venerdì 29 agosto 2014

Gli Spagnoli sterminarono più briganti del Re d’Italia (di Paolo Pasqualucci)

CONTRO I MITI FABBRICATI DAI NEOBORBONICI

Gli Spagnoli sterminarono più briganti del Re d’Italia

Paolo Pasqualucci  ripropone e commenta una pagina  tratta dalla “Storia del Regno di Napoli” di Benedetto Croce.

Coi criteri dunque che i tempi comportavano, e che il carattere e la capacità, il grado di cultura della nazione dominante consentivano, col meglio e col peggio che i frequenti cambiamenti dei viceré e il loro vario animo e la varia capacità si tiravano dietro, i sovrani di Spagna governarono l’Italia meridionale, ed esercitarono quelle cure per il benessere e per l’interesse generale delle quali nessun governo si dispensa mai del tutto.  Così durante il periodo viceregnale la città di Napoli fu assai ingrandita e prese la forma che serba al presente, e fu provveduta di opere e di edifizi pubblici, che sono ancora tra i più grandiosi; e, se assai meno si provvide alle provincie, pure qualche strada venne restaurata e si fecero o riferecero ponti, e sulle coste furono erette torri di difesa, con le quali, a mezzo di segnali di fuoco, si aveva avviso in ventiquattr’ore di qualsiasi periodo minacciante.  Non riuscirono con ciò i viceré a impedire le incursioni dei barbareschi; come, del resto, non vi si riuscì in tutto il Mediterraneo fino al secolo passato [con la conquista europea dell’intero Nord Africa]; ma vi lottarono contro e le raffrenarono e le contrastarono, e in alcuni periodi con grande vigore, come nel governo del secondo duca di Ossuna; e una volta le galee napoletane assediarono e presero Durazzo, nido di corsari, e un’altra volta giunsero fin nel Bosforo e ne portarono via navi e dignitari turchi.  Certo, molti abitatori del Regno venivano rapiti e menati schiavi e poi riscattati con ingenti spese (onde le pie fondazioni per la redenzione dei cattivi); ma anche nel Regno abbondavano schiavi turchi, pei quali si dové perfino ordinare che portassero a segno distintivo la testa rasa col ciuffo[1].  Non riuscirono neppure i viceré a sradicare la delinquenza, e soprattutto il banditismo o brigantaggio, che era quasi un’istituzione alla quale il governo stesso faceva ricorso, come al tempo della guerra del Lautrec, e più volte in altre occasioni[2], e sulla quale contava il duca di Guisa[3] per estendere il suo potere sulle provincie; e di continuo vi ricorrevano i baroni, che ne erano manutengoli.   Ma anche il banditismo apparteneva all’Europa tutta in quei secoli, quantunque nell’Italia meridionale, come in altri luoghi meno frequentati dai traffici e meno civili, fosse più grave; e, a ogni modo, i viceré non lo lasciarono indisturbato, gli procedettero contro spesso con sforzo di energia, nella seconda met­à del cinquecento disfecero le bande di re Marcone in Calabria, che aveva costituito una sorta di governo ed esigeva i tributi locali, e quelle di Marco Sciarra in Abruzzo.  Ma era, come si diceva, l’idra sempre rinascente;  e già il viceré Toledo confessava, nel 1550, di aver fatto morire per giustizia diciottomila [18.000] persone, e che “non sapeva più che fare”[4]; e simili statistiche con migliai di afforcati e decapitati e arrotati misero fuori i seguenti viceré, quasi a dimostrazione del loro buon volere[5].   Tuttavia, dopo il 1647, la lotta fu condotta con maggiore coerenza e persistenza, troncando, come si è visto, le relazioni tra banditi e baroni, compiendo regolari spedizioni militari, ponendo taglie e castigando I favoreggiatori; le quali cose portarono l’effetto che tra il 1683 e il 1688, viceré il marchese del Carpio, il grande brigantaggio fu fiaccato in tutte le provincie, e anche nei montuosi Abruzzi, e non ricomparve se non dopo un secolo in conseguenza di nuovi commovimenti politici e sociali”.


[B. CROCE, Storia del Regno di Napoli (1925), Laterza, Bari, 1966, pp. 131-132.  Frasi tra parentesi di PP].


