Sommario:
1. Nota previa: La
necessità di un sano spirito militare per rinascere. 2. Render
giustizia al valore e allo spirito di sacrificio dimostrati dalla
Marina e dall’Areonautica italiane nella II guerra mondiale. 3.
La superiorità tecnologica britannica. 4. Il ruolo fondamentale di
Ultra. 4.1 Il disastro di Matapan non fu causato da tradimento ma
dal mancato addestramento al combattimento notturno e dagli errori di
comando. 5. La battaglia dei convogli fu un successo per la marina
italiana, che alimentò tenacemente sino alla fine la campagna in
Nord-Africa. 6. Non siamo stati delle comparse buone solo ad
arrendersi.
1.
Nota previa: La necessità di un sano spirito
militare per rinascere. Di
questi tempi la storia delle guerre e degli eserciti non sembra molto
popolare, pur avendo sempre i suoi cultori e tutto un vasto mondo di
riviste, libri, siti internet che la mantiene in vita. Non lo è,
soprattutto a causa della mentalità pacifista ad oltranza dominante
in Occidente. In apparenza, per nobili ragioni: il ripudio dell’uso
della forza, la condanna morale della guerra in quanto tale, con il
giusto accento di sdegno per le carneficine delle due ultime guerre
mondiali. In realtà, credo che al fondo di questo atteggiamento ci
siano presso i più motivi meno nobili, dovuti al sempre più
diffuso edonismo quale unico valore ammesso per l’ego smisurato
di ciascuno di noi; cosa, questa, che mostra di per sé la perdita
dell’amor di Patria, del senso dello Stato, del dovere, sentimenti
sommersi da quell’ossessione che erroneamente esige, quale compito
supremo della società e dello Stato, l’attuazione del supposto
diritto di tutti alla ricerca della loro personale felicità,
comunque concepita. In breve: l’attuale assenza di un sano e
consapevole spirito militare sembra più il prodotto della decadenza
morale dell’Occidente che della fede ardente in nobili e
altruistici ideali.
Infatti,
lo spirito militare (da non confondersi con il militarismo,
che ne è una versione estrema, squilibrata) presuppone l’esistenza
di determinate virtù, che non sono solo militari ma anche civili: a
cominciare per l’appunto dal senso del dovere, dell’onore, della
lealtà, dello Stato; dall’amor di Patria, dallo spirito di
sacrificio, dal coraggio. Per iniziare a risolvere la crisi,
innanzitutto morale, che ci affligge, queste virtù non dovrebbero
esser di nuovo coltivate dai nostri popoli?
Tuttavia,
se non c’è più l’idea di una Patria
comune
da difendere, come fa ad esserci lo spirito militare? Se si crede
manchi il bene per cui si deve combattere, il dovere di impugnare le
armi scade a routine senz’anima di richiamati o coscritti o a
mestiere per disoccupati o avventurieri.
Esiste
naturalmente da sempre lo spirito militare dei soldati professionisti
ma in senso più ristretto, come spirito
di corpo,
nutrito dall’esperienza acquisita nell’addestramento e nel
combattimento, valore intrinseco all’attività che si svolge, senza
nessun collegamento con il valore più alto (la
difesa della terra,
della
casa, della Patria, dei suoi confini) che
richiede la presenza di uno “spirito militare” anche nel semplice
cittadino. Chiamato, appunto, come si diceva una volta, quando
esisteva la leva obbligatoria, a servire
la Patria in armi,
sino al punto da mettere in gioco la sua vita per essa1.
L’oscuramento
dell’ideale della Patria comune, valore fondamentale della vita
civile e realtà che si ha il dovere di difendere, non è solo
italiano. Esso ha cause multiformi, che sarebbe troppo lungo
indagare qui. Mi limito per il momento a ricordare che esso è in
primo luogo il frutto di pulsioni ideologiche provenienti sia dalla
sinistra socialista, libertaria e marxista; sia dal democraticismo di
stampo “liberal”, uniti nella loro avversione verso lo Stato
unitario, l’idea di nazione, la famiglia e la morale tradizionali,
la religione cristiana. Queste ideologie, alle quali si è unito il
cattolicesimo “progressista”, largamente rappresentato oggi anche
nel clero, martellate implacabilmente nella cultura di massa dal 1945
ad oggi, hanno provocato una vera e propria “snazionalizzazione
delle masse”, per parafrasare al contrario il titolo di una celebre
opera sulle origini del nazionalismo tedesco di George L. Mosse,
illustre storico delle idee. Pertanto, tale oscuramento coinvolge
oltre all’idea di Stato e di nazione, anche quella di popolo e
persino di società, intesa quest’ultima ormai come qualcosa di
mobile e indefinito, dominato dall’atomismo del cosiddetto
“villaggio globale” e dal fluttuare alienante e distruttivo del
“mercato globale” (non più una società bensì una dissociété
su scala mondiale, secondo l’acuta definizione del filosofo
cattolico belga Marcel De Corte).
Le
f o r m e nelle quali si presenta nel modo più evidente la
dissoluzione attuale degli Stati nazionali, con le loro rispettive
società, sono soprattutto d u e : il sovrapporsi oppressivo e
corruttore di entità sovranazionali, quali ad esempio l’ONU, l’OMS
e l’Unione Europea, e il contemporaneo insinuarsi di una pluralità
di entità regionali, che tendono a porsi sempre più come piccoli
Stati, giustificandosi da un lato con il mito della "nazionalità
spontanea”, che lo Stato centrale dovrebbe limitarsi a riconoscere,
tutelandone però le esigenze economiche e di assistenza ritenute
necessarie, provvedendo cioè senza fiatare con i cordoni della
borsa; dall’altro, con il sofisma secondo il quale organizzazioni
superstatali quali L’Unione Europea, supposte irreversibili,
ammetterebbero al loro interno solo un sistema di regioni organizzate
come Stati in sedicesimo, territorialmente poco estesi ma dotati di
larga autonomia, ancorché formalmente vincolati alle norme emanate a
Bruxelles.
In
questa sconnessione istituzionale si inserisce il disordine sempre
più accentuato provocato dalla “migrazione” afroasiatica e
musulmana, che da qualche anno ha assunto i caratteri di una vera e
propria invasione, incontrollata e sempre più minacciosa, nello
stesso tempo subìta ed incoraggiata. I popoli europei, compreso il
nostro, afflitti dalla denatalità causata dal loro edonistico,
anarcoide e libertino stile di vita, sono oppressi sempre più da
un’istituzione centrale (l’Unione Europea), la cui classe
dirigente, ispirata ai dogmi del politicamente corretto più
radicale, non è affatto patriottica:
non si sente né europea né nazionale bensì sovranazionale,
cosmopolita ed è strettamente legata alla finanza internazionale.
Essa non solo accetta ma incoraggia l’immigrazione massiccia che
minaccia di tutto travolgere – non per nulla, l’inquietante conte
Richard Coudenhove Kalergi, l’austro-nipponico visionario teorico
dell’Europa meticcia e multiculturale, non più cristiana né
bianca, troneggia nel Pantheon degli oracoli cui si prostrano i
leaders dell’Unione. Ora, se vogliono sopravvivere, questi popoli
non dovrebbero, per cominciare ad opporsi a tutto questo, ritrovare
in se stessi innanzitutto il giusto “spirito militare”? Senza di
esso, come prepararsi spiritualmente ai gravi conflitti che
purtroppo li attendono, di tipo convenzionale o meno, “simmetrici”
od “asimmetrici” che siano; causati, bisogna pur dirlo sin
d’ora, dall’inettitudine e dalle idee perverse ed irresponsabili
delle loro attuali classi dirigenti, sia civili che ecclesiastiche?
Bisogna, pertanto, ritrovare quelle virtù senza le quali non è
possibile battersi per alcun ideale né possedere il giusto slancio
nella lotta.
Gli
attuali governanti turchi, sempre più imbaldanziti dalla presenza di
numerose, chiuse, compatte e aggressive comunità turche nel nostro
territorio, imbevuti da sempre di quell’ideologia loro che si
chiama “turanismo”, postulante un impero di tutti i popoli
“turanici”, dalle steppe mongole all’Asia centrale, ai Balcani,
al Medio Oriente, al cuore dell’Europa; costoro hanno cominciato di
recente ad apostrofarci come un tempo i sultani del loro defunto
impero, minacciandoci di guerre di religione, gridando che le nostre
città “diventeranno tante Aleppo”. I nostri governanti e il
clero cattolico, a cominciare dal regnante Pontefice, hanno forse
preso nota?
