Il cinema che volle essere cattolico spesso non lo fu. La materia è
molto delicata e si può dire che, per evitare il tradimento (omissioni,
ambiguità, errori), sarebbe meglio che tale rappresentazione religiosa non avvenisse.
Gesù Cristo dichiarò che un solo errore posto nella dottrina la guasta tutta: risulta
importante il danno per le anime, per lo più soggette agli allettamenti delle
novità eretiche. Peggio ancora, confermare attualmente gli spettatori nell'eretico
conformismo. D'altronde qualsiasi racconto di vita, privato nel suo punto di
vista della verità cattolica, quanto meno omette e corrompe, è esso pure un
inganno, specie nei paesi latini.
I filoni narrativi prettamente cristiani sono due: quello della vita del
Messia e quello delle vicende dei santi. Fin dalla cinematografia del muto, la
storia del Salvatore viene riproposta con dovizia di impegno e di mezzi. Nel
1916 esce il film Christus del
prolifico regista Giulio Antamoro. La pellicola risente di limiti artistici, non
sono risolti abbastanza quelli espressivi; viene impostata mediante brevi
quadri animati di episodi del Vangelo. Alcune scene riprendono i dipinti famosi
di maestri del pennello. Ma sono inseriti brani di fantasia e alcuni si
allontanano dai testi canonici, come gli accostamenti, piuttosto ermetici, ai
monumenti sacri dell'antico Egitto. Anche l'immagine del calice, ricevuto da
Gesù nell'Orto di Getsemani, lascia perplessi. Nel complesso, a parte le
suddette digressioni e le quasi inevitabili lacune, la ieraticità e
l'essenziale rispettano il Nuovo Testamento.
L'INRI del 1923, girato dal
celebre R. Wiene, è meno ampio, afflitto da lentezze, sebbene maggiormente
espressivo e largo di primi piani.
Venendo al parlato, troviamo Golgotha di Julien Duvivier. L'opera fu spettacolare,
realizzata senza risparmio, impiegando masse di comparse, anticipando l'avvento
dei colossal hollywoodiani.
Stilisticamente appare retorico e con soverchie insistenze. Dottrinalmente,
discreto. Però la Consacrazione del pane e del vino nell'Ultima Cena è
manchevole, così come delude la recitazione di attori del calibro di Jean
Gabin, nella parte di Pilato.
Il Vangelo secondo Matteo (1964),
dedicato da Pasolini a Giovanni XXIII, prosegue
ancora con sufficiente fedeltà al testo. La qual cosa non lo riscatta da una
forma che offende la Storia sacra e il senso sacro. Oltre alla scelta di
esterni squallidi, in una città morta qual era Matera e in aridi paesaggi,
manca anche un solo interno. Il processo al Sinedrio si svolge di giorno. Ma
ciò che urta sono i visi e le espressioni: volgari. Il volto di Cristo è troppo
umano, privo di spiritualità e di luce autorevole o divina. I suoi detti sono
banalizzati da una recitazione dilettantesca, quasi inespressiva. Scoperto, l'intento
di rendere abusivamente proletari i personaggi santi o che diverranno tali. Non
si tratta di realismo, bensì di materialismo. Impersona la Madonna una giovane
popolana irrimediabilmente prosaica, dall'aria spesso imbronciata, da cui
traspare un'anima non redenta. Di nuovo, latita la resa di grazie, in un rito
della Consacrazione delle specie affatto inadeguato. Mancano alcuni prodigi avvenuti
alla morte del Signore, e notevoli particolari della sepoltura e della
Resurrezione. In definitiva, anche la limitazione della vicenda al solo Vangelo
di S. Matteo denuncia la tendenziosità dell'opera.
Col trascorrere degli anni, attraversando il tempo del Concilio Vaticano
II, si va di male in peggio. Nel 1975 Roberto Rossellini (morto nel 1977), che
già si era cimentato con san Francesco e Giovanna d'Arco, Agostino d'Ippona (1972) e Atti
degli Apostoli (1974), termina con Il
Messia. L'introduzione, riguardante il Vecchio Testamento, assume una
singolare piega socio-politica: il Popolo eletto, che era stato guidato da sommi
sacerdoti sotto il regno di Geova, da Saul in poi si era dato un re terreno, e
questi regni avevano costituito una decadenza, data la loro umanità sovente
dispotica, fallace sino all'empietà. Il Messia si rivelò invece antimonarchico,
affatto egualitario. Dopo questa tesi erronea, come in Pasolini incontriamo
nella Sacra Famiglia facce e attitudini che nulla o ben poco hanno di
edificante; il ruolo di san Giovanni Battista è affidato a un attore la cui
rozzezza cancella l'ascetismo, la forza delle sue ammonizioni assume un tono di
sindacalista ante litteram. In bocca
a una semplice seguace del Maestro si mette una profezia di futura palingenesi,
di millenarismo gioachimita. Tornano gli scenari desolanti, inframmezzati allo
squallore degli interni. L'autore di un Europa
'51 colorato di comunismo, ripropone per bene gli articoli del Decalogo.
