I dubbi
suscitati dall'augurio di lucrare benefici spirituali, rivolto da papa
Francesco I agli islamici partecipanti al ramadan, dileguano non appena
si rammenta che sotto l'etichetta (piccola etica) e sotto l'avventurosa
affabilità non si trova una teologia seriamente intesa a contraddire il severo
e indeclinabile giudizio di san Tommaso intorno a Maometto e alla sua
sgangherata dottrina.
Papa
Francesco I sta tentando, di attirare su di sé l'antipatia incombente sul clero
verboso, gongolante e immodesto, che celebra se stesso e le macchinose novità
introdotte dall'avventizio e deprimente concilio Vaticano II.
In
altre parole: il nuovo, simpatico e avventuroso stile di Francesco I non
può agire contro le verità stabilite dai sommi interpreti della Scrittura e
della Tradizione. Tanto meno può alterare il giudizio cattolico sui tenebrosi
errori diffusi dagli avversari del Cristianesimo
Tradotto
dall'illustre padre Ceslao Pera o. p., il brano del Dottore comune,
estratto dal Liber de Veritate catholicae fidei (I, 6, 41g) è proposto alla
lettura e all'informazione degli ultrà ecumenici, che rifiutano di
misurare le distanze abissali tra la fede cristiana e l'errore islamico.
La
lettura del testo tomasiano è specialmente raccomandata al chiarissimo raggio
di mezzaluna, il professore Franco Cardini, duce dei cammellieri
sull'asfalto e pastore dei rinoceronti al galoppo ecumenico tra la
destra estinta e tramutata in eternit nel tossico Forteto.
E'
dedicata inoltre ai vescovi, ai preti e ai monaci di triste formazione
sessantottina.
Sostiene
dunque San Tommaso: “Coloro i quali
introdussero partiti basati su dottrine erronee, procedettero per una via
contraria a quella seguita dal magistero divino, come è evidente in Maometto,
il quale attirò i popoli con la promessa di piaceri carnali, alla cui bramosia
istiga la sensibilità inferiore. Egli dette precetti conformi alle promesse,
accondiscendendo alla voluttà carnale; ai quali precetti è ovvio che si
obbedisca da uomini carnali. Né produsse documenti di verità, se non quelli che
facilmente possono essere conosciuti da ognuno mediocremente sapiente, per
naturale ingegno; che anzi le verità che insegnò, le mescolò con molte favole e
falsissime dottrine. Non usò segni, fatti soprannaturalmente, coi quali, solo,
si rende testimonianza alla divina ispirazione, mentre l’operazione visibile,
che non può essere se non divina, mostra il dottore di verità, come
spiritualmente ispirato, ma disse di essere mandato i potenza di armi: segni
questi che non mancano anche ai ladroni e ai tiranni. Né, da principio, gli
credettero uomini sapienti nelle cose di Dio, esperimentati nelle cosa divine e
umane, bensì uomini bestiali del deserto, affatto ignoranti di ogni divina
dottrina, per mezzo dei quali, con la violenza delle armi, costrinse gli altri
alla sua legge. Nessun oracolo dei precedenti profeti, rappresentanti autentici
del Magistero divino, gli rende testimonianza, che anzi deprava quasi tutti i
documenti del Vecchio e del Nuovo Testamento, con favoloso racconto, come è
evidente a chi dia una scorsa al Korano; perciò con astuto consiglio non lasciò
leggere ai suoi seguaci i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento affinché,
per mezzo loro, non fosse accusato di falsità. Così è evidente che coloro, i
quali prestano fede alle sue parole, credono con leggerezza – leviter credunt”.
I
giudizi di San Tommaso furono in seguito confermati da un dotto e intrepido
domenicano, Ricoldo da Montecroce (1243-1320) il quale si era recato in Oriente
con l'intento di evangelizzare gli islamici [1].
Convinto
della buona fede dei maomettani, il domenicano tentò di avviare con loro un
dialogo costruttivo, ma fu tosto deluso dalla reazione acrimoniosa e feroce dei
suoi interlocutori.
Fece
allora un passo indietro ed approfondì lo studio della lingua araba e la
conoscenza del Corano, giungendo presto a conclusioni opposte a quelle buoniste/ottimiste
nutrite all'inizio della sua infelice avventura ecumenica.
Ritornato
a Firenze nel 1300, dopo dodici anni di tormentati viaggi nelle terre invase,
che lo convinsero dell'impossibilità del dialogo con i maomettani, sviluppò le
tesi dell'Aquinate e scrisse un fondamentale saggio sui Saraceni.
