lunedì 1 giugno 2015

LA SCUOLA E LA CULTURA (di Costantino Marco)

Scuola una volta era sinonimo di emancipazione dall’ignoranza e dalla miseria. I giovani destinati all’istruzione perseguivano obiettivi sociali. Anche coloro che la conseguivano nei seminari, spesso, il più delle volte, lo facevano per sfuggire alla terra o alla malasorte di una salute precaria. Con la fine degli ordini privilegiati, anche la Chiesa alla lunga si è riempita di proletari non solo tra il basso clero ma anche ai vertici. Si pensi al card. Siri, figlio di una portinaia, o a Giovanni Roncalli, figlio di contadini della Bassa bresciana. Fatalità dei tempi? Sta di fatto che fu Roncalli ad aprire il Concilio Vaticano II, che uno come Pio XII non avrebbe mai voluto, e fu un papa come Paolo VI a congedarlo prima che cantasse il gallo diabolico della dissoluzione. La memoria del popolo arriva e dura quanto la fame. Lunga, fiché dura, cortissima quando smette e non ne sente più i morsi.
Oggi andare a scuola fa scuotere il capo ai più anziani e indignare chi ne è fuori. Visti i risultati sociali, a cosa serve la scuola?
L’istruzione pubblica, anche prima di diventare di massa, era sinonimo di possibilità di inserimento sociale offerta dallo Stato ai cittadini in cambio di salvaguardia ideologica delle sue istituzioni. Un sinallagma accettabile, e soprattutto conveniente. Studio, sistemazione professionale certa, posizione economica decorosa.
Oggi le cose sono cambiate. Quando tutto deve giungere a tutti la distribuzione si inceppa. Nessuno una volta notava il freddo delle aule o la loro fatiscenza. Contava di più il contenuto educativo, l’opportunità. I nostri genitori si portavano lo scaldino da casa e gli insegnanti, col cappotto sulle spalle, poggiavano i piedi freddi su una pedana di legno sotto la cattedra per restare un po’ isolati dal suolo umido. Noi, già alle medie, non entravamo in classe alla notizia che i termosifoni erano spenti.
E’ pur vero che i professori all’antica non sempre erano insegnanti. Ricordo il mio insegnante di greco darci del “lei” e non saperla più lunga del manuale Perrotta, mentre nella sezione C, al piano di sopra dell’antico convento adibito a Ginnasio-Liceo, insegnava una giovanissima e briosa professoressa di italiano e latino che era un incanto ascoltarla. Tutta compresa nel suo tailleur verde smeraldo passeggiava davanti alla cattedra, con qualche incursione tra i banchi che aveva lasciato da poco, a parlare del Foscolo e del Leopardi come di amici di famiglia, con la dimestichezza che te li fa sentire solidali con i tuoi vagheggiamenti e le tue pene giovanili. Nel suo sguardo si notava la fierezza di chi aveva sudato le sue carte e riscaldato tante sedie prima di arrivare a quella cattedra.
Eppure, la generazione della graziosa e coltivata professoressa non ci ha lasciato una bella Italia. E neppure una bella scuola. Perché?
Per tentare una risposta, dobbiamo distinguere l’istruzione dalla cultura. Ciò che ha rovinato la scuola italiana è stata la progressiva distanza che si è aperta tra l’esigenza vocazionalmente elitaria della cultura, e le istanze di segno contrario di una istruzione massificata e destinata erga omnes, volgarizzata e scollegata perciò dalla intrinseca problematicità delle elaborazioni critiche. L’istruzione pubblica massificata ha richiesto una scuola di burocratici ripetitori di nozioni a buon mercato, non educatori intellettuali, e perciò nel giro di qualche anno ha potuto assoldare anche senza concorso cattivi docenti che erano stati già cattivi discenti. Con quattro soldi di stipendio li ha destinati a vita a un ruolo sempre più marginale ma sicuro, inamovibile, insindacabilmente fisso e inguaribilmente mediocre. Soprattutto nelle scuole medie inferiori, ricettacolo variegato di laureati non liceali, dalla sintassi approssimativa e gestori di un triennio sostanzialmente inutile e complessivamente dannoso per l’igiene mentale dei ragazzi.