Questi artefici scandalosi per idee e condotta (omosessualità, divorzio) e che
non diedero pubblica prova di ravvedimento, gettano comunque la loro ombra sui
film da essi fabbricati. Ne Il Messia
poi, i miracoli non ci sono, salvo uno che viene soltanto nominato. Ciò in
accordo con la sostanziale omissione della divinità del Redentore. Così la
celebrazione del Sacrificio eucaristico sparisce, in gesti destinati ad essere
meramente commemorativi.
Pure il filone di Giovanna d'Arco prende origine nel cinema muto.
Notevole fu La passione di Giovanna
d'Arco (1928) confezionata dal francese C. T. Dreyer. Processo, sala di
tortura e subitaneo svenimento dell'accusata, confessione, ritrattazione e salita
al rogo, sono resi con vigore soprattutto per mezzo dei primi piani, che
ritraggono un'attrice straordinariamente espressiva. Tuttavia ricorrono le
insistenze sul pianto della Pulzella, sulla truce perversità e sulla malizia
dei giudici. Gli orribili ceffi degli inquisitori potrebbero appartenere ai
peggiori criminali comuni. Le affermazioni della giovane, ignorante e
sprovveduta di nozioni teologiche, escono nondimeno dall'ortodossia, sono
suscettibili di fraintendimento. Essa conferma d'essere "figlia di Dio".
La condanna di eretica relapsa fu senz'altro iniqua e giustamente revocata
dalla Chiesa che, al contrario, canonizzò la Pulzella d'Orléans, valorosa nella
riconquista del Regno di Francia, grazie all'Onnipotente. Ma sembra eccessivo
che l'intero tribunale fosse empio, tranne un suo membro, come riportato nella
pellicola, i cui autori sostengono di regolarsi sui rinvenuti atti del giudizio.
La
Giovanna d'Arco di Victor Fleming
(1948), protagonista Ingrid Bergman, si apre con la solenne, papale
proclamazione della santità di lei. Credo che su quest'opera dignitosa un
qualsiasi istruito figlio della Chiesa trovi poco da eccepire. Encomiabile è il
brano che mostra la Pulzella pretendere dall'esercito le virtù (né donne, né
bestemmie, né gioco d'azzardo) e chiedere la confessione dei combattenti,
ponendo la purificazione e l'osservanza quali condizioni per la divina concessione
della vittoria.
Di
questi tempi insensati, molli e sofistici, può essere di conforto rilevare che
i pontefici approvarono l'eroina combattente per la Patria contro lo straniero
invasore, avendo lei testimoniato che Dio voleva la guerra, e la volle quando
ancora il re inglese non era eretico e scismatico.
Nel 1954 Rossellini curò la regia di Giovanna
d'Arco al rogo, una rappresentazione di tipo operistico, già data nei
teatri europei secondo il libretto di Paul Claudel e la musica di Arthur
Honnegger. Situazione fantastica. Giovanna (Ingrid Bergman) portata in cielo
dagli angeli, vi incontra San Domenico e chiede che le vengano tolti gli
scrupoli circa la sua condanna d'aver agito da eretica servendo al diavolo. Il
Santo la rassicura mostrandole la scena della corte che la giudicò, i cui
uomini hanno le fattezze di bestie immonde e superstiziose. Giungono le
rassicurazioni di Santa Caterina e Santa Margherita, che la ispirarono. Ma
dovendo rispondere al fondatore dell'Ordine domenicano, che le domanda la
spiegazione dell'uso della spada, ella dimostra la sua essere stata una spada
d'amore: abolendo la giustizia, pure affidata ai ministri del governo secolare
e per la difesa della Patria. Liberata dal dubbio, la Santa torna
all'immolazione del rogo di Rouen, e ascende tra i beati.
Una terza serie ci presenta San Francesco d'Assisi. Rossellini diresse Francesco Giullare di Dio (1950).
L'attributo giullare è inappropriato,
fuorviante e persino irriverente, per un pubblico che non ne conosca il
significato inteso dal Santo. Gli episodi del film sono distanti dalla verità
storica. Il che potrebbe recare la giustificazione delle idee desunte dai Fioretti di San Francesco, notoriamente
privi di conformità ai fatti reali. Il fallo del regista sta soprattutto nella presunta
dottrina predicata e praticata. Nel racconto, che comincia col ritorno da Roma,
dove Francesco conseguito l'approvazione
papale dell'ordine (1209), non compare alcuna celebrazione della Messa o di
altro ufficio alla Porziuncola (chiesetta restaurata dal Santo), mentre sin dal
febbraio 1209 vi fu celebrata almeno una Messa. Tra i primi discepoli si annoverarono
un nobile e un dotto canonico. Tali personaggi sono assenti ed è assente il
sembiante di Francesco, rampollo di ceto abbiente, figliolo raffinato e
spirituale, sostituito dal Rossellini con un giovane di fisionomia plebea. Francesco
ricevette la protezione del suo vescovo e d'un cardinale, fu sempre ossequente
verso la Chiesa e le sue istituzioni; di tutto questo non riscontriamo traccia;
e fu predicatore del Vangelo. I detti che gli vengono messi in bocca secondo
cui "non è con le parole ma con l'esempio che si conquistano le
anime" e "se anche fossimo capaci di convertire tutti gli infedeli
alla fede di Cristo, non sta in ciò la perfetta letizia" portano fuori
strada. Avendo assistito a un omicidio, il priore e il confratello si
allontanano abbandonando il morto. L'ammonimento di "non fare del male a
frate fuoco" rivolto a fra Ginepro è fuori luogo. Il ricevimento di Santa
Chiara rimane destituito dell'investitura di lei quale fondatrice dell'ordine
femminile. Prima della parola fine,
l'invio dei fratelli per l'apostolato nel mondo è accompagnato dalla sola
raccomandazione di predicare la pace.