Nel
testo sono elencate "le quattro categorie di persone che
aderiscono all'errore di Maometto: La prima è quella di coloro che sono
divenuti Saraceni in forza della spada, e che ora, riconoscendo il loro errore,
ritornerebbero sui loro passi, se non avessero paura. La seconda è
rappresentata da quelli che furono adescati da diavolo e finirono per credere
vere le menzogne. La terza è quella di coloro che non vogliono abbandonare
l'errore dei loro genitori, e dicono di attenersi ai loro padri dai quali
invece discordano per il fatto che al posto dell'idolatria hanno scelto la
setta di Maometto. La quarta è quella di coloro che per il gran numero di donne
concesse e per le altre licenze preferirono questo errore all'eternità del
secolo futuro"
Di
seguito Ricoldo elenca le cause dell'impossibilità del dialogo con i maomettani,
ad esempio la favola che "Mosé e i Profeti hanno profetato su Maometto"
ipotesi sostenuta dalla voce secondo la quale "i Giudei avrebbero
corrotto le Leggi di Mosé e i Profeti, i Cristiani il Vangelo".
Informazione in certo modo smentita da Maometto, il quale, come si legge nel
Corano, suggerì ai suo seguaci di chiedere consiglio a "coloro che
prima di voi hanno letto il Libro ... dunque al tempo di Maometto i libri dei
Giudei e dei Cristiani non erano corrotti e non è possibile dire che lo furono
in seguito".
Contraddittori e
ridicoli sono altresì numerosi passi del Corano, ad esempio quello in cui si
afferma che i Giudei e i Cristiani si salveranno e di seguito "nessuno
si salverà se non coloro che sono nella legge dei Saraceni", e quello
in cui si ingiunge ai fedeli di usare soltanto parole miti con gli infedeli e
più avanti "ordina di uccidere e di depredare coloro che non credono".
L'analisi
del Corano dimostra infine l'incompatibilità di fede e ragione in corsa nei
testi maomettani, un vulnus che ha giustificato la devastante teoria di
Averroé intorno alle due verità, quella dei filosofi e quella dei religiosi.
r
Non è
peraltro fondata l'opinione secondo cui i giudizi di San Tommaso e di Ricoldo,
oggi sarebbero superati dalla teologia volante, con la funambolica opinione di
Karl Rahner, squillante tra le righe infelici del Vaticano II e indirizzata
all'immaginaria folla dei cristiani anonimi".
Ovviamente
l'uomo non può conoscere il giudizio di Dio. L'esortazione dell'Alighieri,
"non creda donna Berta e ser Martino per vedere un furare, altro offerere
vederli dentro al consiglio divino; ché quel può surgere e quel può
cadere (Par., XIII, 118 ss), segna il limite della conoscenza umana.
Se non
che l'impossibilità e l'illiceità del giudizio ultimo non indeboliscono
il giudizio teologico al quale ci obbliga il Decalogo: non avrai altro
Dio all'infuori di me. E la nozione maomettana di
"dio" è totalmente, irreparabilmente all'infuori della verità di Dio.
r
Negli
anni Novanta, Fabrizio Gualco, un sagace studioso formato alla scuola di Pier
Paolo Ottonello, dopo aver dimostrato che “la
Bibbia non è il Corano e il Dio biblico non è il Dio coranico”, ha citato
un testo di Karol Wojtyla, che dissolve il dubbio suscitato dal bacio sul
Corano: “Chiunque conoscendo l’Antico e
il Nuovo Testamento, legga il Corano vede con chiarezza il processo di riduzione della Divina Rivelazione che in
esso è compiuto” [2].
Benedetto
XVI dal suo canto ha citato Emanuele II Paleologo, il quale dopo aver accusato
di ateismo il suo interlocutore maomettano [3],
gli rinfacciava di non poter immaginare “qualcosa
di peggiore e assolutamente disumano, di
ciò che egli [Maometto] fa
prescrivendo che attraverso la spada si faccia largo quella fede che lui stesso
proclamò. Credo che occorra esprimerlo nel modo più chiaro possibile. Di tre
cose una ha costretto con la forza che avvenisse: o che si avvicinassero alla
legge gli uomini di ogni angolo della terra, o che pagassero tributi e che
svolgessero inoltre le attività degli schiavi o che, senza fare nessuna di
queste due cose, venissero loro mozzate le teste con la spada, ed è questa,
invero, la cosa più assurda. Perché? Dal momento che Dio non sa gioire delle
stragi e il non agire secondo ragione è alieno da Dio. ” [4].
L’imperatore
bizantino concludeva, pertanto, che la dottrina islamica è in conflitto con la
ragione oltre che con la misericordia: “Ciò
che tu dici per poco non si spinge oltre l’irrazionalità”.
Di qui
l’obiezione che l’imperatore rivolge al persiano “La fede è frutto dell’anima e non del corpo, e a chi conduce verso la
fede occorre una lingua virtuosa e un retto pensiero, non la violenza, non la
minaccia, non l’azzannare e il terrorizzare”.
Quando
il Paleologo rivolgeva queste parole all’interlocutore islamico Bisanzio era
sotto lo schiaffo dei turchi, che l’avevano ridotto l’impero a poche, aride
strisce di terra. Tuttavia il fondato timore della feroce ritorsione turca non
forzò l’imperatore a contorcersi nell’auto censura. Il testo del Paleologo, infatti,
smentisce le stucchevoli leggende intorno alle contorsioni del pensiero
bizantino e dimostra che i bizantinismi abitano
altre regioni dello spirito.
