lunedì 10 novembre 2014

Vicenda miracolosa di San Tommaso da Tolentino (di Piero Nicola)

SANTITÀ MISSIONARIA TRADIZIONALE

Vicenda miracolosa di San Tommaso da Tolentino


  Il culto del Beato Tommaso da Tolentino ebbe conferma nel 1894 da Sua Santità Leone XIII, e la storia del martirio di questo frate in India sta ad esporre il vero significato della Missione e la sua gloria, ossia come Dio contrassegna l’opera eroica svolta dai suoi evangelizzatori.
  Entrato molto giovane nell’Ordine Francescano, Tommaso, preso di zelo per il rigoroso voto di  povertà, aderì al movimento della stretta osservanza della Regola, fu nel gruppo degli Spirituali di Angelo Clareno. Per questo venne incarcerato (1275). In seguito, abbandonata la polemica teologica, fu inviato missionario in Armenia. Vi divenne consigliere del re Aitone, che lo mandò ambasciatore preso il Papa e i re di Francia e d’Inghilterra per chiedere soccorsi contro i Saraceni.
  Nicolò IV promise una nuova crociata. A Parigi vennero altri consensi. Ma ormai i maomettani avevano preso il sopravvento nel Vicino Oriente. Giovanni da Montecorvino sollecitava la venuta di frati alla sua missione di Pechino (“Se verranno i frati […] tutti si convertiranno a Cristo e saranno veri cristiani”, 13 febbraio 1306). Tommaso, dopo essere stato in Persia, stava adoperandosi per l’incremento dell’evangelizzazione nell’Asia Minore e in Tartaria, dove si era stabilito a Tabriz.
  Egli andò a Poitier da Clemente V, pontefice della cattività avignonese, per propugnare la causa della missione in Estremo Oriente; non fu però aggregato al seguito dei vescovi destinati alla Cina. Tornò in Armenia al Concilio per l’unione della chiesa armena con la Chiesa di Roma. Nuovamente in Persia, vi proseguì l’apostolato.
  Nel 1320 Tommaso ricevette l’ordine di recarsi in Cina con altri tre francescani: Giacomo da Padova, Pietro da Siena e Demetrio da Tiflis. Il padre domenicano Giordano da Severac fece parte della spedizione. Partiti da Ormuz, contro la loro volontà essi vennero sbarcati nell’isola di Salsetta, vicino a Bombay, e accolti a Tana da uno scismatico nestoriano.
  In un opuscolo intitolato La prova del fuoco (1962), Padre Alberto Ghinato O.F.M. Ordinario di Storia alla P. U. Antonianum, riporta in “versione letterale” la vicenda del martirio di Tana, stesa dal compilatore d’una “grande storia dell’Ordine francescano scritta intorno al 1370-1380”.
  Vi sono composti il racconto del superstite frate Giordano, che raccolse immediatamente prove e testimonianze, quello di un altro padre predicatore, Francesco da Pisa, e quelli dei francescani Odorico da Pordenone, Pietro di Giacomo e Ugolino.
  La relazione si apre con lo scritto di Piero della Torre, Vicario dell’Ordine, che così esordisce: “Il grande arcangelo Raffaele disse a Tobia: È cosa buona tenere nascosto il mistero del re, ma è onorifico esaltare le opere di Dio; e ancora: E voi benedite il Signore e narrate tutte le sue meraviglie”.
  Dopo l’introduzione, qui anticipata, del viaggio e dell’approdo, padre Giordano riferisce: “Quei cristiani ci suggerirono che qualcuno di noi si recasse nella città di Paroth, dove vi erano molti cristiani di nome, ma non battezzati; così avrebbero potuto essere istruiti nelle fede di Cristo e poi battezzati”.
  “Per comune consiglio” il frate dell’Ordine dei Predicatori, preso con sé un interprete, si imbarca alla volta di Supera “ove in antico il beato Apostolo san Tommaso aveva edificato una bella chiesa”, distrutta dai pagani e riedificata. “Battezzai colà fino a venti persone” egli ci informa, “ascoltai la loro confessione e diedi ad essi la santa Comunione”.
  Quindi riprende il mare diretto a Paroth. “Ma ecco che improvvisamente, con stupore di tutti, mentre c’era uno splendido sereno la barca su cui ero salito, prima che partissi si sprofondò presso la spiaggia”.
   Spedisce ai compagni una lettera affidandola ai due fedeli che l’avevano seguito. Giungono notizie allarmanti, egli non ascolta il consiglio di fuggire e viene a conoscere i tristi avvenimenti:
  Nella casa dello scismatico in cui i quattro frati Minori stavano nascosti, durante un litigio il marito picchia la moglie. Questa ricorre alla protezione del Cadì e porta a testimoni i “Rabbini Franchi, cioè i religiosi Latini”. Interviene Osep, un saraceno proveniente da Alessandria. Questi ritiene propizia una disputa sulla fede da tenersi con i Latini, da lui considerati esperti delle sacre Scritture. Poi va dal Melik, magistrato avente potestà civile, che chiama i frati e li interroga. Essi si dichiarano messaggeri di Cristo e vengono benevolmente congedati. Ma Osep mostra l’inimicizia dei Latini verso i saraceni. Ciò sarebbe insufficiente a destare sospetti, se il seminatore di discordia non provocasse un confronto dei quattro con il Melik, Bibbia alla mano. Il magistrato ignora il contenuto del Vecchio e Nuovo Testamento sacro ai cristiani, e domanda se approvino anche il Corano. Il “No” giunge schietto.
  “E il Melik: Perché no? È un libro di Dio e mandato da Dio. E cominciò a dire molte cose intorno alla sua fetidissima fede, soggiungendo alla fine: Tanto la nostra che la vostra fede sono buone. I santi risposero: La nostra certo è buona. Allora egli, quasi minacciando, disse: Che cosa dite? Ed essi: Diciamo la verità”.
  I monaci chiedono di potersene andare altrove. Il maomettano vorrebbe che gli lasciassero la Bibbia per mostrarla al soldano. Essi rifiutano: “Non possiamo stare senza questo libro”.
 Le manovre di Osep producono un altro incontro e una disputa con i saraceni, che negano la divinità di Cristo. “Fra Tommaso invece affermò fortemente il contrario con prove e argomenti […] illustrò l’affermazione [del “vero Uomo-Dio”] con molti esempi e ragioni”.
  Inoltre “i santi si sforzarono di addurre esempi e argomenti per provare la Trinità e la figliolanza di Cristo, in modo che i saraceni non sapevano più come far fronte a loro; eppure rimanevano induriti nella loco incredulità”.
  Il Cadì, presente alla controversia e indispettito, risolve la questione chiedendo che cosa dicano di Maometto.
  “Ora è da sapere che i saraceni hanno questa consuetudine, che quando non arrivano più a potersi difendere a parole, si difendono con i pugni e con la spada. Allora, a quell’interrogazione i frati risposero: Come ti abbiamo dimostrato, Cristo è vero Dio e vero uomo, e ha dato a noi qui sulla terra la nostra legge; ora Maometto ha dato una legge contraria alla sua e dice che non è Dio: dunque, se sei intelligente, comprendi da te quello che si deve dire di lui”.
  Il Cadì pretende un’affermazione ancora più esplicita. Al che, Tommaso da Tolentino dichiara che “Maometto è figlio di perdizione e che sta all’inferno col diavolo, suo padre; e non lui solo, ma anche tutti quelli che osservano la sua legge, che è pestifera, irragionevole, iniqua e tutta intera contro Dio e la salvezza delle anime. E non è affatto un profeta o un amico di Dio […] e sarebbe cosa abominevole, tra i fedeli, anche soltanto nominarlo”.
  Il Cadì minaccia impugnando la spada per costringerli a rimangiarsi quelle parole. Invano. Neppure le lusinghe valgono a piegarli. Si grida che siano giustiziati. Essi vengono legati e esposti ai raggi roventi del sole, cui non si poteva sopravvivere restandovi “per lo spazio di una Messa”.
  I santi martiri “vi rimasero dalle nove della mattina alle tre del pomeriggio”, uscendone “sani e incolumi, evidentemente per un grande miracolo del Signore”.
  Si accende un grande falò sulla pubblica piazza cittadina.
  “Vi getteremo in un gran fuoco” si dice loro, “e se la vostra fede, come dite, è vera, il fuoco non vi toccherà; se invece è falsa, vi brucerà subito”.
  Perfetta, la risposta:
  “Noi siamo pronti a entrare nel fuoco, in carcere, e a soffrire qualsiasi pena per Cristo; ma una cosa sappiate per certo: se il fuoco ci brucerà ciò non sarà per la falsità della nostra legge o della nostra fede […] ma dovrà imputarsi ai nostri peccati e alla permissione divina; se invece ne usciremo illesi, dovrà attribuirsi alla divina bontà e alla verità della nostra fede”.
