giovedì 25 giugno 2015

Destra e sinistra, sognando l'antItalia

 Escono contemporaneamente due volumi, La libertà tirannia di Luigi Taparelli d'Azeglio s. j., presentato da Gianandrea de Antonellis ed edito da Solfanelli in Chieti, e Libera e una! L'età del Risorgimento fra Tradizione e Rivoluzione di Corrado Camizzi, edito da Thule in Palermo. Si tratta di due testi divergenti/convergenti, nei quali sono esposte le ragioni del frazionismo legittimista e del movimento unitario.
 Taparelli d'Azeglio, contestatore irriducibile del progetto unitario, nel 1860 dichiarava la sua avversione scrivendo, nella Civiltà Cattolica: "Chi è che non abbia udito la stampa libertina gridare altamente che un popolo non è greggia di pecore, che i popoli non si vendono? Or bene ecco il Piemonte condannato dalla propria iniquità ad entrare risolutamente i codesto traffico di carne umana: eccolo chiedere all'Austria che venda la Venezia ed il resto della Lombardia, agli Estensi Modena, ai Borboni Parma, al Pontefice le Romagne". 
 Ineccepibile alla luce della giurisprudenza pura, l'accusa di padre Taparelli d'Azeglio tendeva a sottovalutare i diritti associati all'esistenza reale di una storia e di una cultura nazionale contraria alla discesa degli europei lurchi.
 La carta geopolitica dell'Italia pre-unitaria, cara ai legittimisti, era, di fatto, disegnata dall'alleanza dei dominatori stranieri con i tiranni nazionali, oltre che dal fantasma della inesistente donazione costantiniana.
 Emblema della disunità è pertanto il Maramaldo, mercenario al servizio di Carlo V, partecipe al sacco di Roma  e assassino di Francesco Ferrucci.
 La legittimità rivendicata in buona fede da Taparelli d'Azeglio era in realtà il prodotto di odiose invasioni straniere (quasi figure della spada di Brenno) e di spregevoli opportunismi e tradimenti italiani.    
 Interprete insigne della destra nazionale, Camizzi riconosce che "l'Italia nacque come formazione politica, nel breve volgere di due anni e in maniera sostanzialmente eversiva, fu cioè il frutto di una serie di usurpazioni, malamente rabberciate da alquanto improbabili plebisciti".
 Se non che Camizzi, a differenza del Taparelli e dei suoi anacronistici continuatori, Angela Pellicciari ad esempio, rammenta che "i principi italiani videro la maggiore garanzia di stabilità, anziché nel consenso e nella fiducia dei loro popoli, nella protezione di una potenza europea interessata a garantire, con la sua influenza omogeneità a sicurezza".
 Al proposito, Camizzi cita la tesi di Francesco Leoni, secondo cui "nel clima della Restaurazione si manifestarono due tendenze nell'opinione pubblica di sentimenti controrivoluzionari, quella di coloro che ritenevano doversi almeno prendere coscienza di quanto era accaduto nell'arco di venticinque anni e dunque adattare la strategia del movimento sanfedista ad una realtà che, bene o male, era mutata e quella degli intransigenti, che respingevano ogni modifica introdotta introdotta nelle menti e nel contesto socio-politico dalla Rivoluzione francese e dall'esperienza napoleonica".
 La radice dell'avversione al risorgimento è la conclamata incapacità di vedere e il tarlo assolutista in azione devastante nelle monarchie europee e, al suo seguito, la folle pretesa di sottomettere le chiese nazionali.
 Non è dunque possibile contestare la puntuale sentenza di Camizzi: "non si può difendere in sede storica un mondo che rappresenta un passato senza alcun avvenire, come pretenderebbero di fare gli storici revisionisti più radicali".
 Le disoneste ombre della massoneria garibaldina, giustificano il rifiuto della malsana strategia liberale, non il rifiuto di un bene prezioso e inalienabile quale è l'unità della Patria.

 La critica dei metodi, in definitiva, non può e non deve rovesciarsi nel rifiuto del risultato, l'impresa unitaria, felix culpa da cui dipende la speranza di non essere schiacciati dalle teutoniche natiche della cancelliera Merkel. 

Piero Vassallo

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