Franco Zeffirelli chiude il suo Fratello
sole, sorella luna (1972) dove si apre Francesco
Giullare di Dio, ma lo fa commettendo il sacrilego falso storico che
vedremo. Inizia mediante un prologo prolisso e estetizzante, ancora
accettabile, in cui Francesco cavaliere va alla guerra contro Perugia, per
tornare infermo. Quindi esce all'aperto, ispirato amante della natura, delle
vite e delle cose create, piuttosto che del Creato. "Sono parte di
un'immensa vita" egli dice, mentre le immagini non illustrano che le
bellezze dei regni vegetale e animale. Durante la Messa solenne grida:
"No" alla funzione, e il Cristo coronato implica un "No"
anche a Lui, essendo subito accostato al Cristo semplice della tradizione
precedente, rimasto sull'altare della chiesa campestre diroccata. Segue un
blasfemo: "Dio è il mio solo giudice", che pronuncia dopo aver
gettato platealmente le merci paterne alle mani dei poveri. Davanti al Vescovo egli
si oppone alle leggi, all'ordine stabilito, facendo valere, con un sermone in
piazza, dei precetti che varrebbero soltanto per i destinati alla vita di perfezione.
Per giunta, a simboleggiare la liberazione della povertà, si spoglia nudo,
dando uno spettacolo osceno e inconcepibile: quasi di nudista progressista. Il
cavaliere Bernardo, di ritorno dalla Terra Santa, denigra la Crociata e
raggiunge l'amico rivoluzionario, il quale direbbe all'Imperatore (atteso in
città, dovendo andare a ricevere la corona dal Papa) che getti via i simboli
del potere (la spada e lo scettro) e provveda ai poveri da lui vessati. Questa
reprimenda, che investe un temporale istituto divino, non trova scusanti, sa di
presunzione comunista. Alle riunioni dei fedeli alla Porziuncola, e in altre
occasioni, si intonano canzoncine melense, arieggianti quelle che
accompagnavano le nuove messe di Paolo VI. A un aspirante seguace che si
affligge per la sua impurità, Francesco dice che la castità non è per loro un
voto indispensabile, lasciando intendere che non sia un precetto, né accenna alla
casta congiunzione matrimoniale. Si limita a consigliare all'amico di cercar
moglie. Di fronte all'omicidio di un suo assistito, assassinato dalla fazione
nemica del suo movimento, si sconcerta, dubita del proprio operato, anziché
rassegnarsi da cristiano, rimettendosi al volere del Signore. In che modo la
perdita di quella vita umana poteva dipendere da lui? A questo punto, si avvia
il falso più evidente. Francesco si reca dal Papa per sincerarsi della bontà
del proprio procedimento. Il vero Santo andò a Roma per sottoporre la regola
monastica in cui credeva; ma di essa Zeffirelli non fa cenno alcuno.
All'udienza pontificia salta all'occhio l'abbigliamento laido dei postulanti
provenienti da Assisi, e l'incredibile sfarzo della corte del Papa, paludato
come un satrapo orientale. Inopinatamente e coram
populo, colui che ha chiesto udienza tiene un sermone evangelico sulla
virtù della povertà. La qual cosa suona di rimprovero ai presenti. I dignitari
gridano giustamente all'offesa. Infatti la parzialità dell'argomento sostenuto e
l'affronto sono indiscutibili. Ma il pontefice richiama gli scacciati e dà
ragione al predicatore. Il vero Francesco non si sarebbe comportato così, come
non si indignò di fronte alle crociate. Predisse soltanto ai crociati che le
loro rivalità li avrebbero perduti. Inoltre fu sempre animato dal desiderio di
convertire gli infedeli e gli eretici. Quanto al volto del protagonista, non è molto
più nobile di quello rosselliniano.
