mercoledì 1 ottobre 2014

L’oro di Putin (di Luigi Copertino)

Evidentemente a Putin piace scandalizzare e far preoccupare l’Occidente.
Su “Il Fatto Quotidiano” è apparsa la notizia secondo la quale Putin sta vendendo titoli di Stato americani ed acquistando oro in abbondanza per mettere in difficoltà l’avversario americano nella contesa sull’Ucraina (1).
Secondo alcuni opinionisti con questa mossa lo “Zar” vuol dimostrare agli occidentali che egli è disposto a tutto, anche alla guerra, pur di non cedere sulla questione Ucraina.
La Russia, infatti, ha le mani in pasta in mezza Europa ed anche in buona parte dell’America, sicché, sostengono questi preoccupati commentatori, una guerra all’Occidente era, fino ad oggi, controproducente per l’economia russa. A conferma, a dire di costoro, che il mercato globale è fattore di pace perché imbriglia negli affari le contese politiche.
Ricordare loro che, anche in passato, le relazioni economiche pur strette non hanno impedito la guerra – come ad esempio nel 1915 quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale nonostante la sua economia all’epoca fosse dipendente (del resto poco sembra oggi in tal senso cambiato) in modo pesante dagli investimenti del capitale tedesco – è una improba fatica, dal momento che essi sembrano accecati dal presunto pericolo del “Nuovo Hitler” che aleggia sull’Europa dell’est.
Quanti “nuovi Hitler” abbiamo visto comparire in questi decenni, da Saddam Hussein, a Gheddafi, da Assad a Erdogan, solo per essere eliminati e messi alla gogna mediatica in attesa che la ricerca storica faccia, come sempre, il suo riequilibrante lavoro di revisione, che – sarebbe inutile dirlo ma visto il clima da linciaggio del nostro libero Occidente è meglio precisarlo – non significa apologia dei sopranominati.
Se Putin disinveste sull’Occidente e investe in oro, cioè la risorsa “fisica” con maggior valore in una eventuale futura situazione di fibrillazione dei mercati e di guerra, questo vuol dire, per chi vede nel presidente russo il redivivo führer alle porte, che il conflitto diretto Russia-Occidente non è più da escludere ed anzi è da annoverare tra le ipotesi concrete
Rendendosi economicamente indipendente dall’Occidente, è il ragionamento di costoro, Putin non avrà più interesse a conservare la già precaria tregua in Ucraina e nel Vicino Oriente. E laddove i legami economici con il libero Occidente dovessero cadere del tutto, fino all’autarchia, poco o nulla potrebbe trattenere Putin dall’affrontare il rischio bellico.
Fin qui il ragionare dell’osservatore filo-occidentale preoccupato perché non sa concepire come legittima una politica indipendente dal controllo americano.
Proveremo, da parte nostra, a delineare uno scenario diverso in un’ottica meno apologetica in senso filo-occidentale e dunque più realista, nel solco della grande tradizione del realismo politico europeo.
Lo scrivente non è integralmente uno schmittiano (2) ma riconosce che una cosa Carl Schmitt l’aveva capita ossia che dietro l’universalismo umanitario occidentale si nascondono soltanto rapporti di forza a vantaggio delle nazioni guida dell’Occidente. Ecco perché lo scrivente non ha mai creduto che il “mercato mondiale” assicura la pace (esportazione bellica della democrazia, con tanto di bombe “intelligenti”, docet!).
Lo scrivente, d’altro canto, non è neanche, né integralmente né parzialmente, kantiano, ovvero non crede né alla “Pace perpetua” (la vera Pace è solo quella di Cristo e non la dà il mondo) né al Governo Mondiale e neanche al “Nemico dell’Umanità”. La moderna cultura occidentale è esperta nell’uso della “damnatio memoriae” verso chiunque non accetti il suo “ordine costituito”, ieri il Kaiser o i fascismi, oggi l’Islam o l’Argentina, o Saddam, o Assad, o, appunto, Putin.
A Bretton Woods, nel 1944, J.M. Keynes, cercando una soluzione etica per gli squilibri economici forieri di guerra, propose, al fine di assicurare un pacifico e giusto equilibrio mondiale, un sistema finanziario internazionale basato su una moneta di conto, appunto internazionale e super partes, la quale avrebbe dovuto essere gestita da organismi sovranazionali ovvero dalla Banca Mondiale e dal FMI. Quella moneta doveva chiamarsi “bancor”.