*
* *
Ma
torniamo all’Italia. Riacquistare il giusto ed indispensabile
“spirito militare”, per noi italiani sembrerebbe particolarmente
difficile, dato che su di noi si vuol sempre far pesare la disfatta
del 1943: non tanto il fatto in sé della sconfitta nella tremenda
Guerra Mondiale, quanto il modo nel quale è avvenuta, con il
collasso repentino di un esercito molto logorato, è vero, perché
ampiamente depauperato in uomini e mezzi, dopo tre anni e tre mesi di
durissima e infelice guerra contro le maggiori potenze mondiali, ma
ancora in grado di battersi in chiave difensiva e comunque in modo da
salvare la cosa più importante, l’onore,
se i suoi capi l’avessero voluto guidare, parlando alla Nazione,
affrontando i tedeschi, invece di perdere la testa all’annuncio non
preannunciato dell’Armistizio (peraltro firmato in segreto da 5
giorni) e fuggire nel tacco non ancora occupato d’Italia,
abbandonando senz’ordini i soldati al fulmineo e brutale attacco
tedesco, militarmente inevitabile e pianificato sin dalla caduta di
Mussolini, anteriore di quarantacinque giorni. Furono la negligenza,
la superficialità, la viltà dei capi a rovinare la reputazione
dell’intera nazione2.
Ora,
come rinascere militarmente senza spirito militare, e quindi senza
quelle virtù militar-civili sopra richiamate, che ne costituiscono i
presupposti? Eppure quelle virtù, durante i tre anni della II Guerra
Mondiale, il soldato italiano le aveva pur dimostrate, in molte
occasioni. E dopo la tragica resa incondizionata del 1943, pur ci
furono migliaia di giovani e meno giovani, da
una parte e dall’altra,
che andarono a combattere, in circostanze estremamente difficili, per
difendere la Patria e vendicare l’onore dell’Italia. Minoranze,
certo, che tuttavia fecero vedere come le virtù a fondamento del
necessario spirito militare non fossero estinte. E finché vi sono
anche pochi uomini che combattono per la Patria e il suo onore,
possiamo dire che la Patria sia morta? Così poteva sembrare, nei
giorni drammatici del caos umiliante seguito alla nostra resa
incondizionata. Ma così non fu, se è vero che il durissimo
Trattato di Pace del 1947, impostoci quali nemici da punire
severamente come se la nostra cobelligeranza non ci fosse mai stata
(evidentemente, nonostante la “cobelligeranza”, eravamo rimasti
sempre nemici
integrali
e le ripetute promesse di mitigare le clausole della resa se ci
fossimo “comportati bene” militarmente, nient’altro furono che
una crudele presa in giro); quell’infame Diktat, come fu chiamato,
atto finale di una serie impressionante di umiliazioni, ed umiliante
esso stesso in certe sue clausole (artt. 15 e 16), provocò un’ondata
di sdegno in tutto il Paese, anche tra le classi più umili. E
quello sdegno, da cosa era provocato se non dal patriottismo? Del
resto, già l’armistizio era stato sentito come una grande vergogna
nazionale da praticamente tutta la popolazione3.
*
* *
Mancava,
dunque, un’opera che, ristabilendo la verità storica, dimostrasse
come quelle virtù civili e militari, delle quali non si ritene
capace il popolo italiano, furono esercitate durante la II Guerra
Mondiale, in particolare dagli uomini della Regia Marina (e della
Regia Aeronautica) che affrontarono per tre lunghi anni l’impari
confronto con la Royal Navy britannica, all’epoca ancora
considerata la migliore del mondo, e la non meno formidabile Royal
Air Force.
Nel
settembre del 2014 l’editore Feltrinelli ha pubblicato l’ampio
studio di uno storico militare statunitense, il prof. James J.
Sadkovich, dedicato alla Regia Marina nella II guerra mondiale,
apparso in lingua originale nel 1994. Si tratta della riedizione
integrale di una traduzione pubblicata per la prima volta nel 2006
dalla Libreria Editrice Goriziana, nella sua collana “Le Guerre”,
una delle migliori sul tema, in Italia. L’impegnativa monografia
dello studioso americano ha destato notevole interesse in Italia e
questo spiega, credo, perché sia stata da poco ripubblicata da un
editore a vasta tiratura come Feltrinelli, in genere poco propenso,
per impostazione ideologica, a rivalutare temi quali il patriottismo,
lo spirito di dedizione e sacrificio dei militari, il prestigio delle
loro istituzioni4.
Ma
anche un editore di sinistra come Feltrinelli si sarà reso conto,
credo, che l’opinione negativa che si ha di noi all’estero
(quello di essere un popolo vile, che non si batte, pronto a tradire
le alleanze), prescinde dall’esser giuste o meno, “democratiche”
o “fasciste” le cause per le quali si trova a combattere. Buone
o cattive che siano le cause, l’italiano scappa sempre, ci gridano
dietro. Ristabilire la verità storica sulla nostra infelice
partecipazione alla II g.m. non significa giustificare l’errore
gravissimo di esserci entrati e per di più in quel modo malaccorto,
con l’idea (o la speranza) di combattere una “guerra breve”,
quasi di facciata, avendo Hitler già vinto senza di noi (si
pensava), non solo per ottenere qualche beneficio dal vincitore
(all’epoca alleato di Stalin) ma anche per salvarsi dalla sua ira.
Significa render a ciascuno il suo, render il giusto riconoscimento
al valore e allo spirito di sacrificio degli equipaggi e dei quadri
immolatisi nell’adempimento del loro dovere in una guerra sbagliata
e contro un nemico molto più forte5.
2.
Render
giustizia al valore e allo spirito di sacrificio dimostrati dalla
Marina e dall’Areonautica italiane
Il libro vuol rendere, dunque, giustizia ai marinai italiani che si
batterono per più di tre anni in condizioni di notevole inferiorità
materiale e “tecnologica” praticamente costante contro un nemico
del calibro della Royal
Navy,
sfatando lo stereotipo negativo che è stato loro applicato dalla
fine della guerra ad oggi, praticamente da quasi tutta la saggistica
e storiografia navale, in particolare da quelle anglosassoni e
tedesche6.
L’Autore
ha dovuto analizzare anche l’attività della Regia Aeronautica
(scorta convogli, attacchi alla flotta nemica, cooperazione con la
Regia Marina, campagne aeree su Malta, ripetute battaglie aeree con
la RAF). Nella storiografia e memorialistica anglosassone tale
apporto viene in genere liquidato come irrilevante e nei soliti
termini sprezzanti. Incrociando accuratamente le fonti inglesi,
tedesche e italiane l’Autore dimostra, invece, che tale apporto non
fu affatto irrilevante e che la nostra Aereonautica militare, non
solo assieme ai tedeschi ma anche da sola, seppe dare filo da torcere
ai britannici, sia su Malta sia nei combattimenti aereonavali.
Anch’essa pagò lo scotto, oltre che alla scarsità di materie
prime e di benzina, alla produzione industriale insufficiente e per
certi aspetti mal organizzata, basti pensare ai troppi tipi di aerei
da caccia. Pesavano certe sbagliate scelte anteguerra: il non aver
sviluppato per tempo la specialità degli aerosiluranti (che poi
furono sempre troppo pochi, anche se qualche buon colpo lo misero a
segno) e il bombardamento in picchiata sulle navi, optando per quello
in quota, poco efficace (nonostante gli spaventi che procurava agli
inglesi) dato il numero limitato di aerei che in genere lo attuava e
l’esiguità del loro carico di bombe. Grave fu il mancato sviluppo
di un aereo da caccia notturno7.