Sorvolo abbastanza su Francesco
d'Assisi (1966) di Liliana Cavani, notando che il filmato ha diversi punti
in comune con Fratello sole, sorella luna
e che, quando gli errori dell'uno non uguali agli errori dell'altro, le
cadute di entrambi si equivalgono. Qui il genitore di Francesco agisce da
aguzzino coi gli operai della tessitura; i figlio si rende responsabile d'aver
rubato la roba del padre; avendo regalato tessuti e denari ai poveri senza
discernimento, alza le spalle all'obiezione morale di un amico, risponde al
Vescovo che l'amministrazione di beni, frutto di donazione, sarebbe d'impaccio
al loro compito, infine replica che piuttosto "scandalo è la sofferenza
della gente, è la fame". Questa sentenza generica e quindi falsa, rivela l'intento
politico dell'autrice. Una torna di cittadini si rivolta contro il sovvertitore
della civile convivenza e contro i suoi compagni. Usciti malconci dal
tafferuglio, essi la prendono in ridere. Per loro "il denaro è una cosa
sporca". A proposito dell'amore per Cristo e per il prossimo questo
Francesco spiega che "Lui è presente in ognuno", con una deviante
identificazione. Infine: "Ci sono migliaia di uomini che fanno questo
sforzo [l'indigenza da sostenere, ordinata ai suoi religiosi] perché vi sono costretti.
E io mi vergogno, se vedo uno più povero di me".
Le apparizioni e i miracoli aventi per soggetto, nel 1858, Bernadette
Soubirous e, nel 1917, i tre bambini di Fatima, misero alla prova il cinema
americano, e meno quello francese e italiano.
Al poliedrico Henry King si deve un Bernadette (1943) caratterizzato da
forte recitazione e calibrate sequenze. Scarsi appunti possono muoversi alla
fedeltà circa gli avvenimenti, eccezion fatta per la crisi di speranza manifestata
dalla Veggente, crisi concentrata in prossimità della sua dipartita. Inoltre,
due sbagli non vanno taciuti. Una didascalia iniziale recita: "Per coloro
che non credono in Dio nessuna spiegazione è possibile". Se la fede è
virtù necessaria alla salvezza, la prova del fenomeno soprannaturale è
possibile per tutti, sebbene la scienza
ufficiale non voglia ammetterlo, supponendo che l'inspiegabile debba prima
o poi e in qualche modo avere una spiegazione naturale. Il parroco parla
dell'Immacolata Concezione come di un rompicapo per i teologi, quando di essa
era già stato definito il dogma nel 1954.
In generale, la cinematografia contemporanea al sorgere del
neo-modernismo nella Santa Sede e successiva ad esso, non merita
considerazione. Tuttavia il francese Bernadette,
Miracolo a Lourdes (2011) di Jean Sagols si attiene alquanto alla veridicità;
talché può essere nocivo per il pubblico maggiormente ortodosso, non ancora
corrotto dalla nuova teologia, ma non abbastanza istruito. In apparenza, tutto
nella narrazione corrisponde e fila, eppure, all'epilogo, Bernadette dice alla
Madonna: "Mi avevate promesso che sarei stata felice nell'altra vita, ma
io felice lo sono già". E il film termina prima della malattia che
l'uccise (1879) e che fu colma di sofferenze. Nel testamento spirituale, ella
ringraziò il Signore per le varie pene subite, anche spirituali, tutte
giovevoli a se stessa e agli altri.
Quanto
ai miracoli, restano affidati al concetto personale; viene celato l'esito dell'interrogatorio
di Bernadette da parte dell'Autorità ecclesiastica, e nulla si apprende
dell'approvazione pontificia del Santuario (1876), né dell'innalzamento della Veggente
agli onori degli altari.
Il
Nostra Signora di Fatima (1952), del regista
John Brahm, altresì corretto nell'insieme, tralascia la pur notevole
apparizione dell'Angelo del Portogallo, che prelude a quella della Vergine.
Altro particolare non trascurabile: la corale recita del Credo s'interrompe
prima di nominare la "santa Chiesa Cattolica, la comunione dei santi, ecc."
Assistiamo allo straordinario fenomeno del sole (qui anziché ruotare nel cielo,
ingrandisce e diminuisce) e il riconoscimento ufficiale del culto della Vergine
di Fatima, voluto dalla Chiesa. Ma, una volta di più, la Chiesa non compare
qual è; gli agnostici, i perplessi non sono posti al bivio da una Chiesa che si
proclama detentrice esclusiva della Verità e della salvezza; si nasconde che
anche il solo dubbio rifiuta in toto
la Madre e Maestra, la quale rifiuta di non essere creduta completamente.
Un restante gruppo di santi ebbe le sue più o meno brave testimonianze
sullo schermo. Con Monsieur Vincent (1947)
Maurice Cloche rievocò San Vincenzo de' Paoli in una chiave di carità alla
Madre Teresa di Calcutta: ammirata dai compassionevoli delle peggiori miserie
umane, ma così chini su di esse da scordare il più importante: la salvezza
delle anime. Gli autori sottraggono a San Vincenzo de Paul e a quanti lo
conoscono poco o non lo conoscono la sua grande cura del destino ultraterreno,
la Congregazione della Missione da lui istituita, e il suo essersi opposto alle
eresie giansenista e quietista.
