venerdì 21 novembre 2014

IN ALTA VAL VENOSTA (di Piero Nicola)

  Questa ampia vallata si eleva facendo capo al Lago di Resia, quello, per intendersi, col campanile romanico che sorge dall’acqua poco distante dalla riva, e sovrasta il villaggio andato sommerso quando si costruì il bacino imbrifero, ultimato nel 1949 dopo la ripresa dei lavori interrotti durante la guerra.
  Merita discorrere di questi luoghi di molta bellezza naturale - circondati da una chiostra di montagne imponenti, culminanti, a Sud, nei ghiacciai del Cevedale e dell’Ortles - non tanto perché tale bellezza sia impareggiabile, quanto perché vi si respira in un’atmosfera alquanto genuina. Sinora qui l’attività turistica non ha preso il sopravvento sulle altre occupazioni (l’allevamento e alcune colture tradizionali) e le nuove costruzioni non sono ancora troppo invadenti nei nuclei abitati e nella campagna circostante. I mezzi meccanici della fienagione appaiono bensì tollerabili. Del resto, molti trattori e autocarri per la raccolta del fieno hanno l’aria di farsi perdonare con la loro rispettabile vetustà.
  La considerazione sa di ecologismo, di venerazione per la Natura: per preservarla si dovrebbero fissare limiti allo sviluppo, avanzando riserve nei riguardi del progresso. Viceversa bisognerebbe pretendere un progresso sicuro di sé e oculato.
  La superficialità ecologica giunge risibile. Non è in questione se occorra che la tecnica rispetti l’ambiente, ma se debba risultare bella o brutta nelle sue espressioni. Il bello e il brutto essendo, al di là del lato estetico, un segno dei tempi, un stile o un’assenza di stile.
  Come prima accennavo, in questa plaga austera e solare dell’Alto Adige, percorsa da un Adige ancora sottile, animato d’acque fresche e trasparenti, le ingiurie degli attuali costumi non sono trasmodanti, ma risaltano e suggeriscono meditazioni.
  Lo sviluppo civile fu continuo dovunque, in varie maniere. Le sue forme, rispecchianti contenuti, furono in genere esteticamente apprezzabili, prima della modernità inespressiva o avventurosa e pretenziosa senza carattere, senza un’anima che abbia alcunché da dire. Minor guasto fu fatto dal liberty e dall’eclettismo nel secondo decennio del secolo scorso.
  I paesi che considero, al pari di quelli d’altre latitudini, quasi spontaneamente vennero edificandosi e trasformandosi in epoche successive, restando sino all’altro ieri  mirabili e armoniosi.
  Una chiesetta del Duecento col suo corpo che si direbbe sgraziato, dai muri massicci, gibbosi e con un acconcio campanile, bucato da una monofora sormontata da una bifora, è tutta poesia. L’interno conserva affreschi dal tono ieratico, qua e là mancanti. Il soffitto ligneo, di pannelli rustici, reca incise iscrizioni in gotico antico. Un Cristo benedicente guarda, dalla volta d’un’abside minima, un minimo altare di pietra, in un incanto di sacralità. Voglio immaginare il tutto nuovo, faccio sparire i vari deterioramenti e la suggestiva patina del tempo: la sostanza permane.
  Per non dire di altre chiese, alcune risalenti all’epoca carolingia, d’un santuario, di mura, torri e castelli. Ma che brutta figura fa quella scuola nuova, dalla struttura essenziale, delicata e insulsa! E quella recente abitazione posta accanto all’edificio severo, la cui scarna facciata ha due ordini di finestre dagli sguanci esterni che mostrano un grande spessore, e la cui sommità, tagliata a trapezio isoscele, contiene altre tre finestrotte, mentre al pian terreno un semplice portale contornato di marmo grigio chiaro, proveniente dalle vicine cave di Lasa, rivela l’origine gentilizia del palazzo! Né sono prive della comune dignità le case rurali nell’abitato, fornite di rampa per l’accesso al fienile, di una grande bocca che immette alla stalla. Né la casa ottocentesca aggraziata, arricchita dai bovindo, rompe col costume secolare.
  All’osservatore che non sta aggrappato alla modernità come bimbo alla gonna materna, vien fatto di chiedersi che sia mai accaduto, date le irreparabili discontinuità che saltano all’occhio nella vecchia fisionomia del villaggio. Egli si domanda se quelle superfici artificiose e cagionevoli, quelle vetrate eccessive, quelle linee architettoniche stravaganti o banali siano cosa provvisoria, tipo usa-e-getta: una cosa che, ad ogni modo, invecchia male e diverrà meramente decrepita, destinata a scomparire; contrariamente alle costruzioni cui giova l’invecchiamento, testimoniando esse uno spirito pregevole, non caduco, un momento di civiltà. Per conseguenza, il riflessivo padre di famiglia, o chi pensa all’evolversi della nostra umanità, stenta a concepire come, perdurando questo andamento, essa possa affermarsi ancora con opere durature, e paventa che, in avvenire, continui a manifestarsi priva di bellezza o addirittura non lasci traccia di sé. 
  Si è avuto cura di erigere i muri di sostegno lungo le strade con rivestimenti di pietra secondo la vecchia foggia irregolare. Di contro, però, il guardrail o i paletti di plastica, che mi rinviano ai muretti, ai dimenticati paracarri di granito, e il cemento affiorante dappertutto, per cui vado cercando i mattoni e i blocchi squadrati o bugnati di cui son composti i monumentali ponti d’una volta, e le sedi stradali che tagliano il paesaggio quasi copiando l’insensibile, astorica ferrovia, sono altrettanti particolari offensivi del buon gusto, al quale si sacrifica ben poco delle comuni risorse. Così le zone periferiche destinate ai supermercati, alle imprese artigiane dei pur piccoli centri della valle, ricordano brani d’un qualsiasi analogo poligono commerciale o industriale, piovuti quassù inopinatamente, come uno sfregio.
  Chiacchierando con il farmacista del capoluogo, apprendo che i Poteri regionali hanno favorito il dislocamento degli allevatori e contadini: la loro dimora, le stalle, i magazzeni, trasferiti dalle vie e vicoli paesani a siti fuori porta. L’effetto sgradevole non cambia. I vuoti come saranno riempiti? E, soprattutto, quale compensazione esterna potrà darsi? Il dottore è d’accordo, e parla di una selezionata qualità di meli resistente a questa altitudine come di un ritrovato capace di scalzare, con impianti d’arida tecnologia, l’attività dura e poco rimunerativa dell’allevamento zootecnico.
  Sicché, da capo, ritrovo il grave quesito: È possibile che il nostro tempo non sia in grado di pervenire alla soluzione delle sue esigenze in modo armonico e soddisfacente?

  Lamentare che le fattorie costruite sui prati e sui coltivi divorino a poco a poco le verdi distese e i biondi appezzamenti della segale e dell’avena, non significa cogliere nel segno. Il rammarico sta altrove, nella foggia ingrata dei manufatti, nella mancanza di armonia col Creato. D’altronde, lasciando stare la crisi attuale, da un pezzo l’avarizia indotta dalla brama dei godimenti instaurati distoglie da certe riflessioni sul decoro, al quale la stessa trascorsa povertà sacrificò parte delle sue sostanze, e si perde anche l’induzione per cui la povertà artistica presente mostra una corrispondente miseria spirituale, per cui la forma svela il contenuto donde proviene. 

Piero Nicola

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