Quand’ero ragazzo, negli anni
Cinquanta del secolo scorso, il 4 di novembre era festa nazionale. Allungava le festività religiose di
Ognissanti e del Giorno dei Morti. Si
celebrava la vittoria nella I guerra mondiale: correlativamente, il raggiungimento dell’Unità
nazionale e l’opera valorosa delle Forze Armate. Gran parte delle sinistre e parte consistente
del mondo cattolico non l’hanno mai amata, questa celebrazione, troppo patriottica
per i loro gusti. La svalutazione
progressiva, sul piano politico e culturale, dell’idea di Nazione, di Patria e
di Vittoria militare, portato della decadenza generale dei costumi che affligge
noi e tutto l’Occidente, fece sparire ogni riferimento alla Grande Guerra,
riducendo la festa a Giornata delle Forze Armate, ed infine a cancellare la
festività. Oggi, in questa data, si
rende omaggio, nelle dichiarazioni ufficiali, alle Forze Armate e all’Unità
nazionale. Della vittoria nella Grande
Guerra si è persa definitivamente ogni traccia.
Si è pertanto avuta, in data
odierna, giorno lavorativo, la consueta anonima cerimonia al Vittoriano,
condita dai consueti messaggi di routine delle Autorità costituite. Il Presidente
Mattarella ha ricordato “la conseguita completa Unità d’Italia” e “l’onore” che
si deve rendere alle Forze Armate, con un “commosso pensiero a tutti coloro che
si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra libertà, per
l’edificazione di uno Stato democratico ed unito” (Corriere della Sera
di oggi, 4 nov. 2017).
Il ministro della difesa, on. Roberta
Pinotti, colei che vorrebbe istituire il “servizio civile” obbligatorio per
tutti (sì, il servizio civile non quello militare) ha detto, sempre
nell’estratto del Corriere della Sera, che “la comemorazione di quel
doloroso periodo della nostra storia nazionale offre la possibilità per una
riflessione più profonda sul valore della pace, anelito insopprimibile di ogni
società civile, dovere ma anche diritto di ogni uomo, delle nuove generazioni,
dei deboli e indifesi, di coloro che scappano dalle guerre, dei tanti rifiutati
e oppressi. Ed è in momenti come questo
che dobbiamo rinnovare con forza il ricordo delle migliaia di Caduti sulle
pietraie del Carso, sull’Isonzo, sul Grappa, sul Piave e in tanti altri luoghi
entrati a far parte della nostra memoria collettiva”.
Avrà detto anche altre cose,
l’onorevole ministro, nel suo messaggio.
Se questo ne è il nucleo, esso appare abbastanza singolare per un
ministro della Difesa, delle Forze Armate.
Di quella terribile ma valorosa ed eroica epopea che fu la nostra Grande
Guerra, sa dire solo che è stato “un doloroso periodo della nostra storia”. Il dolore, dunque. La riflessione sul dolore passato offre lo
spunto per quella sul presente, rappresentato sempre dal dolore, che
sarebbe quello delle categorie consacrate dalla retorica politicamente corretta
dominante – le quali categorie si ritengono private del loro “diritto alla
pace”: ogni uomo in generale, i
giovani, i deboli e gli indifesi, i profughi, i rifiutati ed oppressi.
C’è un po’ di tutto, nel materno
abbraccio pinottiano, come si conviene ad una governante intrisa di
“pluralismo”, anche sul piano strettamente culturale. Un “diritto alla pace”, intrinseco ad ogni
essere umano, non sapremmo per la verità come concepirlo, in termini propri,
giuridici. Ma tant’è. Il nostro bravo
ministro, nel ricordare l’anniversario della Vittoria in una guerra mondiale di
fondamentale importanza per la nostra stessa esistenza di popolo – se,
nonostante tutto, esistiamo ancora come popolo e Stato unitario lo dobbiamo
alla vittoria in quella guerra – sa parlare solo di pace e nei termini di
quella retorica sentimentale ed
umanitaria con la quale si tentano oggi di occultare le gravi debolezze e
lacune della nostra attuale classe di governo, incapace di difendere il
territorio nazionale da una massiccia invasione afro-asiatica e musulmana, che
nessuna emergenza cosiddetta umanitaria giustifica, dal momento che, nella
massa che ci invade, i veri profughi sono solo una piccola minoranza.
Allora, perché il 4
novembre? Cos’è successo il 4
novembre? Lo sa l’on. Roberta Pinotti? Immagino
che siano in pochi a saperlo, visto che da anni non se ne parla mai, anche perché
si insegnano da tempo falsità di ogni tipo sulla nostra partecipazione alla
Grande Guerra. Per esempio, che per noi
essa sarebbe finita con la pesante sconfitta di Caporetto, dopo la quale
saremmo arrivati alla vittoria, un anno dopo, solo perché sorretti dai nostri
alleati franco-britannici, che ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco.