In Italia, Goffredo Alessandrini si distinse dirigendo Don Bosco (1935), puntuale biografia, che rende il debito al celebre fondatore dei
Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice. Nulla vi è concesso a idee
sociologiche e politiche, esulanti dal tema.
Nel
1939 Alessandrini girò Abuna Messias,
storia della missione svolta in Etiopia dal cardinale Guglielmo Massaia,
intorno alla metà dell'Ottocento. La sua opera caritatevole, civilizzatrice e
pacificatrice tra il re Menelik e il Negus venne contrastata da intrighi e
rivalità, cui partecipò il capo copto Atanasio, e l'eroico missionario fu
costretto a rimpatriare.
Il sole di Montecassino (1945). Un
monaco riprende un'abitante di Montecassino in fuga dalla devastazione della
guerra tra Alleati bombardieri e Tedeschi sulla difensiva. La donna non dica:
"Dio ci ha abbandonati". Egli ricorda, per immagini, che Benedetto da
Norcia, avendo lasciato il suo stato di patrizio romano per darsi alla vita
ascetica, fece fronte a discordie civili e alla barbarie dei Goti, avendo
fondato il monastero. Dopo alcune deficienze per quanto riguarda il culto, il
torto maggiore dei cineasti (Giuseppe Maria Scotese, Diego Fabbri, Mario
Monicelli) è di chiudere il cammino di Benedetto con una predizione di futura
redenzione dell'umanità.
L'eccellente Augusto Genina concepì e diresse Cielo sulla palude (1949), premiata riproduzione della vita di
santa Maria Goretti, morta a Nettuno nel 1902 all'età di dodici anni, essendo
stata ferita dal giovane che tentò di violentarla, poi convertito in carcere.
Antonio di Padova (1949) diretto da
Pietro Francisci. Il ragazzo Fernando rivive le vicende del Santo originario
del Portogallo. Dopo una visita al Santuario di Padova, sfoglia un libro
dedicato a quel grande francescano, vuole entrare in religione. Il padre lo
contrasta, disprezza il suo desiderio. La madre, che pregò Sant'Antonio per il
ritorno del marito dalla prigionia, protegge il figliolo. Infine la famiglia si
riconcilia sotto l'ala della Chiesa.
Margherita da Cortona (1950). A causa di
un padre debole e di una matrigna perversa, Margherita, pastorella candida,
resta alla mercé della propria umana fragilità. Divenuta amante d'un cavaliere,
ucciso a causa di un complotto, si vota alla penitenza e presterà le ultime pie
cure alla matrigna ammalata di peste. Fu proclamata santa da Benedetto XIII.
Mario Bonnard interpreta bene la sceneggiatura d'un soggetto le cui libertà non
alterano il succo.
Da noi, a partire dal cinema sonoro sino allo spirare degli anni
Cinquanta ci fu bastante serietà e rispetto dell'ortodossia, sotto l'egida
della censura propiziata dall'Autorità ecclesiastica. Nello stesso periodo, assai
meno schiettamente si procedette in America (ma talvolta anche a Roma) calandosi
in un ambiente cattolico, come avvenne coi titoli seguenti.
Nel 1944, sotto i governo della repubblica sociale e l'occupazione
tedesca, nel rifugio dello Stato Vaticano De Sica girò La porta del cielo. Sul Treno Bianco della Croce Rossa che da
Reggio Calabria porta malati e invalidi a Loreto, si rievocano quattro storie
di colpiti nelle fisiche facoltà. Sennonché il motivo (al pari di quello
d'altri compagni di viaggio) che li spinge a sperare nella guarigione miracolosa
è inverosimile, inconsistente anche da un lato psicologico. La loro fede o
devozione non danno segno di esserci. Soltanto in un caso si possono supporre
abbastanza. D'altra parte, nuoce alla obiettività l'incarico di scrivere la
sceneggiatura assunto controvoglia dal miscredente Zavattini. La direttrice del
trasporto, che raccoglie di stazione in stazione i disgraziati quasi fosse un
convoglio diretto a Lourdes, è una nobildonna rigida e autoritaria. I ricchi
borghesi entrano marginalmente e a sproposito nella vicenda (che, per inciso,
non appare avvenga in tempo di guerra) nelle vesti di insensibili e grassi
egoisti. La diffusa sgarbatezza e inciviltà sono tendenziose, anticipatrici del
neorealismo. Qualche riscatto è dato dal finale, in cui un'anziana invalida
viene miracolata durante l'Ostensione Eucaristica nel Santuario e la liturgica
richiesta di grazie, e quando un incredulo pianista dalla mano arida, riceve la
grazia spirituale della conversione. Ma si avverte l'intervento del Clero, che
concesse asilo alla troupe in cambio di un film religioso.