Di quegli anni persi, a parte una magnifica prof di matematica siciliana, vestita sempre di nero, ricordo solo mogli isteriche e macchiette da avanspettacolo che passavano la loro ora di lezione chiacchierando e scherzando. Alcuni anziani con la sesta classe elementare erano più decorosi di loro. Ma qualunque insegnante, anche bravo, che cosa poteva fare di meglio senza un acclarato dovere d’ufficio? Una volta un collega chiese a una di queste macchiette se conoscesse il nome del ministro della P. I. che l’aveva immessa in ruolo ope legis senza concorso, e lei rispose candidamente che non se ne intendeva di politica.
Scuola alla buona. Media è un acronimo che sta per Mediocri Docenti In Attesa della fine del mese.
Naturalmente, con le nuove immissioni universitarie di questa nuova fauna studentesca, anche la cultura ne ebbe a risentire, scadendo progressivamente a livelli di assoluta mediocrità intellettuale. Col Sessantotto, anche la cultura abbandonò l’Università e si arroccò in cenacoli sempre più elitari. Il trait d’union  tra istruzione e cultura, tra elaborazione e divulgazione, non era più costituito dalla scuola ma dalla politica. da professori preparati a professori impegnati, il passo fu breve. Non più lo studio e l’aggiornamento, ma la militanza politica fece la differenza tra l’insegnamento routinario e quello creativo, cioè ideologicamente orientato. Il mio prof di storia e filosofia era un marxista dichiarato e non spese neppure una parola per la scolastica e Tommaso, passando di filato da Aristotile a Hume e a Kant per fermarsi a Marx dopo un processo sommario a Hegel. La storia europea era presentata da lui come la “madre di tutte le rivoluzioni”, sicché i periodi di calma erano indicati come un’anomalia rispetto ai fisiologici torbidi socio-politici. I ragazzi con lui non studiavano ma leggevano i quotidiani estremisti, anche in classe, dandosi arie sapute. Ma era questo lassismo intellettuale la “libertà di pensiero”?
Coi miei figli è stato peggio. L’esperienza di uno di essi a un Liceo di Campobasso è stata allucinante, col preside ex insegnante di educazione fisica e già direttore didattico spaurito e in balia degli insegnanti e della sua vice-preside, che la faceva da padreterno. Mi sono mio malgrado scontrato con un pazzoide urlante che tremava parlando e inveiva in pubblico come un ossesso prendendosela coi ragazzi e i genitori per non ammettere la sua inadeguatezza a quell’incarico retribuito dallo Stato. Ammonito e sospeso dal preside su mia pressione, sta ancora lì, al suo posto, a prendersi lo stipendio al posto di altri più portati e capaci all’insegnamento, mentre mio figlio, dopo tante spese e amarezze, è dovuto andarsene, minacciato di bocciatura e bocciato a settembre sempre da lui, l’ossesso, nonostante le spudorate assicurazioni contrarie del preside, con la complicità passiva dei colleghi, compresa quella di italiano, che gli aveva dato nove al primo quadrimestre e poi si è accodata alle antipatie della vice-preside. Cose che capitano le antipatie personali? In Italia, però. E nessuno è intervenuto dal Provveditorato a difendere il ragazzo. Anzi, tutte bocche cucite. Ho persino scritto del caso vergognoso a Mons. Bregantini, così melenso e disponibile verso i più deboli a sentirlo in pubblico, ma senza ricevere risposta. Cose dell’insignificante microcosmo molisano? Sì, ma della scuola pubblica, non di un dopolavoro ferroviario.    
Ora, mi chiedo. Come è possibile che un baraccone economico come quello del Liceo convitto di Campobasso, che ha un giro di affari milionari tra mense, rette e continui viaggi “educativi” a spese dei genitori, possa stare impunemente in piedi, senza una inchiesta ministeriale o della Procura? Ho cercato un coinvolgimento di un foglio locale piuttosto battagliero, ma il buon direttore è stato inibito alla pubblicazione dal direttore responsabile della testata, con la scusa che anche lui ci aveva i figli in quel Liceo. Un genitore, per di più avvocato e responsabile di un giornale, che senso civico ha sviluppato a scuola e all’università? Se questo il risultato della scuola di massa, non era meglio una scuola di pochi ma buoni?