Invece, a due settimane circa da
Caporetto, il nostro esercito (allora Regio Esercito) risuscitò sul
Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, contenendo da solo gli ultimi
furiosi e decisivi assalti austro-tedeschi, sorretto alle spalle da undici preziose
divisioni franco-britanniche accorse in riserva strategica, ridotte poi assai
presto a cinque, le quali subentrarono
in linea dopo circa un mese, quando avevamo stabilizzato il fronte. Risuscitò, con grande sorpresa del nemico, ma
in realtà non era mai morto. Aveva
incassato un colpo da K.O., portato con estrema maestria dalle migliori
divisioni tedesche e austro-ungariche, e tuttavia era riuscito ad
assorbirlo. Era stata distrutta a
Caporetto l’ala sinistra della II armata, mal schierata nelle montagne isontine
del Friuli del Nord-Est. Parte di quell’armata, dislocata più a sud, si ritirò
in ordine, assieme alle altre due armate nostre, la III e la IV, non intralciate
dalla marea dei profughi friulani. I
circa trecentomila prigionieri e molti fra gli altrettanti sbandati (poi
recuperati) appartenevano in numero consistente alle sterminate retrovie
caratteristiche di tutti gli eserciti moderni.
Dalla nostra vittoriosa
“battaglia d’arresto” del novembre-dicemtre 1917, come si giunse al 4 novembre
1918? Nel giugno del 1918, la Duplice
Monarchia, uscita dalla guerra la Russia travolta nel gorgo della rivoluzione,
in appoggio alle poderose offensive con le quali i tedeschi stavano tentando di
vincere la guerra anche a Ovest, prima che si consolidasse il sempre più
massiccio apporto americano in Francia,
tentò a sua volta di sfondare contro di noi, raccogliendo le sue
logorate forze per un ultimo formidabile sforzo. Si ebbe la grande Battaglia del Montello o
seconda del Piave, che si concluse con un completo insuccesso
austro-ungarico. La testa di ponte larga
8 km e profonda 5 costituita al di qua del Piave, sulle alture del Montello, fu
da noi contenuta in aspri combattimenti e l’Imperial-regio esercito fu
costretto a ripassare il Piave. Con
quella fallita e sconsiderata offensiva, per di più mal condotta dall’inesperto
imperatore Carlo d’Asburgo, l’Austria-Ungheria perse la guerra. Dopo questa battaglia, cessarono del tutto i
tentativi anglo-americani di indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata. Gli Alleati avevano ormai la sensazione netta
del crollo imminente del nemico.
La grave crisi interna
dell’Impero, economica e spirituale, aumentò sempre di più. L’esercito teneva ancora ma cominciò a
disgregarsi nelle retrovie quando il fronte balcanico, tenuto soprattutto dalla
Bulgaria, crollò all’improvviso alla fine del settembre 1918, aprendo agli
eserciti alleati (tra i quali anche un corpo di spedizione italiano) dalla
Grecia orientale la via verso Budapest, via che essi cominciarono ovviamente a
percorrere, non velocemente ma inesorabilmente. A quel punto le divisioni ungheresi sul
nostro fronte cominciarono ad agitarsi e a voler tornare a casa, per difendere
la Patria in pericolo.
Con il nemico in crisi sempre più
evidente, in condizioni di inferiorità anche per le munizioni e il
vettovagliamento, e i tedeschi ormai in ritirata in Francia, ordinata anche se
la loro linea non era più continua e mancavano riserve e munizioni, il nostro
Comando Supremo si decise alla fine ad attaccare, in ritardo, il 24 ottobre e
con il Piave in piena! La Terza
Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto, durò cinque giorni effettivi, dal 24
al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII armata italiana, comandata dal generale
Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del generale Cavan
e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso Graziani, sfondò
il centro dello schieramento nemico, puntando verso Vittorio Veneto e dividendo
in due tronconi l’Imperial-regio.
Sul Grappa gli italiani non passarono e subirono le consuete, ingenti
perdite, nei ripetuti assalti e contrassalti.
Ci riuscirono sul Piave, contro un nemico indubbiamente debilitato ma
che si batté valorosamente sino all’ultimo, nonostante le defezioni di diversi
reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e cèchi, a partire dal terzo
giorno della battaglia, e nonostante la dissoluzione politico-amministrativa
ormai inarrestabile dello Stato austro-ungarico.
Ho ricordato sinteticamente quei drammatici
eventi, al fine di arrivare nel modo dovuto al punto che ci interessa: solo
alle 7 di mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul
fronte del Piave, i Comandi austriaci presero i primi contatti con il Comando
italiano, chiedendo un armistizio.
Precedentamente avevano tentato invano con gli americani, perdendo del
tempo prezioso. Iniziarono in tal modo
convulsi negoziati che si conclusero con la firma dell’armistizio a Villa
Giusti, presso Padova, il pomeriggio del 3 novembre, a valere dal pomeriggio
(dalle 15) del 4 novembre successivo.