Le chiavi del Paradiso (1944), tratto
dal romanzo Le chiavi del Regno. John
M. Stahl elaborò abilmente le riprese concernenti il caso del bel giovane la
cui vocazione lo conduce a diventare missionario in Cina. La sua apertura
mentale e la sua moderazione, se da un lato lo salvano nelle traversie e gli permettono
di creare una fiorente casa, che ospita la scuola gestita dalle monache,
d'altro canto lo menano viepiù a compromessi teologici e canonici. Essi però
vengono giustificati, prima e dopo, quando lui, ormai vecchio parroco nel
proprio paese, procurerà tramite lo scritto delle sue memorie il ravvedimento
del superiore che, per le sue omelie eterodosse, lo destituirebbe dall'ultimo
incarico di curatore di anime.
L'inganno
è grave, si colloca nell'alveo dell'americanismo, condannato dalla Lettera Testem benevolentiae (22.1.1899) di
Leone XIII. L'intenzione, bollata, era di rendere il cattolicesimo accetto anzitutto
ai protestanti, spacciandolo alla stregua di una dottrina che non solo li
tollerava, ma ammetteva un'amicizia e una collaborazione da parte del clero di
Roma. Dunque una forma di quell'ecumenismo, in seguito esecrato da Pio XI. Nel
film, l'eresia si manifesta nei rapporti con i confuciani, con un amico ateo,
con il dottore della missione protestante. Ai primi il sacerdote presta il
credito della buona volontà e non cerca loro conversioni. Col secondo, anche
quando è in punto di morte non muove un dito perché si ravveda, anzi accetta
benevolo e speranzoso il rifiuto di Dio ripetuto dell'ostinato. Riguardo ai
protestanti, rinuncia a rappresentare il solo, imprescindibile e obbligatorio
Credo del Signore.
Per non ripetermi, evito di prendere in considerazione i vari filmoni bivalenti
o trivalenti sul Vecchio e sul Muovo Testamento, sfornati da Hollywood e dintorni.
Proseguo l'elenco dei titoli suddetti, sotto i quali si dipanano delle commedie
venate di motivi drammatici. Attore protagonista delle prime due fu Bing
Crosby, della terza, Spencer Tracy.
La mia via (1944), regista Leo McCarey.
Trama esile e garbato svolgimento. Un giovane prete inviato a sostituire
l'anziano parroco, usa accorgimenti perché non ne esca mortificato. Intanto
conduce a prosperità la parrocchia con nuovi metodi, che asserisce non mutino
la sostanza. In effetti, il gentile seguito di episodi è rivolto a non
dispiacere ai non cattolici.
Le campane di Santa Maria (1945). Lo
stesso regista, che si avvale del prezioso ausilio di Ingrid Bergman, torna a
oscurare l'aspetto liturgico: dei Sacramenti e dell'osservanza dei fedeli. Non
ci imbattiamo in vere e proprie omissioni o nelle ambiguità delle patinate
pellicole bibliche. Ma la questione morale sulla giustizia nell'insegnamento
scolastico sarebbe risolta dal reverendo con l'indulgenza umanitaria. La
superiora, avendo dovuto bocciare un'alunna, successivamente la promuove perché
si viene a sapere che la ragazza, per suoi buoni motivi, ha dissimulato la sua
più che sufficiente preparazione. Ma il sacerdote non si è ricreduto, per cui
si può capire che fin da principio egli abbia avuto ragione.
La Città dei ragazzi (1938), diretto da Norman
Taurog. Viene fatto di pensare a Don Bosco, prendendo in esame il sacerdote statunitense
dedito alla sistemazione dei ragazzi orfani e sbandati, per i quali erige e
organizza una loro Città.
Disgraziatamente tra il Santo piemontese e padre Flanagan si apre un abisso.
Non dipende dal divario esistente fra la società politica e multireligiosa
americana del terzo decennio del Novecento e l'ottocentesca condizione della
cittadinanza torinese e limitrofa, pure minacciata da socialismo empio e
inquinata dal liberalismo. Se occorre rimarcare lo strisciante americanismo per
cui alla comunità dei ragazzi è garantita l'ampia libertà di opinione e
l'assoluta libertà di credo o di ateismo in un Istituto cattolico, dove non
compare mai la cappella e un ufficio sacro, dove non si tenta né avviene una
conversione, dove, quando il padre direttore vuol ricorrere alla preghiera, ne
scorgiamo appena un accenno nel suo studio, le doverose note scompaiono di
fronte a una tesi sostenuta e confermata: non ci sono ragazzi cattivi, non ci
sono discoli condannabili, non ci sono piccoli delinquenti. Essi lo diventano
loro malgrado, obbligati da situazioni ambientali deprecabili. In fondo, è la
negazione del peccato originale. Il ragazzo ha una responsabilità analoga a
quella dell'uomo, entrambi sono peccatori, inclini al male. Lo scapestrato del
film, giunto nella Città degli ex
corrigendi non è che un teppistello all'acqua di rose, che crea problemi seri
allorché viene incolpevolmente e accidentalmente coinvolto dal fratello
gangster, durante una rapina. Per non tradire il congiunto, egli turba la
coscienza di padre Flanagan tanto da destare l'interesse dello spettatore,
tanto che alla fine si abbia modo di ribadire la teoria d'un film facile e
insincero. Se il ragazzo fosse un autentico cattivo soggetto, è pur vero che
avrà un lato buono e che esiste per lui la possibilità di farlo prevalere,
specie se aiutato; con tutto ciò, potrà invece procurare molto male, rimanere
una malfattore, divenire un adulto dissoluto. Un cinema più onesto ha creato
giovani e adulti colpevoli, finiti impenitenti o redenti, o ricaduti, del tutto
credibili.