Una utopia, dato che Keynes era certamente un “kantiano”? Un Governo Mondiale, quello da lui proposto, al di sopra degli Stati oppure solo un sistema di coordinamento, con potenzialità confederali, tra gli Stati? Non lo sappiamo.
Sta però il fatto che gli Stati Uniti, gli unici e veri vincitori della seconda guerra mondiale, deviarono l’idea nel senso di imporre in luogo di una moneta internazionale, puramente contabile, il loro dollaro, diventando così essi la Banca Mondiale in modo che, prestando a tutti gli altri Stati, ne potevano controllare l’economia, sicché gli stessi organismi sovranazionali come il FMI diventarono soltanto lo strumento operativo dell’egemonia statunitense.
Almeno in Occidente. Perché allora esisteva il mondo comunista che sfuggiva all’influenza americana. Poi, dopo il 1989, anche i Paesi sotto controllo sovietico finirono nell’orbita americana.
Nel frattempo, però, il sistema di cambi fissi, dollaro-centrico, di Bretton Woods era stato messo in discussione sin da quando Charles De Gaulle (un altro sul quale ha operato la “damnatio memoriae”), che scalpitava per ridare un ruolo di grande potenza alla Francia ed aveva capito quanto l’indipendenza nazionale francese fosse limitata dall’egemonia del dollaro, chiese agli Stati Uniti di onorare all’incasso le riserve in dollari della Banca Centrale francese, ossia di commutare quelle riserve in oro dato che gli accordi di Bretton Woods prevedevano ancora – anche in questo contrariamente alla proposta di Keynes –  la base aurea nella sua più moderna forma del “gold exchange standard”: l’oro era garanzia di copertura del valore del dollaro il quale ultimo garantiva, mediante il cambio fisso tra la moneta americana e l’oro e quindi quello altrettanto fisso delle monete estere con il dollaro stesso, tutte le altre valute.
Gli Stati Uniti, che avevano inondato il mondo con i loro dollari in una misura molto più che proporzionale rispetto all’oro posseduto, non avevano però, appunto nelle loro riserve, oro sufficiente per scontare all’incasso tutta quella liquidità cartacea a suo tempo emessa. Così Nixon, nel 1971, per sfuggire alla richiesta francese, che si era portata dietro altre similari richieste e che non fu ritirata neanche dopo la scomparsa dalla scena politica del vecchio Generale messo fuori gioco dal “maggio francese” nel 1968 (e molto probabilmente nel sostenere la contestazione giovanile uno zampino americano non mancò), dichiarò inconvertibile in oro il dollaro.
Una dichiarazione unilaterale che mandò definitivamente in frantumi il già traballante sistema di Bretton Woods (detto per inciso: al fine di riparare a questo evento in Europa si iniziò a pensare – ma molto maldestramente come si è visto – alla moneta unica). Il dollaro, tuttavia, vista la potenza militare ed economica americana rimase la moneta di riferimento negli scambi internazionali, anche perché i Paesi produttori di petrolio, alleati degli Usa ad iniziare dall’Arabia Saudita, accettavano solo dollari in cambio di petrolio, sicché tutti gli altri dovevano procacciarsi notevoli riserve di dollari per poter rifornirsi di “oro nero”.
Ora, se oggi una nazione prova a sottrarsi a questo gioco non si vede, se non per riflesso condizionato di quella cultura facile alla “damnatio memoriae”, come possa essere accusata di destabilizzare la, presunta e pretesa, Pace Mondiale. Bisognerebbe prima chiedersi se questa presunta Pace Mondiale si regge su giusti principi di equità o se invece, appunto schmittianamente, essa non è altro che la maschera dell’egemonia globale di una sola potenza e dei suoi alleati/vassalli.
Comunque la Russia acquistando oro al posto dei bond americani, molto probabilmente, non sta facendo altro che iniziare a mettere in pratica quanto stabilito dai Paesi emergenti, qualche mese fa, quando, in una riunione alla quale invitarono anche l’Argentina in quel momento sotto ricatto dei “fondi avvoltoio” che non accettavano l’equa transazione loro proposta per il pagamento al 75% del debito estero argentino (volevano il 100% e lo volevano in dollari e non in pesos), decisero di fondare una loro propria Banca Internazionale alternativa al FMI.
E’ questo l’inizio di un mondo più pluralista di contro al monismo unilateralista americano? Oppure questo porterà al conflitto, come ritengono gli opinionisti filo-occidentali, e naturalmente la colpa, per il noto vizio della “damnatio memoriae”, sarà data a Putin o chi altri per lui?