“I
piloti britannici, che pure avevano cominciato a colpire duramente la
navi dell’Asse [dalla metà del 1941], non riuscivano ad avere
ragione della Regia Aeronautica. Il 19 agosto, uno scontro fra
dodici Hurricane e una decina di Mc.200 si concluse con un pareggio;
la notte del 21, i britannici mancarono la distruzione di un
convoglio. Cinque giorni più tardi, un Blenheim [caccia-bombardiere
leggero, bimotore] fu abbattuto durante l’attacco a una nave; nella
mischia in cui furono coinvolti dieci Hurricane e quindici Macchi,
ambo le parti persero un velivolo. La settimana seguente, un Cr. 42
abbatté un Wellington [bombardiere leggero, bimotore] al largo di
Lampedusa, cinque Swordfish [aerosiluranti] affondarono l’Egadi
e un gruppo di Wellington affondò il Riva
ormeggiato
nel porto di Tripoli [due piroscafi da carico]. Nel complesso,
nonostante gli straordinari vantaggi procurati da Ultra e dall’ASV
[radar Air
to Surface Vessels,
radar aria-superficie montati da qualche tempo su parte degli aerei
inglesi] gli apparecchi britannici ottennero successi sporadici; il
nuovo Hurricane II non valse a spostare l’ago della bilancia
nell’aria, dove la Regia Aeronautica, senza l’appoggio della
Luftwaffe,
aveva costretto la RAF
all’impasse.
I britannici avevano rispetto sia della Regia Marina che della Regia
Aeronautica: ciò fu palese sul finire di luglio in occasione
dell’operazione “Substance” quando essi predisposero una
nutrita scorta per condurre a Malta sette navi da carico”8.
La “nutrita scorta” comprendeva due corazzate, una portaerei,
sei incrociatori e circa venti cacciatorpediniere. La marina
italiana si mise in allerta ma la ricognizione aerea italiana riuscì
a trovare la formazione inglese troppo tardi per far uscire la nostra
flotta da battaglia da Taranto in tempo utile ad agganciarla. La
formazione britannica fu ripetutamente attaccata dalla Regia
Aeronautica e dai nostri MAS, fu affondato un cacciatorpediniere, il
Fearless,
danneggiati un incrociatore leggero, un altro cacciatorpediniere, un
piroscafo armato e una cisterna. Non certo un gran bottino ma nei
numerosi duelli aerei la nostra aviazione tenne botta con quella
britannica. Secondo l’Autore, gli inglesi gonfiarono alquanto le
perdite da loro inflitte agli aerei italiani (di norma, tutti i
contendenti raddoppiavano le cifre delle perdite inflitte).
L’Autore
conclude che, all’epoca, i britannici avevano un salutare rispetto
per gli italiani, tant’è vero che “gran parte dei convogli [che
rifornivano Malta] erano formati da navi da guerra [isolate] che
facevano puntate rapidissime nell’isola, oppure bordeggiavano la
costa africana battendo bandiera francese [la Francia di Vichy era
neutrale]”9.
C’era assai poco di “nelsoniano” in questo modo di combattere,
ma tant’è: necessità fa virtù. La realtà era che, “di
fatto, la Marina e l’Aeronautica italiane avevano chiuso il
Mediterraneo al traffico regolare, mantenendo le proprie vie di
comunicazione con il Nordafrica. E non si trattò di un successo da
poco”10.
Il
lavoro del prof. Sadkovich si segnala per la vastità e l’analicità
della documentazione e il rigore con il quale è condotta
l’argomentazione, sempre equilibrata nonostante il tono fortemente
critico nei confronti della storiografia che va per la maggiore.
“Non
è mia intenzione sostenere che la Regia Marina “vinse” la
guerra, né che fosse in grado di competere su un piede di parità
con i britannici, tutt’altro. Vorrei che il lettore capisse la
situazione sfavorevole in cui combatté la Marina italiana, a fronte
degli enormi vantaggi di cui godettero i britannici, favoriti in modo
cruciale dal possesso del radar e dalla capacità di “leggere” le
comunicazioni tedesche e italiane in codice “Enigma” [mediante il
sistema di decrittazione Ultra].
Vorre che al lettore fosse chiaro che la decisione di non costruire
portaerei fu sintomatica non solo dell’approccio strategico
italiano al Mediterraneo, ma anche di un’economia debole e di una
eccessiva fiducia nel potenziale della flotta aerea, a cui si
assommarono irragionevoli aspettative rispetto alle capacità
dell’Aeronautica italiana. È infine essenziale che il lettore
abbia presenti le differenti entità della flotta italiana e di
quella britannica, lo stato ancora embrionale delle strutture
dell’Italia e la sua esigua base di risorse; solo così è
possibile capire i gravi svantaggi patiti dall’Italia, che in
termini qualitativi e quantitativi non ebbe mai dai tedeschi il
sostegno materiale che invece i britannici ricevettero dagli
americani, dal Commonwealth e dall’Impero.
In
altri termini, vorrei che il lettore comprendesse la debolezza
dell’Italia, senza però credere che tale debolezza debba tradursi
in eccessiva prudenza o in semplice codardia.
Mi auguro, invece, di dimostrare che gli italiani si comportarono
bene malgrado gli svantaggi, e che furono in primo luogo loro a
bloccare per trentanove lunghi mesi [durata della nostra guerra, come
Stato indipendente: 10 giugno 1940-8 settembre 1943] il grosso della
forze britanniche nel bacino del Mediterraneo.
In questo libro cercherò di sfatare alcuni miti circa il ruolo di
Malta, l’apporto dei tedeschi e la prestazione dell’Aeronautica e
della Marina italiane. A questo scopo sarà necessario concentrarsi
sui dettagli più di quanto qualcuno potrebbe ritenere auspicabile,
dal momento che buona parte di questa trattazione va contro corrente
rispetto alla Tradizione – che J.S. Mill riteneva il più granitico
dei pregiudizi. Perciò io mi soffermo alquanto sulle operazioni
aeree nel cielo di Malta, anche se si tratta di un argomento tedioso
per tutti, a parte gli appassionati di aviazione, e che si basa su
alcune opere secondarie. Inoltre, tratto nel dettaglio la questione
del rifornimento dell’Africa, dal momento che ad informare la
nostra conoscenza della logistica dell’Asse nel Mediterraneo è
stato il punto di vista tedesco – in particolare quello capzioso di
Rommel – e dal momento che i successi della Marina italiana nelle
operazioni di approvigionamento dell’Africa costrinsero i
britannici a impegnare la pressoché totalità delle loro risorse
nello scacchiere mediterraneo per gran parte della guerra.
Dunque,
questa non è una storia di battaglie né una storia esaustiva della
Regia Marina nella guerra; si tratta piuttosto di un resoconto
interpretativo delle operazioni navali che spero possa offrire al
lettore un nuovo punto di vista…”11.
3.
La
superiorità tecnologica britannica Uno
studioso americano di origine croata si è dunque proposto il compito
di difendere la reputazione e l’onore della Regia Marina durante
l’ultima guerra, in nome della verità storica. E sicuramente c’è
riuscito, dimostrando, con la sua minuziosa analisi, quali erano le
vere condizioni nelle quali la nostra marina ha dovuto combattere e
come essa sia riuscita a portare a termine, sino alla fine, il suo
compito strategico fondamentale che era quello di tenere sempre
aperte le vie di comunicazione con la costa africana e il
Mediterraneo orientale, dimostrando tenacia e spirito combattivo sino
alla fine della Campagna d’Africa12.
A
scanso di equivoci va ribadito che l’Autore effettivamente non
tenta di alterare il senso dei fatti storici né di attenuare le
giuste critiche alle manchevolezze e agli errori che afflissero la
nostra marina da guerra (e non solo la marina) nell’ultimo
conflitto mondiale, carenze e magagne che certamente contribuirono
alla nostra sconfitta. Egli vuole tuttavia situare le cose nel loro
giusto contesto, con il reagire a quello che considera uno stereotipo
caratteristico di certa predominante saggistica e storiografia
anglossassone e tedesca, la tesi cioè della superiorità
morale
e di
carattere nei
confronti dell’avversario quale spiegazione fondamentale, e per
molti
unica,
del successo nei suoi confronti. Questi fattori sono essenziali e in
certi casi la vittoria dipende indubbiamente solamente da essi. Non
è però questo il caso delle vicende della Regia Marina nel secondo
conflitto mondiale. La tesi dell’Autore – documentatissima, come
si è detto – è che il predominio inglese non fu mai assoluto né
continuo; anzi i britannici dovettero subire la nostra supremazia per
tutta la prima metà del 1942. In ogni caso non dovemmo mai
sospendere le rotte praticamente giornaliere per l’Africa e il
Mediterraneo orientale (solo per un tre giorni dopo la distruzione
del convoglio Duisburg).