Ad ogni modo, non si mette da parte la necessità di entrare nell'Ovile.
È tradire Cristo mettere la lampada sotto il moggio davanti al pubblico
mondiale, celando gli eventuali motivi, dettati dalla teologia morale, per cui
si nasconde ai ragazzi tutta Verità indispensabile.
Discorso a parte merita La Croce di fuoco (1947) di John Ford, interprete principale Henry
Fonda. Il canovaccio proviene da un romanzo dello scrittore cattolico inglese
Graham Greene. In un piccolo stato dell'America equatoriale, il regime ateo ha
messo al bando la religione e i preti, tutti sterminati o fuggiti. Uno di essi,
rimpatriato piuttosto orgogliosamente per riprendere il suo ministero, fallisce
per viltà, lasciando uccidere un fedele che, consegnandosi, avrebbe potuto
salvare. I toni narrativi sono esasperati, quasi da western: soldataglia
inutilmente vandalica, leggi ultradraconiane, proibizione del vino e degli
alcolici, corruzione totale della classe dirigente e nella truppa. Chi non
sgarra è il rigido e spietato comandante, che persegue l'ordine e bracca il
sacerdote fuggitivo. Questi, aiutato da una fedele nelle sue peregrinazioni talvolta
apostoliche, dopo essere espatriato, ritorna per soccorrere un bandito morente
e decide di espiare. Le pecche: somministra il battesimo ai bambini del
villaggio adoprando una formula del tutto sommaria; rifiuta la confessione a uno
spione infido e untuoso. Tuttavia, i restanti compiti sacerdotali appaiono
osservati.
Film italiani di argomento alquanto cattolico furono:
I promessi sposi (1941), mirabilmente
orchestrato da Mario Camerini e lodevolmente recitato dai maggiori attori
dell'epoca, non si discosta dal romanzo manzoniano.
L'uomo dalla croce (1943) di Roberto
Rossellini, con l'ottimo accompagnamento musicale di suo fratello Renzo, narra
di un cappellano dei carristi sul fronte russo. Rimarchevole è l'abnegazione da
lui dimostrata nelle cure spirituale e materiale prestate a un ferito grave e,
in ultimo, l'aver ottenuto di far recitare, in
extremis, il Padre Nostro a un sovietico, coinvolto nella ricerca di scampo
sotto l'infuriare della battaglia.
Il ponderoso italo-francese Fabiola
(1949 di Alessandro Blasetti riproduce, permettendosi una certa licenza, le
vicende del romanzo omonimo. Il gladiatore gallo e la patrizia Fabiola, amanti
conquistati dalla fede dei martiri, in mezzo alla corruzione dei costumi
romani, vedranno premiata nell'arena la loro volontà di sacrificarsi per
Cristo.
Ne
La voce del silenzio (1953)
dell'austriaco G. W. Pabst, con interpreti e produzione italiani, un chierico
predica doverosamente il ritiro spirituale a una congerie di anime tormentate e
sviate, ma è travolto dai dubbi sulla sua condotta dell'apostolato e, nonostante
conservi la fede, decide di abbandonare il sacerdozio. Appena uscito nel mondo,
in strada lo chiamano per l'unica assistenza ancora possibile da recare a una
donna investita da un autocarro. L'atto di pregare per lei e di darle l'assoluzione
lo invia a riprendere la veste talare. Ma la sceneggiatura che approfondisce i
nodi dei costumi ignavi e ipocriti, i dilemmi morali, la scelta luciferina
della disonestà, è scritta da troppe mani, e forse pecca a causa
dell'interpretazione di un soggetto dovuto a Cesare Zavattini. Al prelato che
sovrintende il raduno e che approva le giuste prediche pronunciate, si mette in
bocca una massima come questa: "Siamo tutti responsabili dei delitti
commessi dal prossimo, tutti responsabili gli uni degli altri". E troviamo
anche un implicito consenso a una coscienza che, con la sua presunta rettitudine
e generosità, trasgredisce alla Legge divina.
Augusto Genina nel 1954 diede alle sale cinematografiche Maddalena. Donna tutt'altro che santa,
prostituta, si presta a indossare i panni della Vergine in una processione
paesana. Il gesto sacrilego le è suggerito da un maggiorente ateo, in spregio
al parroco e ai fedeli, e dalla vendetta di lei per la morte della sua
figlioletta, che bruciò viva in un improvviso incendio del velo della prima
comunione, quando stava ai piedi della Madonna. Scoperto dal curato il vero
essere di Maddalena, giunta sotto mentite spoglie, ella si confessa rea, e
respinge sia la protezione sia profferte amorose del suo mandante. Le è stata
attribuita una guarigione miracolosa, ed è tardi per evitare lo scandalo.