Certo è che ogni qual volta una nazione ci ha provato, a sottrarsi al dominio dell’usurocrazia, è stata punita o con la guerra o portandola al Tribunale dell’Aia per “crimini contro l’Umanità”.
Il vecchio Ezra Pound, che ebbe la sola colpa di denunciare tutto questo, donando al mondo la sua opera magna, quei “Canti Pisani” che costituiscono la “Divina Commedia del XX secolo”, fu rinchiuso in una gabbia per animali a Coltano, presso Pisa, poi processato in America per alto tradimento e persino ricoverato in un manicomio criminale. Solo le innumerevoli petizioni di artisti, letterati e filosofi, tra i più noi e famosi del secolo scorso, convinse il governo americano a liberare dal manicomio quel grande poeta. Stalin con gli oppositori faceva altrettanto. Un trattamento, quello riservato a Pound dai suoi connazionali statunitensi, dunque molto “sovietico”.
Una osservazione finale sulla preferibilità di un mondo plurale rispetto ad un mondo “monista”. Un grande filosofo della politica quale fu il cattolico tradizionalista Alvaro d’Ors (aveva anche combattuto con le milizie nazionali durante la guerra civile spagnola) ha scritto cose egregie (3) circa il pericolo di imitazione dell’Universalità del Regno di Cristo sotto forma di Unico Stato Mondiale – ma lui a questa ipotesi non credeva ritenendola utopica e concretamente irrealizzabile - o sotto forma di “sinarchia economico-finanziaria” che, a differenza dell’utopica prospettiva di uno Stato Mondiale, è molto più concretamente realizzabile (e si sta effettivamente realizzando) perché lascia l’apparenza del pluralismo politico ma, attraverso il controllo della moneta e del potere finanziario, realizza quella pericolosa – diciamolo pure: anticristica – “Unità del Mondo” che era stata paventata, in una famosa conferenza dall’omonimo titolo, nel dopoguerra, all’università di Madrid, anche dal suo amico Carl Schmitt.
Alvaro d’Ors difendeva il pluralismo politico, ossia l’indipendenza reale dei popoli e delle organizzazioni statuali nazionali, sul piano naturale al quale faceva corrispondere sul piano sovrannaturale l’Universalità della Chiesa nella prospettiva del Regno di Cristo che, come sappiamo, non è, però, di questo mondo.
Un’accusa che il neopagano Alain De Benoist rivolge al “giudeo-cristianesimo” è quella di aver introdotto l’universalismo, equivalente nella sua prospettiva nicciana a totalitarismo, contro il pluralismo un tempo garantito dal “paganesimo”. Ora, se, come fanno i liberali anche conservatori, non si coglie e non si rimarca costantemente la differenza, alla quale si richiamava Alvaro d’Ors, tra piano naturale e piano soprannaturale, l’accusa debenoistiana avrebbe una apparenza di fondamento. Ecco un ulteriore dannoso errore del liberalismo e di quei cattolici (si pensi al fu Baget Bozzo e a tutta la schiera teocons) che pretendono essere l’Occidente Globale il magnifico frutto dell’Universalismo cristiano, senza avvedersi di quanto, invece, il globalismo attuale è nient’altro che la parodia luciferina del Regno di Cristo.
Perché, come ci ricordano l’Apocalisse e tutta la Tradizione, anche il regno dell’Anticristo si presenterà come universale, proprio perché l’Anticristo è la “Scimmia di Dio”.

Luigi Copertino


NOTE

2)    Glielo impedisce il fondamento negativo del Politico, “amico/nemico”, preteso dal grande pensatore tedesco, che però suona più manicheo che cattolico. Anche laddove Carl Schmitt si appellasse, da “Epimeteo cristiano”, alla dottrina del peccato originale non è possibile negare che egli ne da una lettura assolutamente radicale, luterana, la quale nel suo pessimismo assoluto giunge, sulla scia del suo amato Hobbes, all’accettazione di una antropologia negativa ossia al disprezzo ontologico dell’essere umano. Una antropologia – e Schmitt se ne rendeva perfettamente conto anche perché fu essa ad ingannarlo nei riguardi dell’emergente nazismo nella Germania di Weimar – che non è per niente cattolica. Alla pari, del resto, dalla antropologia assolutamente positiva che, pelagianamente, misconosce il peccato originale ed il bisogno di redenzione della natura umana.
3)    Cfr. A. D’Ors «La violenza e l’ordine», Cosenza, 2003.


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