I britannici prevalevano soprattutto nell’incolmabile
superiorità tecnologica
nei nostri confronti. Ciò va detto senza nulla togliere alle loro
riconosciute qualità di esperti e agguerriti uomini di mare e alla
loro migliore organizzazione13.
Questa
superiorità si basava su due
fattori essenziali. Il primo costituito dalla capacità di penetrare
i nostri codici e quelli dei tedeschi con il complesso e geniale
sistema di decrittazione noto come Ultra;
il secondo, dal possesso del radar, a noi precluso anche per colpa
dei nostri ammiragli che, prima della guerra, avrebbero avuto la
possibilità di utilizzare e sviluppare un ottimo brevetto italiano
in materia, e non lo fecero, per poi declinare l’offerta di un
prototipo da parte dei tedeschi poco prima della guerra. L’Autore
documenta come si sia verificato più volte questo schema
a nostro danno: Ultra
decrittava
regolarmente, in tempi più o meno lunghi ma spesso brevi, i messaggi
tra Roma e i vari comandi, anche tedeschi; i messaggi fornivano molti
dati se non tutti di un convoglio in partenza per la Libia, poniamo
da Napoli: giorno, rotta, carico etc. Navi e/o sottomarini e/o
aerosiluranti si appostavano lungo la rotta e colpivano a freddo.
Spesso le unità partivano da Malta. I convogli italiani (a est e a
ovest di Malta) dovevano passare una notte in mare. L’attacco
avveniva quasi sempre di notte. Le navi di superficie, munite di
radar e guidate sovente da un aereo munito di radar, non sempre
trovavano il convoglio, ma quando ci riuscivano in piena notte
andavano a colpo sicuro, facendo una specie di tiro al bersaglio,
breve e preciso, per poi dileguarsi. Era una tattica
corsara,
nota l’Autore, alla “colpisci e fuggi”, resa possibile dalla
superiore tecnologica impiegata. Ricordava i colpi di mano dei Drake
e degli Hawkins, famosi pirati e comandanti della marina
elisabettiana, assai più che la tattica “nelsoniana”, non
insensibile ai colpi di mano, ma consistente, per definizione, nella
ricerca della flotta nemica per distruggerla in combattimento aperto
e acquisire in tal modo il dominio completo del mare14.
È
vero che gli inglesi, dopo le gravi manchevolezze dimostrate in
questo campo durante la I Guerra Mondiale, avevano intensamente
addestrato tutta la loro flotta al combattimento notturno mentre noi,
colpevolmente, non lo avevamo fatto. Ma il pedaggio pagato per
questo grave errore non sarebbe stato così salato, senza Ultra e il
radar. Scontavamo, inoltre, la mancanza di aerei da caccia notturni,
cosa che, durante la notte, rendeva i convogli per la Libia privi di
copertura aerea, pertanto indifesi contro gli attacchi notturni degli
aerosiluranti nemici, muniti di radar. Inoltre, le nostre unità di
scorta non avevano il sonar,
apparecchiatura fondamentale per individuare i sottomarini, in
possesso invece dei britannici. Inoltre, avendo la marina (nel 1925 e
oltre) respinto l’idea della portaerei (proposta da Mussolini) non
era poi nemmeno riuscita ad avere una sua aviazione né a sviluppare
un decente coordinamento con la Regia Areonautica, anche per colpa di
un certo egoismo di quest’ultima. Infine, gravava sul comandante
in mare l’ordine di Supermarina (lo Stato Maggiore della marina)
che voleva sempre dirigere i combattimenti della flotta da Roma. Ciò
rendeva quasi nulla l’autonomia dei comandanti in azione, con
pesanti conseguenze sul piano operativo. Su queste nostre debolezze
istituzionali la superiorità tecnologica del nemico costituiva il
carico da undici. E non va dimenticato che mentre noi soffrimmo di
scarsità di carburante per tutta la guerra, piuttosto seria
nell’ultimo anno, i britannici nuotarono sempre nella benzina, per
così dire.
Gli
storici hanno sempre giustamente sottolineato l’errore italiano di
voler fare una politica da grande potenza senza averne i necessari
requisiti, dalla disponibilità di materie prime ad un forte ed
evoluto apparato industriale, ad una classe dirigente (civile e
militare) effettivamente all’altezza per visione, preparazione,
capacità. Annoto, tuttavia, che certe nostre deficienze derivarono
dalle scelte sbagliate dei vertici non dalla mancanza di mezzi e
capacità. Fu la miopia degli ammiragli ad impedirci di avere le
portaerei e il radar per tempo (qualche esemplare di origine tedesca
e poi italiana fu montato su nostre navi dall’estate del 1942
solamente). Forse che i nostri cantieri non erano in grado di
costruire una portaerei già negli anni venti (secondo l’intenzione
iniziale di Mussolini) allorché si cominciarono a spendere grosse
somme per ammodernare tre corazzate più piccole (320 mm. di calibro
invece di 381), rivelatisi poi deludenti? O non era la nostra
industria in grado di fabbricare per tempo aerosiluranti e caccia
notturni? E non è forse vero che un ingegnere italiano, prima della
guerra, aveva già brevettato un prototipo di radar (del resto allo
studio presso tutte le marine) destando subito l’interesse della
Marina tedesca ma non di quella italiana? E che i tedeschi ci
offrirono inutilmente un loro radar all’inizio della guerra? Per
quanto fossimo una potenza industriale minore, tutte queste cose
erano alla nostra portata, così come l’addestramento della flotta
al combattimento notturno, carenza che nelle fonti ora viene
attribuita all’intera flotta ora solo a quella c.d. “da
battaglia” (corazzate, incrociatori), anche se nei 15 combattimenti
notturni di nostri caccia e torpediniere contro gli inglesi, questi
ultimi, a prescindere dal radar, dimostrarono in genere una migliore
coordinazione, frutto evidentemente dell’intenso addestramento
ricevuto15.
È
utile, a mio avviso, riflettere ancor oggi su queste carenze di fondo
poiché in esse appaiono le lacune delle nostre classi dirigenti nei
secoli, in primis l’incapacità di pensare in grande cioè in modo
non settoriale (incline sempre al “particulare”) ma unitario e
sistematicamente volto ad un obiettivo comune. E non dobbiamo
chiederci, oggi, se queste carenze sono state effettivamente superate
nella classe dirigente (civile e militare) dell’Italia
“democratica” attuale? Il dubbio è più che lecito.
4.
Il
ruolo fondamentale di ULTRA La
verità sul ruolo importantissimo giocato da Ultra, emersa solo a
partire dal 1974 con le prime pubblicazioni inglesi sull’argomento,
dovrebbe far cadere nel nulla le accuse di tradimento rivolte allo
Stato Maggiore della Regia Marina (un ambiente considerato
filoinglese e notoriamente tiepido verso il regime); accuse manifeste
da parte dei tedeschi (da Rommel in particolare), quando si capì
(dalla dinamica di certi attacchi ai nostri convogli) che i
Britannici erano a conoscenza delle loro rotte; accuse riprese poi da
Antonino Trizzino subito dopo la guerra nel suo polemicissimo Navi
e poltrone,
che provocò anche strascichi giudiziari, dai quali l’Autore uscì
comunque indenne.
Sull’attività
di Ultra gli studi fondamentali sono sempre quelli dell’eminente
storico militare prof. Alberto Santoni, scomparso nel 2013 a 78 anni,
frutto di minuziose ricerche negli archivi stessi del centro di
intercettazione e decrittazione britannico, dopo che era stato aperto
agli studiosi. Il suo testo Il
vero traditore
resta un’opera capitale sul tema16.
In altri libri sullo stesso argomento, Santoni ha documentato che
gli inglesi controllavano e “leggevano” praticamente tutto il
traffico radio delle nostre forze armate sin dall’epoca della
Guerra d’Abissinia, inclusa quindi anche la Guerra di Spagna! Solo
l’annessione mussoliniana dell’Albania li colse di sorpresa,
generando per un po’ di tempo apprensione nei loro servizi segreti:
avevamo cambiato i codici ma dopo poco tempo essi furono in grado di
decifrarli di nuovo. Il nostro sistema informativo restava comunque
fragile e penetrabile, anche per qualche negligenza in altri settori,
per esempio nella sicurezza o protezione di cifrari e codici in unità
navali in affondamento o delle notizie riservate nell’ambiente
romano, dove tra l’altro continuarono a risiedere i rappresentanti
inglesi e americani presso la S. Sede (Mussolini applicò
correttamente il Trattato del Laterano, sino alla fine). Anche
italiani e tedeschi “leggevano” le comunicazioni radio inglesi,
ma senza arrivare all’estensione capillare e soprattutto alla
continuità del sistema Ultra, che inoltrò ai comandi navali
britannici decine di migliaia di decrittazioni concernenti l’attività
della Regia Marina17.