  A Tommaso viene impedito di introdursi nelle fiamme. Gli infedeli sospettano che, essendo anziano con la barba bianca, disponga di poteri magici. Gli aguzzini scelgono Giacomo, che pure intende mettersi nel rogo spontaneamente. “Egli, fattosi il segno della croce, se ne stava illeso in mezzo alle fiamme come se si trovasse in un’aiuola di rose fresche”. Esaurito fuoco, egli esce dalle ceneri senza che “un pelo delle sue vesti si sia bruciato”.
  Il prodigio è così straordinario che il popolo grida: “Questi sono santi!” e chiede che siano risparmiati.
  Il Cadì nega, adduce una spiegazione del miracolo: la tonaca è fatta di lana della terra di Abramo, benedetta da Dio, quindi non brucia.
  Riaccendono un rogo e vi cacciano dentro Giacomo, spogliato e unto. Si ripete lo scampo soprannaturale, davanti a una folla di pagani, saraceni e pochi cristiani, che di nuovo li dicono uomini santi.
  Giacomo e i suoi compagni, interrogati ancora intorno alla fede, non deflettono. Al miracolato incombe la condanna alla decapitazione, nonostante le proteste della gente. Il Melik, riconoscendo la bontà e la giustizia dei condannati, li invita a lasciare la città per sfuggire al Cadì che li vuole morti. Essi vengono trasferiti al di là del braccio di mare che separa la città dalla terraferma. Ma il Cadì fa tali e tante pressioni sul Melik, in nome della preservazione della fede di Maometto e prendendosi ogni responsabilità di fronte a Dio, che l’uccisione è decretata, e tutti i cristiani del luogo sono messi in prigione. I carnefici raggiungono i monaci dicendosi contrari ad assolvere il loro compito iniquo, ma costretti dalla minaccia di morte che colpirebbe anche le loro famiglie.
  I frati rispondono: “Carissimi, fate pure quello che vi è stato comandato, perché con questa morte corporale ci guadagniamo la vita eterna”.
  Giacomo è il primo a cadere sotto il colpo di spada. Nell’esecuzione Tommaso, gravemente ferito, esclama più volte “Santa Maria!” Poi massacrano crudelmente Demetrio. E a tutti e tre viene tagliata la gola.
  È notte, la luna emana uno splendore così intenso da destare stupore nei presenti. Seguono tuoni, lampi, fulmini e grandine, come laggiù non si è mai visto. La nave che avrebbe dovuto condurre i religiosi a Ceylon, tappa del viaggio per la Cina, affonda e scompare definitivamente nel porto, con ogni evidenza ritenuto sicuro.
  Pietro da Siena, rimasto in casa a custodire la roba, viene condotto al Cadì, che gli promette grandi ricompense se rinnega la sua fede e abbraccia la legge di Maometto. Egli la disprezza, difende per ore la verità di Cristo. Subisce atroci torture.
  “Accorgendosi però che tutto era inutile, quei satelliti del diavolo lo presero e lo portarono davanti al Melik e gli raccontarono come non era stato possibile in alcun modo smuoverlo dalla fede e piegarlo all’islamismo. Il Melik montò su tutte le furie e ordinò di sospenderlo per il collo e impiccarlo, ma prima, di bastonarlo ancora più forte e più a lungo”.
  Le disposizioni sono messe in atto. “Rimase sospeso in quella posizione per due giorni e ancora non moriva, ché anzi se ne rimaneva illeso come poggiasse su solida terra”. Infine viene decapitato fuori della città.
  “Questi fatti furono testimoniati con grande meraviglia e assicurazioni di verità dagli stessi saraceni”.
  I miracoli riguardanti le spoglie e le reliquie dei martiri, i travagli e i castighi subiti da coloro che li condannarono, le apparizioni e le grazie meravigliose dovute ai quattro frati Minori formano un insieme tale da non poter essere riassunto brevemente.
  L’aureola e la santa palma ricevute dai francescani in epoca medievale avevano avuto inizio con il martirio (1220) dei cinque missionari inviati in Marocco da San Francesco e da lui esaltati. Nel 1227 altri sette suoi monaci furono uccisi a Ceuta, presso lo Stretto di Gibilterra. In quella terra islamica i missionari dovettero per lo più limitarsi all’assistenza dei cristiani ivi residenti, alla cui cura spirituale sarebbe stato impossibile dedicarsi svolgendo un’opera di conversione dei musulmani, che eliminavano i cattolici convertitori.


Piero Nicola

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