Soltanto i pervertiti negano che la normalità
sia una cosa buona. E molti di quelli che dall'idea di essa sono scombussolati,
non hanno il coraggio di denigrarla. Non intendo adesso riferirmi alla
normalità individuale conforme alla legge di natura. Parlo della vita pubblica alquanto
ordinata, dell'ordine pubblico e della realizzazione di una giustizia civile
abbastanza soddisfacenti. Essi sono un conforto, una pace che costa qualche
sacrificio; occorre accettarlo e anche pregiarlo essendo una rinuncia a fin di
bene, suscettibile d'essere virtuosa.
Voglio
far notare come il cittadino che abbia la ventura di vivere in una società
assai esente da disordini, che non sia tormentato dal timore di ladri,
rapinatori, assassini, raggiri, a cui in qualche modo non si sfugge, si abitui
alla sua fortunata condizione senza apprezzarne il valore. È pure comprensibile
che ciò avvenga: egli ha diritto ad essere protetto dallo Stato, il cui compito
consiste appunto nella tutela del bene comune. A quel cittadino sembrerà
scontato che le leggi siano eque, i giudici imparziali, che criminali e
malfattori siano puniti e scontino le pene senza indulgenze di sorta. Allora parrà
implicita la guerra senza tregua mossa dallo Stato a mafie e camarille, agli
spacciatori di droga e ai loro capi; sembrerà normale che siano ridotte ai
minimi termini le associazioni a delinquere e sovversive. Ma l'abitudine alla
salute ne diminuisce il pregio, lo si ignora cercando un diverso sistema di
vita (sociale e individuale) lusinghevole, presumendo di conservarsi ugualmente
sani e vigorosi.
"Quando
mai il suddetto benessere poté darsi senza iniquità e oppressioni?"
obiettano i democratici, che pure cercherebbero la corruzione (in qualche
misura inevitabile) anche dove non c'è. Mettiamo nella sentina loro spettante
le vergognose licenze spudoratamente chiamate libertà, i relativi loro diritti
stortissimi, e ritroviamo nella storia, magari del primo Ottocento, esempi e
testimonianze autorevoli della degna buona vita, priva di veri soprusi commessi
dalle autorità. L'hanno rappresentata, nel Granducato di Toscana e nello Stato della Chiesa, Narciso Feliciano
Pelosini, Alfredo Panzini e diversi altri. Invano i libertari e i democratici d.o.c.
le contestano una certa arretratezza, accusano la sonnolenza di quelle plaghe,
il brigantaggio che qua e là riusciva a far danno.
Con
l'avvento del Regno d'Italia specie molti borghesi s'infatuarono del velenoso
progresso liberale, i topi trafficanti e speculatori poterono addentare il
formaggio e rimpinzarsi, ma il popolo, i bravi fedeli, subirono la nuova
rivoluzione spacciata con nomi falsi e altisonanti. Socialismo, basse brame,
vanitose aspirazioni finirono per inghiottire gran parte delle forze sociali
operaie e dirigenti. Il contado più quieto, i veri devoti, i preti ossequenti
al Papa, furono vasi di coccio stretti tra vasi di ferro. e fecero le spese dei
ferrigni interessi. Non si può dire che il rivolgimento avvenne assai per
l'ingratitudine popolare rispetto alla vita sana abbandonata, per smanie di
novità e di democrazia.
Viceversa tale fenomeno è accaduto nel Ventesimo Secolo. Se dicessi che
quella certa stanchezza del regime fascista, manifestatasi nel lustro che
precedette la guerra, fu travisata da storici anche in discreta buona fede, se
allegassi il detto di Longanesi - non di certo tenero col regime - riferito ai politici
antifascisti che stavano riprendendo il potere : "Si ha sete di punizioni
perché si crede con ciò di liberarsi di un triste passato nel quale tutti sono
stati benissimo”, qualcuno potrebbe accusarmi di illecita apologia. Ma
prendendo in considerazione gli spagnoli e i portoghesi, che erano stati
alquanto nel pulito fino alla scomparsa di Franco e di Salazar (i cui sistemi
politici furono accettati ufficialmente dall'Occidente), come si spiega che
preferirono introdursi nella cloaca massima? Certamente i politicanti sedussero
la massa; essa però fu passiva, indifferente a quello che stava per perdere.
Piero Nicola
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