4.1
Il
disastro di Matapan non fu causato da tradimento ma dal mancato
addestramento al combattimento notturno e dagli errori di comando.
Santoni
documenta in modo inoppugnabile come l’agguato notturno di Matapan
(28 marzo 1941), che ci costò tre incrociatori pesanti e due
cacciatorpediniere nonché 2303 morti, colpiti a distanza ravvicinata
dalle corazzate e dalle altre unità inglesi, delle quali non si
erano accorti perché impegnati a rimorchiare l’incrociatore Pola
immobilizzato da un precedente siluro – fu costruito a partire
dalla decrittazione Ultra dei messaggi radio tra Roma e Rodi,
pubblicate nell’appendice del libro, non a fuga proditoria di
notizie. Pur presentando dati generici, le decrittazioni
permettevano all’ammiraglio Andrew Cunningham comandante della
Mediterranean Fleet, di capire con due giorni di anticipo che una
forza navale italiana si apprestava a compiere una puntata offensiva
nell’Egeo contro il traffico britannico. Pertanto egli cominciò a
prendere le sue contromisure e a predisporre una congrua trappola,
con un ordine di muoversi già il 26 marzo, ordine che fu visto da un
ufficiale italiano salvato e preso prigioniero, appeso alla parete di
un locale della nave che l’aveva ripescato18.
Santoni
ha messo in rilievo un interessante aspetto, emerso nel corso di vari
convegni di studiosi dedicati a ULTRA: gli inglesi tenevano
ovviamente nascosta la sua esistenza anche ai loro. Churchill,
quando rivelava informazioni provenienti da Ultra diceva che la fonte
era un certo “Boniface”, nome in codice. Ad un certo punto, gli
inglesi inventarono perfidamente l’esistenza di un ufficiale
traditore italiano quale fonte delle informazioni, tale generale
Duberto, ufficiale di collegamento tra italiani e Rommel, ovviamente
mai esistito19.
Con
tutte le informazioni che forniva Ultra, che bisogno avevano i
britannici di tenere tante spie a Roma? Circa i supposti tradimenti,
ci si riferisce qui alle accuse relative al periodo 1940-1943, sino
alla perdita dell’Africa (13 maggio ’43, resa di tre giorni
posteriore a quella dei tedeschi). Tuttavia, alcune ombre rimangono,
per esempio sulla perdita di diversi sottomarini nei primi giorni di
guerra, puntualmente attesi da sottomarini nemici quando andavano ad
appostarsi nella zona d’agguato20.
E nemmeno mi riferisco alle posteriori rese ingiustificate e
improvvise, senza combattere, di Pantelleria e Augusta, munite
piazzeforti comandate ognuna da un ammiraglio, la cui conquista
avrebbe richiesto un certo prezzo da parte degli Alleati: su quelle
rese resta un’ombra mai fugata anche perché a Pantelleria l’ottima
base aerea venne consegnata intatta, compreso il grande hangar
sotterraneo21.
Né al mancato impiego di quello che ancora restava della flotta da
battaglia (ancora di un qualche peso, sulla carta) per difendere la
Sicilia invasa: alcuni ritengono che, se si voleva salvare l’onore,
per il futuro dell’Italia, la flotta avrebbe dovuto immolarsi nelle
acque siciliane dominate dal gigantesco apparato aeronavale alleato.
(Ma, per salvare l’onore non era sufficiente far autoaffondare la
flotta rimastaci, invece di farla andare a Malta?). Erano già
iniziati da qualche tempo i sondaggi di certi ambienti legati alla
Corona per far uscire l’Italia dalla sciagurata guerra con una pace
separata, un’idea come si sa considerata anche da Mussolini. È un
fatto poco noto, ma praticamente dall’estate-autunno del 1942 in
poi, ancor prima della conclusione della battaglia di Stalingrado,
quasi tutti gli alleati più importanti di Hitler (italiani,
finlandesi, ungheresi, romeni) cominciarono ad effettuare cauti e
segretissimi tentativi per uscire dal conflitto, in modo
possibilmente dignitoso. Così, “nell’estate del 1942 Grandi
cercò di recarsi a Madrid, dove l’ambasciatore inglese era Sir
Samuel Hoare, suo amico personale, ma, nonostante avesse avuto
l’autorizzazione di Mussolini, fu bloccato da Ciano, allora
ministro degli esteri”22.
A
Matapan, una aliquota della nostra flotta di battaglia (una corazzata
moderna, sei incrociatori pesanti, tre leggeri, tredici
cacciatorpediniere, sproporzionata per un’incursione – invocata
dai tedeschi – contro il traffico del nemico nell’Egeo) pagò
assai cara la mancanza del radar, di una nave portaerei (per la
ricognizione e copertura aerea e l’impiego di aerosiluranti
imbarcati), e soprattutto il mancato addestramento al combattimento
notturno; cosa, quest’ultima, che avrebbe se non altro permesso di
limitare i danni, di non farsi sorprendere inermi con i cannoni per
chiglia a rimorchiar l’incrociatore danneggiato e immobile, perché
il siluro nemico incassato il giorno prima gli aveva distrutto tutto
l’apparato elettrico, e con gli incrociatori davanti ai caccia,
contro ogni prassi. L’incrociatore immobilizzato nell’azione
diurna avrebbe dovuto esser evacuato, abbandonato e affondato con i
siluri, come aveva chiesto il suo comandante. Quindi: carenze di
previsione, di addestramento, di comando, improvvisazione. Certo, se
gli inglesi non fossero stati informati da Ultra, la nostra puntata
di sorpresa avrebbe potuto riuscire, affondandogli qualche carretta o
unità minore, incontrate per via. Nel risultato fallimentare e
doloroso dell’impresa, mal concepita e male attuata, appaiono come
in una sorta di nemesi tutte le carenze di chi dirigeva la Regia
Marina e ne aveva orientato le scelte sin dagli anni Venti23.
5.
La
battaglia dei convogli fu un successo per la marina italiana, che
alimentò tenacemente sino alla fine la campagna in Nord-Africa.
Come
ha riconosciuto la storiografia più meditata, il compito strategico
essenziale della Regia Marina nella guerra era unicamente quello di
assicurare i vitali rifornimenti per il NordAfrica, l’Albania e
l’Egeo. L’impressione che si ricava leggendo gli autori
anglosassoni è che la nostra marina non abbia mai rappresentato un
problema, che la Royal
Navy
e la RAF
abbiano sempre potuto disporre come volevano dei nostri convogli, che
le uniche serie difficoltà siano venute a loro dalla Luftwaffe
e dai sottomarini tedeschi, protagonisti entrambi del maggior numero
di affondamenti24.
Il
comando italiano era costretto ad ispirarsi alla strategia della
“fleet in being” o della “flotta in potenza”: la flotta di
battaglia (all’epoca: corazzate, incrociatori pesanti, portaerei)
non cerca la battaglia risolutiva col nemico, al fine di assicurarsi
il dominio del mare, secondo la tradizione nelsoniana,
orgogliosamente ostentata dagli inglesi, ma se ne sta “in being”
nelle sue basi, con il proposito di intervenire solo se si presenta
l’occasione favorevole. Tale strategia è, in particolare,
giustificata quando si devono alimentare quotidianamente territori,
basi, eserciti oltre mare e si fronteggia un nemico più forte. In
una sola battaglia la flotta può esser distrutta e allora è la
fine: il nemico taglia del tutto i rifornimenti, i territori
d’oltremare si arrendono, le coste nazionali sono esposte agli
sbarchi nemici; insomma, la guerra è perduta.