Non sto generalizzando. So bene delle eccezioni. Ma il problema è che siano tali mentre dovrebbero essere la regola nella scuola pubblica, dove noi mandiamo i nostri ragazzi a educarsi, se non proprio a formarsi. Ma chi ha formato ed educato gli insegnanti? Chi li ha abilitati a stare in posti così delicati?
Se vi è una crisi in Italia è quella del sapere. A ogni livello. Da dove viene la nostra classe dirigente, locale e nazionale? Dove hanno imparato la sintassi i nostri politici? E come potrebbero malpagare gli insegnanti avendo un po’ di considerazione della cultura e un po’ di pudore di fronte agli studiosi? Ma la politica italiana, e la scuola italiana, sono ormai del tutto autoreferenziali, sono ambienti autistici, di persone alienate dalla realtà esterna che si parlano e sparlano addosso, come nelle trasmissioni giornalistiche, senza interlocutori istituzionali. Nessuno risponde a nessuno. Basta essere là. Semel politicus semper politicus. E così a scuola, semel impiegatus semper stipendiatus.Ma si può?
L’Italia è un paese nella cui cultura sono nate le corporazioni. Ma tra tante corporazioni protette, solo quella scolastica non è stata mantenuta e protetta. Eppure se c’è un campo della vita civile dove più peso ha la tradizione ai fini della resa intellettuale e professionale è quello della cultura, in cui è estremamente importante che il sapere si sedimenti e diventi abito mentale, Bildung spirituale. Se non per tradizione genetica, per retaggio d’ambiente. L’estro artistico di un Ludovico di Baviera era comunque contenuta entro gli schemi rigidi della sua tradizionale educazione nobiliare, che poteva condurlo alla ossessione musicale per Wagner o all’architettura dei suoi favolosi castelli, ma non alla follia incommensurabile di uno Hitler, che al potere concepisce in grande ciò che la sua meschina mentalità plebea ragionava in formato mignon tra sodali di bettola. Qualunque sciocchezza, innocente e compatibile se privata, diventa pericolosa se pubblica e accreditata dal potere. Vi ricordate la mimica balconara di Mussolini? Nella piazza di Fucecchio faceva ridere gli amici, a piazza Venezia esaltava le folle prostrando l’Europa.
Ciò che in Italia, e in generale in tutte le democrazie del nostro tempo, è all’origine dei mali nazionali e nel mondo è il fomite dei tracolli sociali, è il falso ritenimento che il passaggio tra la dimensione privata e quella pubblica sia dovuta a un rapporto meramente quantitativo e non a un passaggio qualitativo, per cui le stesse idee che alimentano le ambizioni personali possono alimentare, se divulgate en masse, quelle dei popoli. Lo stesso pregiudizio anima la teoria utilitaristica degli empiristi, che sostengono la naturale e spontanea composizione degli interessi individuali con quello sociale generale. Ma, molto semplicemente, non è così. Infatti, il privato pensa da privato, curando che il suo orticello sia ordinato ai propri bisogni, e non a quelli comuni. Ma moltiplicare tutti i singoli problemi privati di una comunità sociale non potrà mai darci una soluzione pubblica, la quale afferisce a un altro ordine di considerazioni, quello inerente al bene comune. E così come l’intelligenza di tutti gli uomini non potrà mai superare quella dell’umanità, questa stessa, non perché ipoteticamente unanime, potrebbe eguagliare quella della Provvidenza, che non a caso è divina.