Durante il corteo mariano, il reprobo, schernendo un giovane invaghito della
donna, ne denuncia la dissimulata identità, e il popolo, sobillato dai maligni
facinorosi, la lapida.
In Gran Bretagna La fine
dell'avventura (1955) di Edward Dmytryk, soggetto di Graham Greene, verte
sulla soluzione alta, offerta dalla Chiesa romana, al drammatico mistero
esistenziale sofferto da chi è in balia delle passioni. Una moglie fedifraga,
inappagata dal grande amore, approda, incompresa, alla conversione. Lei morta
di polmonite, il suo innamorato, rimasto incredulo, leggendo una lettera
lasciatagli dall'amata vede aprirsi nella propria disperazione un barlume
dell'esistenza di Dio.
In
Francia Lo spretato (1953) diretto da
Léo Joannon mette in evidenza la fede nella presenza reale di Cristo
nell'Eucaristia e l'ordinazione irrevocabile del sacerdote. Lacassagne, giovane
sottufficiale
francese scopre che Morand, suo
commilitone e amico, più anziano di lui, è un prete apostata. Reduci ambedue,
mantengono l'amicizia, nonostante le intemperanze dello spretato e una sua profanatrice
consacrazione del vino, forse invalida, data la sua parzialità. Però il giovanotto,
bevendo il vino perché non vada disperso, lo ritiene sangue di Cristo. Seguendo
la vocazione, è entrato in seminario e diviene sacerdote. Nel frattempo non ha
mai cessato di adoprarsi affinché il caustico e pervicace Morand rientri
nell'Ovile. Una sera costui, reagendo come un ossesso alle buone intenzioni di
Lacassagne, lo travolge facendolo precipitare giù per le scale. Il neo-ministro
di Dio muore fra le braccia del reprobo, che chiede perdono e si redime. "Sono
un prete cattolico" dichiara, consegnandosi ai gendarmi.
Per concludere, passiamo agli svariati film che, talvolta
incidentalmente, confermarono il Credo, quando esso poteva a suo agio
mantenersi intatto e il vento invadente e pestifero del Vaticano II era di là
da venire.
Ecco un Pietà per i giusti
(1951) di William Wyler, ambientato nella metropoli nuovayorkese, in
particolare, all'interno di una stazione di polizia. L'agente McLeod non
tollera il garantismo legale che permette di cavarsela ai delinquenti, a un
medico che pratica l'aborto. L' intransigenza si ritorce contro il severo
tutore dell'ordine, colpendolo nel suo matrimonio. Dopo aver provocato
l'allontanamento della moglie, rivelatasi antica cliente del famigerato
dottore, e pretendendo una rigorosa applicazione della legge verso gli
occasionali arrestati condotti nell'ufficio, uno di loro, esaltato, sottrae la
pistola a un poliziotto e ferisce a morte McLeod. Mentre egli si ricrede
strappando la denuncia a carico d'un ragazzo incensurato che ha commesso un
furto maldestro, il collega chiama al telefono un sacerdote; nell'attesa,
recita l'Atto di dolore insieme all'agonizzante, il quale non riesce a
terminare la preghiera. Sono di origini irlandesi tanto il protagonista quanto
l'amico, che gli ha consigliato di spogliarsi delle vesti di Don Chisciotte e di
adottare una più umana comprensione della giustizia. E la rappresentazione
della loro religiosità non subisce discredito.
In Italia, i casi similari comparvero in numero considerevole nelle
pellicole. Ne citerò alcune: Fiat
Voluntas Dei (1936) di Amleto Palermi, con l'ameno Angelo Musco nei panni
d'un curato di villaggio; Montevergine (1939)
di Carlo Campogalliani, dove l'emigrante crudelmente offeso, ritornato per
compiere la sanguinosa vendetta, si converte nel Santuario in cui scorge il suo
nemico tra i pellegrini; I trecento della
Settima (1943) di Mario Baffico: operazioni sul fronte d'Albania
nell'ultimo conflitto mondiale, punteggiate di scene di devozione e del
ministero sacerdotale; I figli di nessuno
(1951) e L'Angelo bianco (1955)
di Raffaello Matarazzo; Noi peccatori (1953)
di Guido Brignone, dove una pia e bella infermiera, resa invalida da un
incidente stradale, e respinta, per una sua colpa apparente, dal fidanzato che
non crede più in Dio, al Santuario della Madonna di Pompei riceve la grazia
miracolosa di alzarsi in piedi; nel contempo, l'innamorato che l'ha seguita
cade in inginocchio accanto a lei; Il
prezzo della gloria (1957) splendido lavoro di Antonio Musu su comandante ed
equipaggio di cacciatorpediniere, impegnato in disperate missioni di guerra tra
la Libia e il porto di Taranto, durante le quali spicca il cappellano, addetto alle
sacre occorrenze delle anime dei vivi e dei corpi da cui esse spirano.
Piero Nicola