La
protezione dei propri convogli è affidata alle unità più leggere
(corvette, cacciatorpediniere, incrociatori leggeri, etc.). Il
permanere della flotta pesante nelle basi non è inutile, a meno non
si trasformi in vera e propria inazione,
dal momento che la sua sola presenza incide sui movimenti del nemico,
che deve tener conto di essa come fattore che può rapidamente
materializzarsi con forze superiori e colpire. Così noi dovevamo
tener conto delle corazzate inglesi di base ad Alessandria e gli
inglesi delle nostre a Taranto, nel pianificare i movimenti dei
rispettivi convogli e delle loro scorte. Inoltre, bisogna sapere che
per l’Italia le perdite di grandi unità erano assai più gravi,
data la sostanziale impossibilità di rimpiazzarle (arrivò in
squadra una sola nuova corazzata). E non si può dimenticare che la
marina da guerra dell’Italia unitaria era giovane e assai meno
esperta e sicura di sé di quella britannica, dominatrice dei mari da
più di due secoli, ricca di una serie impressionante di vittorie.
Ma il grande rispetto per la flotta britannica non impediva ai quadri
più giovani della Regia Marina e anche agli equipaggi di coltivare
il desiderio di dimostrare il proprio valore proprio contro un nemico
così forte e titolato.
La
Regia Marina (o meglio Supermarina)
fu accusata di atteggiamento troppo prudente, per ciò che riguardava
la flotta da battaglia. Questo potrà esser stato vero per alcuni
singoli episodi, anche se la cosa è in una certa misura contestata
dal prof. Sadkovich, secondo il quale la prudenza dimostrata in
alcuni casi dagli italiani nel far rischiare certe fasi di
combattimento alle loro corazzate, si poteva giustificare in base
alla situazione reale: si trattava di lanciarsi quasi al crepuscolo
e con mare mosso, con l’unica corazzata moderna al momento rimasta
operativa, dentro le cortine di fumo innalzate dalle scorte inglesi a
protezione di loro stessi e delle navi scortate, senza avere il radar
e sapendo ormai che il nemico invece lo possedeva. Una prudenza
similare, che, in termini “nelsoniani”, sarebbe apparsa
inaccettabile, fu manifestata in diverse occasioni anche dagli
ammiragli inglesi25.
Il
prof. Sadkovich apporta ulteriori argomenti alla tesi, sostenuta da
diversi storici, secondo la quale la strategia inglese nel
Mediterraneo, nonostante le vanterie “nelsoniane” e le accuse di
codardia a noi italiani, era esattamente la stessa della Regia
Marina: flotta da battaglia in
being
tra Alessandria e Gibilterra. Compito strategico primario: protezione
al traffico per Malta, distruzione di quello italiano, intervento del
grosso della flotta solo di fronte ad una ghiotta occasione (come
quella presentatasi a Matapan) o perché costretti a fargli scortare
un importante convoglio (impiego attuato più volte anche dalla Regia
Marina)26.
A
ben vedere, si trattava della stessa strategia perseguita con
successo dalle due flotte durante la I guerra mondiale: blocco
navale degli Imperi Centrali, incapsulando la flotta imperiale
tedesca nel Mare del Nord e quella austroungarica nell’Adriatico,
assieme a britannici e francesi - mantenimento delle vitali vie di
comunicazione, che allora per l’Italia erano costituite soprattutto
dai rifornimenti alimentari e di materie prime via Gibilterra.
Perdemmo comunque il 53% del nostro naviglio mercantile, una cifra
molto alta, ad opera dei sottomarini austrotedeschi e delle mine. Si
mantenne inalterato il livello del flusso di rifornimenti, rispetto
al tempo di pace: 54 milioni di tonnellate, anche se il fabbisogno
in tempo di guerra sarebbe stato di 70-72 milioni27.
Tornando
a Malta: essa diventò un vero proprio nido di vespe per noi
italiani, colpiva i nostri convogli con i sottomarini, gli aerei, il
naviglio leggero di superficie. Non riuscimmo mai a neutralizzarla
anche se, assieme ai tedeschi, la portammo sull’orlo del collasso
nell’estate del 1942. Del pari, osserva il prof. Sadkovich, gli
inglesi non riuscirono mai ad interrompere il traffico italiano per
la Libia né quello per l’Egeo, pur mettendolo in crisi grave
nell’autunno del 1941. Si potrebbe dire: match pari. O forse no.
“Benché
in trentanove mesi gli italiani inviassero 4.385 convogli –
ciascuno formato da un numero di navi da una a sette – e in media
avessero giornalmente in mare sette mercantili, le perdite in queste
operazioni riguardarono solo il 9,5 % dei materiali e il 4% delle
truppe. Gli autori italiani sono perciò giunti alla conclusione che
la Regia Marina vinse la guerra dei convogli, la sola guerra
“significativa” combattuta nel Mediterraneo”28.
Questo
dato complessivo va così suddiviso: per la Libia 993 convogli
mercantili e 203 militari (veloci navi da guerra, isolate o in
gruppo, imbottite di benzina, materiali, uomini, sistema
pericolosissimo per le navi, usato comunque spesso anche dagli
inglesi per rifornire Malta, Tobruk, Creta); per la Tunisia, 276
convogli mercantili e 167 militari; sulla rotta del Levante cioè
Albania, Grecia, Egeo: 3116 convogli mercantili. Al totale vanno
aggiunti 756 convogli libici costieri, di unità di piccolo
cabotaggio, per il rifornimento via mare delle truppe italo-tedesche.
Solo due grossi convogli mercantili furono completamente distrutti,
sulla rotta per la Libia: il Tarigo
e
il Duisburg.
Sono sempre quelli citati da storiografia e saggistica a simbolo di
un supposto costante
dominio britannico del mare, che avrebbe fatto passare sì e no
qualche carretta italiana.
Qualcosa
abbiamo dunque vinto, anche se, precisa lo stesso Giorgerini, si
tratta di una “vittoria statistica”. Che vuol dire? Che il pur
indubbio successo, che tanto è costato in termini umani e materiali,
cela il fatto che, in determinati periodi, gli inglesi sono riusciti
a colpire soprattutto le petroliere (delle quali conoscevano persino
il nome, grazie ad Ultra) facendo così mancare all’armata
italo-tedesca la benzina in momenti cruciali29.
Il fatto che i carichi di preziosa benzina siano arrivati a
destinazione per l’81%, ammontare che sembra di tutto rispetto,
conterebbe pertanto sino ad un certo punto: bisogna considerare lo
Zeitpunkt,
come dicono i tedeschi, il “momento nel tempo”, ossia l’influenza
dei mancati arrivi sulle battaglie più importanti.
Vediamo
sino a che punto questo è vero. Dopo il disastro subito da
Graziani, tra il dicembre del 1940 e il febbraio del 1941, con la
distruzione quasi completa dell’intera 10a
armata italo-libica, esercito di appiedati annientato dalla moderna
guerra di movimento messa in atto dal generale O’ Connor (ai cui
carri per di più - i famosi, lenti ma corazzatissimi
Matilda
- i nostri anticarro facevano il solletico), e la perdita
dell’intera Cirenaica, i rinforzi e i rifornimenti furono
trasferiti in Libia senza alcuna perdita: la divisione corazzata
Ariete
e la divisione di fanteria Trento,
in febbraio, seguiti dalla divisione di fanteria motorizzata Trieste
ad agosto. Tra febbraio e maggio del 1941 l’intero Afrika
Korps di
Rommel, per un totale di circa tre divisioni (due corazzate ed una
motorizzata), era giunto intatto, con tutti i servizi. Churchill
aveva ragione di lamentarsi dei propri ammiragli. Su questa
intensissima attività non influì la tragica notte di Matapan (28
marzo ’41) così come non aveva influito la notte di Taranto (11
novembre 1940), il siluramento nella munita base di tre nostre
corazzate, due delle quali recuperate in tempi abbastanza rapidi
mentre solo la vecchia e rimodernata Cavour
non
rientò più in squadra, perché gli estesi lavori di riparazione
vennero più volte sospesi e alla fine furono interrotti dalla
nostra resa.
Quando
Rommel, senza nemmeno aspettare il dispiegamento di tutte le forze
tedesche, iniziò la controffensiva che portò alla riconquista
temporanea della Cirenaica (marzo-aprile 1941), i mezzi ed i
rifornimenti arrivavano con un flusso regolare. In questo periodo
ebbe luogo la distruzione notturna del convoglio Tarigo.
Quattro piroscafi tedeschi e uno italiano affondati assieme a due
dei tre cacciatorpediniere della scorta, uno dei quali, il Tarigo
appunto,
benché malridotto, riuscì ad affondare con il siluro uno dei
quattro caccia inglesi autori dell’attacco, il Mohawk.