Davanti
all’incombente aggressività islamica, la Cristianità contemporanea ha elaborato
una debole strategia, che è purtroppo condivisa e applaudita dai (numerosi e
influenti) teologi ammaliati dal falso ecumenismo.
Monsignor
Rino Fisichella ha indicato la via da percorrere senza esitazioni: “Ragione e fede devono riprendere
inevitabilmente il loro cammino comune. Benedetto XVI, a più riprese, ha
ribadito che questa strada non solo permette al cristianesimo di essere fecondo
nella via dell’evangelizzazione, ma consente anche ai non credenti di
accogliere il messaggio di Gesù Cristo come ipotesi carica di senso e decisiva
per l’esistenza” [5].
Anche
Monsignor Brandmüller, in un articolo pubblicato nella rivista "La
fiaccola", rivendica la verità storica, che il buonismo mediatico
vorrebbe affondare nella melassa: “Mentre
il Cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le persecuzioni
e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al dominio romano – e
comunque introducendo una netta separazione della sfera spirituale da quella
politica – l’islam si è imposto con la forza di una dominazione politica”.
Da
questo rilievo discende un giudizio sulla jihad islamica opposto alle
opinioni diffuse dagli intellettuali militanti sotto la bandiera bianca: “L’uso del termine jihad nella tradizione
islamica - compreso quello che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco
e indica la guerra in nome di Dio per difendere l’islam, un obbligo per i
musulmani maschi adulti. Ci sostiene dunque che l’accezione di jihad come
guerra santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica
non dice la verità. La storia mostra purtroppo come la violenza abbia
caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo stesso
Maometto a organizzare e a condurre sistematicamente le razzie nei confronti
delle tribù che non volevano convertirsi e accettare il suo dominio”.
Anche
la rappresentazione dell’islam mite e tollerante nei confronti dei popoli del
Libro (ebrei e cristiani), ai quali sarebbe consentito il tranquillo esercizio
del culto, è risolutamente contestata da Brandmüller: “Nella realtà la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei
potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e una
situazione umiliante, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più
pesanti”.
Quanto
alla sharia, Brandmüller dimostra che il suo fondamento è la triplice
ineguaglianza: tra uomo e donna, tra maomettano e non maomettano, tra libero e
schiavo: “La differenza più forte tra
cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione dell’essere
umano. Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la
dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, o
l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che contravvenivano alla
legge coranica, cioè tutte”.
Il
realistico ritratto dell’islam, il cui vertice speculativo è
rappresentato dai tagliatori di teste, avvalora la tesi sulla scarsa
consistenza del c. d. “islam moderato”. Tesi accreditata da un autorevole
esponente dell’Istituto Affari Internazionali, Mario Arpino.
Nel
volume “Cento opinioni Sulla pace e sulla
guerra dopo l’11 settembre”,
edito da Mursia, Arpino, attesta, infatti, che gli islamici, da lui incontrati
nelle conferenze internazionali, ritengono che il termine “moderato” sia un’offesa per i veri seguaci di Maometto. Moderato,
dunque, significa non più islamico.
Di
seguito, Arpino rivela che, durante gli incontri con gli occidentali, i
moderati ripetono continuamente che “L’islam
politico dei terroristi è deviazione dalla vera interpretazione moderna, che
esiste”. Ma aggiunge immediatamente che “essendo l’ambiente degli incontri per lo più laico, non sono rimasto
del tutto convinto che ciò sia davvero il sentimento comune”.
C’è da
augurarsi che il giudizio dei teologi medievali (confermato da pontefici
contemporanei) e le chiare puntualizzazioni di Brandmüller e di Arpino, destino
nelle autorità religiose e politiche una più realistica e allarmata
considerazione dei problemi posti dalla strisciante invasione islamica. Dio vuole che l'uomo viva e si salvi,
non che rimanga nell'errore e che in esso sia in qualche modo confermato da
incauti e sbiaditi testimoni della verità cristiana.
Piero Vassallo
[1] Il testo di padre Ricoldo è stato pubblicato nel 1992
da Nardini editore in Firenze. Il curatore e commentatore dell'opera, Giuseppe
Rizzardi, nutrito di opinioni largamente "ecumeniche", tentò di
correggere i giudizi dell'intransigente padre Ricoldo, senza peraltro ottenere
risultati significativi.
[2] Cfr.:
“Assisi: una preghiera, due modi
d’intendere Dio (e l’uomo)”, in “Ragion
politica”, 8 Ottobre 2004.
[3] Cfr.:
Emanuele II Paleologo, “Dialogo con un
persiano”, prefazione di Rino Fisichella, Introduzione, traduzione e note a
cura di Francesco Colafemmina, Rubettino, Soveria Mannelli 2007, pag. 44.
[4] “Dialogo con un persiano”,
op. cit., pag. 65.
[5] Cfr.: “Dialogo con un
persiano”, op. cit., pag. 16.
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