I “nuovi commovimenti” furono quelli apportati dall’invasione francese rivoluzionaria, in conseguenza della quale si produssero fatti simili a quelli già vistisi all’epoca dell’invasione degli spagnoli, chiamati inizialmente in soccorso dagli Aragonesi:  l’esercito si sfasciava, molti capi tradivano, eredi dei fedifraghi baroni di un tempo, privi del senso del bene comune e dello Stato, come i loro remoti antenati longobardi; solo i ceti popolari si sollevavano in difesa del re, ma in modo tumultuoso e disorganico, che in certe zone rurali trapassava a guerriglia, degenerando rapidamente in brigantaggio.
Questo “schema” si è ripetuto tre volte nella storia del meridione d’Italia, a partire dalla fine del Quattrocento, tralasciando per ora l’epoca anteriore (Manfredi non perse la battaglia di Benevento per colpa del tradimento sul campo di un suo parente?). 
Vorrei che i neoborbonici spiegassero al pubblico questo mistero: perché i meridionali in generale, dall’Abruzzo alla Calabria (la Sicilia fa caso a sé) non combatterono quasi mai bene inquadrati negli eserciti regolari della loro monarchia, battendosi invece bene ed anche eroicamente nelle rivolte popolari e nella guerriglia? Battendosi bene, da un punto di vista strettamente militare, anche come briganti ossia come banditi (ferocia a parte, largamente documentata, che provocava le ben note e feroci rappresaglie).
Inoltre, battendosi benissimo negli eserciti imperiali spagnoli (le famose “truppe napoletane”) e in quelli di Napoleone (la cavalleria napoletana, per esempio).  E anche negli eserciti dell’Italia unita, del Re d’Italia si sono forse battuti male? Nemmeno per sogno. E allora?
Mia interpretazione, del resto non isolata e che già troviamo in Croce: mancava la classe dirigente, una classe dirigente che avesse il senso dello Stato, del dovere, della cosa pubblica, capace di comandare un esercito nazionale, assumendosene le relative responsabilità, innanzitutto morali. Quando scoccava l’ora della verità, erano in troppi a pensare al proprio “particulare”, anche se non tutti, ovviamente. Del resto, questo male del “particulare” che prevaleva sul bene comune, era un male diffuso in tutta l’Italia preunitaria, non solo in quella meridionale.
E sull’esaltazione del “particulare” regionale e regionalistico ha voluto puntare la nostra attuale Repubblica, dopo il disastro del 1943-45, con i risultati che vediamo.
Per resistere ai mali del presente, che minacciano la sopravvivenza etnica stessa del popolo italiano, meridione incluso, vogliamo tornare all’antico “particulare”, arbitrariamente idealizzato e trasformato anzi in vero e proprio mito?  Neoborbonici ed antiitaliani in generale:  voi non dite il vero quando volete far credere nell’esistenza permanente di un diffuso sentimento di fedeltà ai Borbone, dall’Unità ad oggi.
È vero: Napoli era la città più monarchica d’Italia ma rimpiangeva i Savoia non i Borbone. I Borbone non li pensava nessuno. Si sentiva Napoli fedele al Re d’Italia, unitamente a quasi tutto il Sud, che aveva combattuto nel Regio Esercito, facendo il suo dovere sino al tragico epilogo finale.
La nostalgia per i Borbone, trasformati in mito, è fenomeno recente ed artificiale, nato anche come reazione alle offese insulse e agli scriteriati atteggiamenti antimeridionali di un altro antiitaliano doc:  Umberto Bossi.

Paolo Pasqualucci



[1] PARRINO, op. cit., II, 270.
[2] Per esempio, G. ROSSO, pp. 10-11;  GIANNONE, Storia, XXXVII, 6.
[3][3] Mémoires, p. 175, e passim.
[4] Lettera all’agente toscano, in Arch. stor. ital., IX, 124.
[5] Nel raro vol.:  Governo della campagna dell’eccell. Signor Marchese de los Velez Viceré etc. (Napoli, 1683), è la statistica delle uccisioni e giustizie e indulti di banditi durante quel viceregnato; e, per esempio, pei primi quattro anni (1675-79) vi sono notati 57 capibanditi e 311 banditi uccisi, 17 capibanditi e 131 banditi giustiziati, 913 condannati alle galere, 167 alla milizia, e via.

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