Grazie al radar, gli inglesi si erano avvicinati indisturbati e non
visti, aprendo il fuoco all’improvviso e da distanza ravvicinata,
come a Matapan.
“La
perdita del convoglio Tarigo
è
uno di quegli eventi che, con pochi altri, ha colpito la sensibilità
dell’opinione pubblica perché è stato spesso portato ad esempio
per dimostrare quanto il nemico fosse padrone del mare e impedisse il
flusso dei nostri rifornimenti. Una menzogna che vale tutta la
storia della guerra!”30.
Infatti, se guardiamo alle cifre, vediamo che da dicembre 1940 a
maggio 1941 furono effettuati 251 convogli, con perdite di naviglio
mercantile solamente del 2, 3% delle navi impiegate e minime in
termini di uomini e materiali. Per ciò che riguarda i carburanti,
“in mare non ne andò perduta una goccia nei mesi, non certo facili
come i precedenti, di marzo e di maggio 1941”31.
Ma i mesi di marzo e aprile sono proprio quelli dell’offensiva di
Rommel, sulla quale pertanto la spettacolare distruzione del
convoglio Tarigo,
avvenuta il 16 aprile, non ebbe alcuna effettiva influenza, per
quanto riguarda la benzina.
Ma
dall’estate del 1941 Ultra cominciò a funzionare a pieno ritmo
mentre Malta si rafforzava, grazie anche al ritiro dal teatro
mediterraneo di importanti aliquote della Luftwaffe,
inviate sul fronte russo. Nell’autunno di quell’anno,
soprattutto ad opera della Forza K, flottiglia di tre incrociatori
leggeri e alcuni cacciatorpediniere basata a Malta, gli inglesi
furono assai vicini ad interrompere il nostro traffico con la Libia.
Il mese peggiore fu novembre: “insieme al 92% del combustibile
inviato in Africa, erano state perdute dodici navi per un totale di
54.960 tsl [dieci affondate dalla Forza K]. Malgrado l’impiego di
ingenti scorte navali ed aeree, era andato perduto anche il 63% dei
materiali spediti. Delle cinquanta navi utilizzate, dodici mercantili
e tre cacciatorpediniere erano stati affondati e due incrociatori
danneggiati”32.
Tutto ciò in efficace preparazione e coordinamento con la grande
offensiva terrestre lanciata sempre in quel mese (il 18 novembre) dai
britannici, con notevole larghezza di mezzi, per distruggere l’armata
italo-tedesca aggirandola da Sud (operazione Crusader).
Pur messo sull’avviso dai servizi italiani, Rommel, che si stava
preparando a sua volta ad attaccare, sottovalutò la gravità della
minaccia e fu colto di sorpresa. Seguì un mese di violenti
combattimenti, piuttosto confusi dal punto di vista
tattico-strategico, dopo i quali gli italo-tedeschi dovettero
ritirarsi dalla Cirenaica, nonostante la tenacia ed il valore
dimostrati.
L’inferiorità
in uomini e mezzi delle truppe dell’Asse era dovuta anche alle
perdite inflitte dalla Royal
Navy
al nostro traffico. Abbiamo visto i dati del mese di novembre. In
settembre erano arrivati a destinazione solo il 71,7% dei materiali e
il 75,5% dei carburanti. Gravi le perdite di soldati: su 12.717
uomini imbarcati ne arrivarono in Libia solo 663033.
Inoltre, la Regia Marina non seppe impedire in quel periodo l’arrivo
di quattro convogli britannici pieni di rifornimenti, incrociatisi
tra Malta ed Alessandria, attaccati sì ripetutamente da aerei e
sottomarini, ma con pochi affondamenti all’attivo. Tuttavia, navi
in Libia ne arrivavano sempre (furono utilizzati anche i sottomarini)
e il flusso fu sufficiente a Rommel per resistere e stabilizzare il
fronte, dopo aver abbandonato la Cirenaica34.
Le
continue proteste e rampogne dei tedeschi nei nostri confronti, anche
se in parte giustificate, non devono tuttavia trarre in inganno, nel
senso di far credere (coniugandosi alle vanterie inglesi) che in
NordAfrica la Wehrmacht
non abbia ricevuto quasi niente. Secondo dati ufficiali del Comando
Supremo tedesco, aggiornati al 10 giugno del 1943, dal gennaio del
1941 al maggio del 1943 la Wehrmacht aveva impiegato in NordAfrica:
1855 carri armati e autoblindo; 4182 pezzi d’artiglieria e
semoventi; 3309 cannoni e mitragliere contraerei, con 323 riflettori,
109 aerofoni e 160 Funkmess (Flak – avvistamento – guida caccia);
47.052 automezzi; 8180 motomezzi; 375.000 tn di munizioni; 808.000
tn di benzina normale, avio e gasolio; 1.227.000 tn di generi
alimentari; 278.000 tn di materiale da costruzione35.
Ora,
di questi mezzi e materiali, oltre a circa 113.000 soldati, non era
stata soprattutto la Regia Marina a permettere il trasporto, anche se
con l’ausilio (prezioso ma quantitativamente ridotto) della Regia
Aeronautica e dell’aviazione tedesca? Certo, gli inglesi avevano
ancor più mezzi e uomini, provenienti dall’intero impero grazie al
dominio dei mari, e in più godevano degli aiuti americani, ancor
prima di Pearl Harbour: i poderosi aerei ricognitori americani, i
grandi bacini di carenaggio americani per rimettere in sesto le loro
navi quando duramente colpite dai tedeschi o da noi; i carri armati
americani, come il leggero Stuart,
già
in azione durante l’operazione Crusader,
o il poderoso Sherman,
uno dei protagonisti della battaglia di El Alamein. Ma di questa
supremazia materiale del nemico la Regia Marina non aveva nessuna
colpa, come non l’aveva dell’esistenza e dell’efficienza di
Ultra.
In
questo periodo ebbe luogo la distruzione notturna del convoglio
Duisburg,
nome di uno dei quattro mercantili tedeschi che ne facevano parte,
assieme a tre italiani, tutti e sette affondati assieme a due
cacciatorpediniere di scorta, dal rapido tiro al bersaglio della
forza K, sopraggiunta non vista, guidata dal radar, che le permetteva
di scegliere con calma la preda e di manovrare (sempe non vista) nel
modo migliore per colpirla. La sorpresa anche qui fu totale e la
reazione meno decisa di altre volte, per la confusione che si era
creata. Fu una pagina nera per la Regia Marina, perché i due
incrociatori pesanti di scorta indiretta al convoglio con i loro
quattro caccia, spararono sì sugli inglesi ma in grave ritardo, solo
quando questi avevano già cominciato il disimpegno, inizialmente
cercandoli a Nord del convoglio quando questi erano invece a Sud e a
Est dello stesso, facendone strage, e poi a Sud quando questi già
filavano via in direzione Nord36.
Questa batosta,
che “gettò quasi nel panico Roma e Berlino” (Giorgerini) perché
sembrava render impossibile il traffico giornaliero con la Libia, in
realtà non l’interruppe che per pochi giorni solamente. Il giorno
dopo il disastro, il 10 novembre, tre cacciatorpediniere italiani
trasportarono 800 soldati tedeschi e il 14 quattro mercantili moderni
armati trasportarono 1.217 uomini e 234 tn di materiali. Il 21
quattro piroscafi italiani arrivarono a Bengasi. Ma il 24 due
mercantili pieni di vitali rifornimenti, protetti da due
torpediniere, segnalati da Ultra, furono distrutti (di giorno,
l’unica volta) dalla Forza K, nonostante la coraggiosa difesa messa
in atto dalla Lupo,
una veterana di quelle battaglie37.
La
Royal
Navy sembrava
avviata a dominare le rotte del Mediterraneo centrale allorché una
serie di disastri si abbatté su di essa, in seguito all’arrivo dei
sottomarini tedeschi, facendola praticamente scomparire come forza
combattente dal Mediterraneo per diversi mesi. In conseguenza di
ciò, “nella primavera e nell’estate del 1942, gli italiani
trasferirono enormi quantitativi di materiali senza grossi intoppi”38.
Questi rinforzi permisero a Rommel di cacciare il nemico dalla
Cirenaica e conquistare Tobruk, nel giugno di quell’anno.