Gli uomini fanno ciò che possono, e delegare un brocco a competere per pietà democratica con campioni da corsa, non solo non si rende merito al giusto valore ma è anche inutile. I vari Mussolini, Hitler, Stalin ci hanno provato a cambiare le sorti dei popoli, ma non hanno costruito neppure lontanamente una civiltà paragonabile a quella millenaria dei patrizi romani  e di quelli medievali europei. Sono state meteore, tragiche ma effimere, pericolose ma transeunti, durate pochi anni e non secoli.
Anche i poveracci mandati dal consenso popolare al potere fanno ciò che possono, e non è colpa loro se non sono nati per governare i popoli. Ce li ha mandati il sistema, ma un brocco resta un brocco. Parimenti a scuola. Li si è mandati a studiare, a laurearsi e a insegnare, ma quanti di loro vi erano portati? Un medico maldestro lascia una garza in pancia e ricuce. La si riapre e la si toglie e si ricuce. Ma un insegnante malsano i danni che fa sono a volte permanenti, perché indietro non si torna. Una mia insegnante alle Medie spiegava il pessimismo leopardiano asserendo che egli vedesse il mondo “dietro un vetro grigio anziché rosa”. Una mia compagna obiettò che anche la finestra del suo bagno aveva un vetro grigio ma tutti cantavano lo stesso facendosi la doccia. Allora se ne fece una risata. Ma la povera prof non riuscì ad andare oltre perché lei stessa non l’aveva capito, come poteva farlo capire? Aveva lo stesso titolo di studio della prof del mio liceo, ma con la differenza essenziale che questa aveva capito ciò che poi riuscì a far capire ai suoi alunni, l’altra no. E tutte due insegnavano e percepivano lo stesso stipendio. A quale delle due potendo scegliere avremmo affidato volentieri i nostri figli?
L’autonomia scolastica non è la confusa uguaglianza tra di chi merita l’impiego e chi non è idoneo al servizio pubblico, così come non vi è da confondere la descrizione della confusione con una confusa descrizione. Ma per selezionare una valida classe insegnante occorre prioritariamente assegnare un ruolo al docente secondo i fini della scuola pubblica. Se questi fini sono l’inserimento nel mondo del lavoro, allora la scuola sarà solo l’ufficio tecnico delle industrie regolato dal  mercato. Non ci sarebbe niente di male se pensiamo di pianificare la vita sociale in senso tecnocratico e comtiano. Resta nondimeno una circostanza che non può essere elusa. Ossia che l’esperienza umana non è riducibile alla mera vita bio-politica ma è esposta a quella “angoscia” per il trascendente che sostanzia la libertà dell’uomo impedendogli di definirsi nell’equazione di ciò che mangia. Se dunque l’istruzione pubblica si limiterà a destinare briciole di sapere nozionistico destinate al lavoro, rinunciando alla formazione morale dei giovani, qualche istituzione privata dovrà pur provvedervi, altrimenti avremo nei migliore dei casi un popolo di formiche laboriose e competenti ma senza una visione complessiva della realtà, e quindi soggetto alle momentanee seduzioni dei piaceri e alle paure dei bisogni. O si torna a fare della famiglia il luogo della formazione morale dei giovani, o se ne deve fare carico la Chiesa, proponendosi come la riserva morale della nostra civiltà in declino.
Le vecchie generazioni, moralmente educate, hanno saputo resistere a flagelli umani e a naturali carestie senza sostanzialmente mutare il senso della loro vita, fidando nella provvidenza e nei loro principi. Ma ai tempi odierni, una contingenza economica sfavorevole basta a gettare il panico nelle masse superstiziosamente attaccate alle promesse di benessere con cui i regimi democratici le tengono buone facendo digerire loro ogni palese ingiustizia sociale e la stessa incapacità di governo delle classi politiche, preoccupate solo di ottenere il potere col loro consenso. In mancanza di una formazione morale dei giovani, quale sarà il collante ideale che legherà la loro vita personale ai destini comuni? L’interesse immediato, per definizione “liquido” e mutevole?

Questa non è una domanda da quiz d’ingaggio lavorativo, ma è pur tuttavia la questione essenziale la cui risposta rende il senso stesso della vita collettiva, facendo della scuola un laboratorio di valori e di speranze sociali.

Costantino Marco

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