Ora, gli austriaci speravano giustamente di poter negoziare con noi
termini onorevoli. Ma non ci
riuscirono. Le condizioni di armistizio
non erano decise dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani
isolatamente: erano prese dal Consiglio di guerra interalleato che
risiedeva a Parigi, in quei drammatici frangenti riunito in seduta quasi
permanente. Fu tale Consiglio,
che ricomprendeva le alte cariche politiche e militari dei ‘Quattro Grandi’,
ad imporre la resa incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che
l’Austria-Ungheria dovette sottoscrivere.
Certo, l’Italia non si oppose. La
Battaglia di Vittorio Veneto portò alla dissoluzione dell’esercito
austro-ungarico, in parte già iniziata:
gli diede il colpo di grazia, impedendo il disegno austriaco e tedesco
di riportare la componente nazionale dell’esercito sui confini naturali, cioè
sulle Alpi da un lato e sul Reno dall’altro, per cercare di resistere ancora e
ottenere una resa meno dura. Sparendo l’Imperial-regio
dalla scena, la via dell’invasione
della Germania da sud era aperta a noi e ai nostri alleati e i tedeschi non
avevano in pratica più truppe da opporre. In tal modo, la Germania dovette anch’essa
piegarsi ad accettare una resa incondizionata, sottoscritta l’11
novembre 1918.
Questo dunque, in estrema
sintesi, ciò che accadde il 4 novembre 1918, data indubbiamente significativa
per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo degno. Senza retorica e senza animosità per i nemici
di un tempo ma con il pathos che la ricorrenza richiede, osando magari
pronunciare le parole probite di guerra e vittoria.
Era la fine della guerra in Italia, dopo tre
anni e mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali. Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con
l’eroico sacrificio di un’intera generazione.
Dopo Caporetto ci fu in tutto il Paese, anche nelle classi popolari, un
grande slancio patriottico, per resistere all’invasione straniera e per
vincere. Come disse Benedetto Croce,
dopo quella cocente sconfitta, solo allora quella guerra diventava nostra. Combattevamo per la nostra terra, per
riconquistarla e per l’onore nazionale, ingiustamente infangato da uno
sciagurato Bollettino del Comando Supremo che, il giorno dopo lo sfondamento di
Caporetto, ancora mal informato su quello che stava succedendo, diede la colpa
del crollo locale ad una viltà dei soldati che in realtà non c’era stata
(episodi di rese locali senza combattere ci furono dopo lo sfondamento,
le cui cause furono soprattutto militari, nel clima di caos, di panico e di
abbattimento subito creatosi, anche a causa della rivoluzionaria tattica del
nemico, basata non più sui sanguinosi attacchi frontali ma sull’aggiramento
veloce dei caposaldi e l’attacco di lato o da tergo, di sorpresa, condotto da
truppe scelte).
Ma non si trattava solo della
vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per un popolo ed uno
Stato di recente e tormentata formazione come il nostro. Con quella prova, con quel sacrificio,
riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano
infierito su di noi per tre secoli e mezzo.
Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559),
Asburgo spagnoli e austriaci, francesi, svizzeri, da noi in nessun modo
provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati italiani indipendenti
ma militarmente deboli e sempre divisi tra di loro. Fu una grande tragedia, che non dobbiamo
dimenticare. Riuscì a resistere solo la Repubblica di Venezia, spacciata alla
fine del Settecento da Napoleone, dopo una lunga decadenza. Le Guerre d’Italia le vinse su tutti
la Spagna asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre
guerre, si ebbe la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi dopo
l’intervallo napoleonico, che aveva annesso all’Impero francese parti
consistenti del nostro Paese, riducendo le altre a Stati suoi satelliti. L’Impero austriaco mai ci volle riconoscere
il diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato ma nemmeno un popolo
degno di essere preso in considerazione. Eravamo, per tutti, solo una espressione
geografica, “volgo disperso che nome non ha”, pascolo ubertoso per le
politiche di potenza dei grandi Stati: e così avremmo dovuto rimanere, in
eterno. La lunga sequela delle
“preponderanze straniere” (Cesare Balbo) fu per noi un’età di ripetuto
sfruttamento economico e militare, di sudditanze umilianti, di umiliazioni a
non finire.
Combattendo e vincendo la Grande Guerra, abbiamo
pagato il prezzo di sangue che il nostro riscatto esigeva. Perché quel sangue non sia stato versato
invano, dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista
che vuole travolgerci, dall’interno e dall’esterno, ammantata di ipocrisie
pseudo-umanitarie. E tra i valori che
dobbiamo recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia
patria comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un
posto eminente. In questo, ci ispiri,
dunque, e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno
della Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.
Paolo Pasqualucci, sabato 4 novembre 2017
Fonte: iterpaolopasqualucci.blogspot.ie
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