macchinazione ai danni del protagonista reca con sé ulteriori artifici. Egli è andato dal delegato a denunciare l'assassinio. Ha raccolto dalle labbra dell'agonizzante il nome del suo uccisore, ma, approfittando della sua scarsa conoscenza del dialetto, gli inquirenti smontano la comprensione di quel nome, ritenuta scorretta. I sospetti gravanti sull'interrogato sarebbero avvalorati dalla sua denunciata scoperta d'un mulino clandestino, allestito provvisoriamente in aperta campagna, di cui però non si rinvenne traccia. Il caso accredita l'accusa di invenzioni fantasiose, come quella del ritrovamento del prete nella boscaglia, del quale pure non si è vista ombra di cadavere.
  L'azzeccagarbugli al servizio del capoccia ha fatto trasportare la salma in casa dell'ispettore. Questi, dopo essere svenuto per il trauma causatogli dall'arresto, eseguito per i gravi indizi raccolti a suo carico, viene rianimato somministrandogli nel contempo un barbiturico. Rimesso in libertà provvisoria, giunge nella sua abitazione del tutto stordito, incapace di reagire di fronte all'incontro col morto. Si trarrà successivamente d'impaccio dimostrando che la giacca, da lui stesa sul ferito a morte, si è macchiata di sangue, mentre, se avesse compiuto l'omicidio fra le pareti domestiche, non avrebbe coperto il defunto con l'indumento.
  Inoltre, l'aver i malfattori messo nell'alloggio dell'accusato le cose pregiate del prete, ricevute dalla vedovella in cambio dei suoi favori accordatigli, e l'aver dovuto togliere perciò quest'ultima dalla circolazione, appaiono manovre sproporzionate, poco verosimili. Il gioco non valeva la candela, ossia tanto daffare e rischio al fine di creare una debole prova a carico, un movente malamente spiegato dal fatto che la poco di buono era proprietaria della casa presa in affitto dall'imputato, sicché i due avrebbero dovuto intendersela ed essere stati complici. La prova decisiva dell'innocenza verrà con l'eliminazione del cugino che ha accoppato il parente ecclesiastico e che, messo alle strette, avrebbe potuto cantare.
  La macchinosità è quasi necessaria a ogni trama gialla. Si può riconoscere che sceneggiatura, regia e attori abbiano ovviato abbastanza ai difetti, essendo non poco aiutati dal mezzo cinematografico. Con la sua realistica ripresa, esso rende spesso credibile l'inverosimile.
  Ma la pecca maggiore è costituita dalla mancanza di un personaggio piuttosto buono o redento nella società siciliana di fine Ottocento. Le pie donne, in chiesa e affacciate alla sacrestia, hanno un'aria equivoca di beghine. Si direbbe normale, benché assuefatta all'ambiente anomalo, soltanto la famiglia del barbiere, cugino primo dell'ispettore, stranamente da lui ignorato prima del suo arrivo nell'isola e casualmente incontrato nella barbieria.
    Facendo ritorno in ufficio, dopo essersi destreggiato (mossa del cavallo) secondo gli accorgimenti d'uso locale, il giovanotto abbraccia il suo aiutante, di cui all'inizio rifiutò il comportamento omertoso e retrogrado. Ma a parte lui, in conclusione, l'orizzonte tutto fosco della Trinacria resta privo d'un solo, possibile, soggetto che si distingua per rettitudine e coraggio.

Piero Nicola

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