martedì 7 ottobre 2014

Quando dalla prudenza malintesa nasce l’abuso (di Piero Nicola)

  In occasione di questo inizio del sinodo sulla famiglia, voluto da Francesco I, una rivista in rete riporta l’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 3 giungo 2012 a Milano, al VI Incontro mondiale delle famiglie, la riproduce quasi a dimostrazione dell’ortodossia da lui ivi professata.
  Mi atterrò al tema precipuo del discorso tenuto due anni fa, perché, dovendo considerare la validità rivendicata al Vaticano II (pure citato nello stesso discorso) da chi presiedette all’adunanza, dovrei passare ad altre conclusioni, ad altre conseguenze.
  Va riconosciuto che l’oratore formulò concetti in linea col corretto magistero: la creazione del maschio e della femmina umani tenuti a procreare, il sacramento del matrimonio sancito da Gesù Cristo, le unioni familiari dei figli della Chiesa necessarie nondimeno alla società, la loro comunione universale, e questa universalità realizzata secondo il mandato della predicazione evangelica, mentre dalla parola non deve andar disgiunto il precetto dell’amore e il suo esempio da rappresentare.
  Fin d’ora però, notiamo come, accennando alla similitudine del matrimonio di Cristo con la Chiesa, venga tralasciato il carattere di capo (ben evidente nella lettera paolina) attribuito al marito e come esso scompaia nella pari dignità dei coniugi, pur ammettendosi le loro attitudini complementari. Restano anche assenti in ogni dove l’attributo cattolico e il termine Corpo mistico. Per giunta, spuntano alcuni errori, del resto conformi all’insegnamento dell’ultimo concilio:
  “Il vostro amore è fecondo innanzitutto per voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene l’uno dell’altro […] È fecondo poi nella procreazione, generosa e responsabile…”
  Ci ritroviamo di fronte ai fini del matrimonio. Una questione basilare. Invertendo i fini, si dà credito, tra l’altro, alle false buone ragioni che determinano la crisi coniugale. Infatti l’amore coniugale si presta all’equivoco, è duplice: sentimento affettuoso, caritatevole secondo Cristo + sentimento particolare dell’attrazione tra i sessi (da non confondere con il naturale impulso posto all’origine dell’accoppiamento) che può scemare o cadere senza motivo di pregiudizio per il sacro vincolo.
  Ora, la chiesa sempre stabilì che la generazione dei figli costituisce lo scopo primario, mentre quello secondario consiste nel rimedio alla concupiscenza, e l’amore reciproco è moderato dalla carità, restando ad essa subordinato. Il divario tra la concezione tradizionale e quella successiva è dogmaticamente notevolissima.
  Purtroppo il primo posto erroneamente assegnato all’amore equivoco rientra nella normalità. La gerarchia e i fedeli del passato appaiono almeno superati, e la risoluzione più comoda sarebbe, al solito, quella giusta. Gesù prescrisse la rinuncia, consigliò di prendere la croce, i santi l’adottarono e la benedissero, ma chi se ne ricorda? I cristiani evoluti, adulti e risvegliati ritengono, in pratica, che la croce sia un insulto alla loro dignità. Perciò propendono stoltamente per la pietosa eutanasia.
  Così, tra le raccomandazioni rivolte a genitori e figli, escono il “coltivare il dialogo”, il “rispettare il punto di vista dell’altro”, in una benevolenza incondizionata, che non si cura dell’ammonizione fraterna, del separarsi dagli ostinati nel travisare la fede, nel dare scandalo, nella disubbidienza, che ci sono sempre; eccome se ci sono! E l’omissione di tale opera di misericordia spirituale e di tale precauzione anche recitata nell’Atto di dolore (“propongo di fuggire le occasioni prossime del peccato”) vanno in continuità con la precedente sopravvalutazione e compiacenza verso l’amore coniugale.
  Torniamo al punto di maggior interesse. “Una parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento e di separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggino a rimanere nelle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza”.
  Con queste frasi termina il passo del discorso, che lascia una vacuità destinata ad essere riempita nel modo prevedibile e peggiore.
  Intanto, si considerano solo i fedeli che presumibilmente “condividono gli insegnamenti della chiesa sulla famiglia”. Dobbiamo supporre che non ci si curi di quelli che non li condividono o credono di condividerli sbagliando? Sembra di no. La preoccupazione di incoraggiare “a rimanere nelle vostre comunità” e le “adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza” non sarebbero necessarie per chi accetta la legge di Dio e cerca di comportarsi di conseguenza. Dunque l’ambiguità, dopo la mancanza delle opportune precisazioni di monito: indissolubilità del matrimonio validamente contratto, dovere per i coniugi separati di astenersi dal divorzio e dal concubinato, perdita per il pubblico peccatore (divorziato risposato o concubino) del diritto a ricevere la comunione. Fin da quando gli usi del paganesimo contrari all’indissolubilità del matrimonio erano ancor vivi, i Padri (vedi san Cipriano e sant’Agostino) si pronunciarono per il divieto di somministrare la Particola ai peccatori notori e impenitenti.
  Preso spunto dall’unità della famiglia cristiana, il popolo credente è definito: “popolo che – come insegna il Concilio Vaticano II – deriva la sua unità dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Cost. Lumen gentium, 4)”.
  La comunione dei santi, figli di Dio per adozione, avviene nel Corpo mistico, del quale Cristo è il capo. L’unità della Trinità si deve alla natura divina e al concerto delle tre Persone, con cui i fedeli sono uniti mediante il battesimo e la permanenza nella Chiesa, ma con cui non hanno una stessa divina unità. Benedetto XVI intendendo significare e ricordare che l’unione dei fedeli “deriva” dall’unità di Cristo nella Trinità, il concetto resta comunque astruso, atto a eludere quello chiaro e tondo possibile, che identifica la Chiesa col Corpo mistico.
  “Occorre educarsi a credere, prima di tutto in famiglia, all’amore autentico, quello che viene da Dio e ci unisce a Lui e proprio per questo ci trasforma in un Noi, che supera le nostre divisioni e ci fa divenire una cosa sola, fino a che, Dio sia tutto in tutti (1 Cor. 15, 28)”.
  C’era bisogno di questa interpretazione tendenziosa data alle parole dell’Apostolo delle genti e smentita, prima di Giovanni XXIII, dagli esegeti e dai teologi accreditati presso la Santa Sede? E che cosa c’entra ora, per noi, la prospettiva millenaristica o evoluzionistica per la quale si avrebbe infine un’unità umana redenta, benedetta, quando Dio sarebbe o potrebbe essere tutto in tutti?
  Sì, ce n’era bisogno per far uscire dalla sensazione d’impotenza tanta gente che, non mettendosi in pari con la dottrina del Vangelo e coi sacramenti, disfaceva le famiglie, o che vedeva attorno a sé la loro rovina in aumento, anziché in diminuzione. E un’illusione d’essere sulla buona strada risolutiva serve adesso a mascherare l’inutilità piuttosto empia d’un sinodo, che pretende di trattare una materia già definita in modo ampio e dogmatico. Un sinodo indirizzato a consentire la violazione della legge eterna e il sacrilegio; un sinodo il cui esito sia per indurre più facilmente al divorzio e alla convivenza colpevole coloro i quali si ritroveranno forzati a esercitare la virtù faticosa cui si sono sottratti, senza che ne venga un rimedio del male commesso e del peccato.


Piero Nicola

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