Il
periodo nero per gli inglesi era cominciato il 14 novembre quando un
sottomarino tedesco affondò la portaerei Ark
Royal
della Forza H (di base a Gibilterra). Il 25 dello stesso mese, un
altro sottomarino tedesco affondò la corazzata Barham
della
Mediterranean
Fleet.
Il 18 dicembre 1941, alle 18.30, la Forza K, di tre incrociatori
leggeri e quattro caccia, incappò al largo di Tripoli in un campo
minato appositamente e astutamente predisposto dagli italiani e cessò
di esistere: si trattava di banchi di mine a discreta e variabile
profondità, non facilmente individuabili. L’ incrociatore leggero
Neptune,
squarciato da più esplosioni, affondò e andò a fondo pure un
cacciatorpediniere, il Kandahar.
Gli altri due incrociatori furono seriamente danneggiati, assieme ad
un cacciatorpediniere, ma rientrarono con le loro forze. Del Neptune
si salvò un solo marinaio, raccolto dopo cinque giorni da una
torpediniera italiana, curato e mandato in prigionia in Italia, dalla
quale fu rimpatriato nel giugno del 1943. Morirono 837 marinai
britannici39.
Fu
un disastro inatteso e “per quasi un anno le navi di superficie non
minacciarono il traffico dell’Asse”40.
La stessa notte, i sommozzatori della X
Mas
minarono nel porto di Alessandria le residue due corazzate
britanniche: la Valiant
sarebbe
rientrata in squadra dopo sette mesi, la Queen
Elizabeth dopo
ben 18, riparata nei cantieri americani. Alla “tecnologia” e
alla consumata esperienza degli inglesi noi non rinunciavamo dunque a
replicare, anche se le nostre armi erano, nell’occasione,
soprattutto l’ingegnosità artigianale e l’audacia individuale
degli assaltatori.
6.
Non
siamo stati delle comparse buone solo ad arrendersi.
Concludo il mio intervento con considerazioni tratte dal capitolo
finale del libro del prof. Sadkovich, intitolato: Una
valutazione di perdite e danni – Vincitori e vinti41.
“Una
valutazione della prestazione della Regia Marina fra il giugno 1940 e
il settembre 1943 dipende dal criterio di giudizio che si impiega. È
certo che essa non vinse la guerra e che, alla fine, consegnò le
proprie navi agli Alleati a Malta; tuttavia, il fatto che i
britannici imposero la resa della flotta italiana quale condizione
imprescindibile per un armistizio, ne testimonia in modo eloquente
l’importanza. D’altronde, poiché gli italiani persero più navi
ad opera dei britannici di quante ne affondarono, verrebbe da pensare
che essi fossero intimiditi dalla Marina britannica, sentendosene
dominati, sin dall’inizio della guerra. Ma le unità mercantili e
navali italiane pagarono un tributo più pesante agli aerei, alle
mine e ai sommergibili che alla flotta britannica, la cui tanto
strombazzata superiorità morale rispetto agli italiani appare molto
esagerata, specie alla luce del successo della Regia Marina nella
protezione delle rotte dei convogli.
I
ritratti di una Marina italiana incapace sono serviti a mascherare
Ultra e a fornire una giustificazione del fallimento della Marina
britannica, che non riuscì ad annientare la flotta italiana, ad
acquisire il controllo del Mediterraneo, né ad interrompere le linee
di rifornimento africane dell’Asse prima del 1943. I successi
britannici, come l’incursione su Taranto e l’azione al largo di
capo Matapan, sono stati amplificati, laddove quelli dell’Asse –
le battaglie di Mezzo Giugno e di Mezzo Agosto – o sono state
ignorate oppure sono state attribuite ai tedeschi. Mentre la difesa
britannica di Malta è stata esaltata alla stregua di un’impresa
eroica, la capacità di cui diede prova l’Italia nel tenere aperte
le linee di rifornimento africane e quelle balcaniche non è tenuta
pressoché in alcun conto. Ma oggi, dopo lo smascheramento di Ultra,
non è più necessario appigliarsi ad argomenti speciosi per
occultarne la funzione; ed è anche giunto il momento di abbandonare
l’idea che la Regia Marina fosse paralizzata da un Comando
incompetente e minata da pecche caratteriali che avrebbero riguardato
l’intera nazione italiana, giacché è manifesto che la sconfitta
dell’Italia fu determinata dalla compromissione dei cifrari, dalla
mancanza di carburante e da un’inadeguata capacità industriale”42.
La
marina continuò a fare il suo dovere sino in fondo, anche dopo che
la poderosa aviazione alleata aveva conquistato l’assoluto
predominio nei cieli del Mediterraneo centrale. Basti ricordare che,
al momento dell’invasione della Sicilia (10 luglio 1943), gli
Alleati erano arrivati a schierare quasi cinquemila aerei contro i
circa novecento dell’Asse.
“Nonostante
il vertiginoso incremento delle perdite di naviglio mercantile negli
ultimi otto mesi di guerra [cioè dopo El Alamein e lo sbarco in
Marocco e Algeria degli americani], gli italiani – pur con la
prospettiva di una sconfitta certa – diedero prova di una
resistenza caparbia, così come, nei primi trentuno mesi della
guerra, dimostrarono una tenace determinazione nel disputare alla
flotta britannica il dominio del Mediterraneo. Furono di fatto le
mine, gli aerei e i sommergibili ad affondare la più parte delle
navi dell’Asse”43.
Nel
Mediterraneo, in tre anni e tre mesi di guerra, perdemmo contro la
Royal
Navy
: 1 corazzata (la Cavour,
silurata a Taranto), 11 incrociatori, 37 cacciatorpediniere, 39
torpediniere, 25 MAS/siluranti, 65 sottomarini, per un totale di 178
unità, che diventano 340 con l’aggiunta di 162 del naviglio minore
e ausiliario: dragamine, avvisi scorta, piroscafi armati etc. I
britannici persero 107 unità, escludendo il naviglio minore: 1
corazzata, 2 portaerei, 14 incrociatori, 48 cacciatorpediniere, 41
sottomarini. Di queste, la marina e l’aviazione italiane
affondarono: 6 incrociatori, 15 cacciatorpediniere, 21 sommergibili,
più un certo numero di unità minori. Ci furono poi significativi
danneggiamenti: in aggiunta alle due corazzate di Alessandria, alla
corazzata Nelson,
colpita da un nostro aerosilurante; all’incrociatore leggero
Liverpool,
silurato due volte e sottoposto a lunghi lavori prima nei cantieri
americani e poi in quelli scozzesi; a qualche altra unità. In
totale, la Regia Marina e la Regia Aeronautica affondarono
rispettivamente 58 e 29 ossia 87 navi militari inglesi e dei loro
alleati, oltre a 68 mercantili44.
Molti
dei successi contro di noi furono resi possibili, oltre che dal radar
in seconda battuta, da Ultra, che indubbiamente fu, come scrisse il
prof. Santoni, il
vero traditore.
“Senza Ultra, difficilmente i britannici avrebbero individuato
tutti i convogli dell’Asse che individuarono, ed è certo che
l’effetto dei loro attacchi sarebbe stato minore, in quanto non
avrebbero potuto colpire le navi da carico di importanza cruciale per
le forze dell’Asse in Africa [come le petroliere o quelle cariche
di munizioni]. Né, d’altro canto, i britannici avrebbero avuto
una misura dell’efficacia della loro prestazione contro l’Asse
[che ricavavano sempre dalle decrittazioni di Ultra]. Ciononostante,
la Marina italiana, per più di tre anni, fu in competizione per il
controllo del Mediterraneo, e in talune occasioni essa dominò
l’unico teatro nel quale i britannici avevano impegnato ogni loro
risorsa [sguarnendo la difesa dell’Estremo Oriente, con la
conseguente perdita di Singapore, cosa che non ci perdonarono]. Per
una giovane potenza navale, questo fu un successo; inoltre, l’elevata
percentuale di uomini e mezzi che gli italiani trasportarono in
Africa comprova che tanto le recriminazioni dei tedeschi che le
asserzioni di superiorità morale dei britannici erano prive di
fondamento”45.
In
ogni caso, conclude il Nostro, “l’Italia fu l’attore principale
dell’Asse nel Mediterraneo e furono la Marina e l’Areonautica
italiane – con il saltuario aiuto dell’alleato tedesco – a
bloccare la Ma rina e l’Areonautica britanniche per la maggior
parte dei 39 mesi della belligeranza italiana […] Tutte le marine
fecero errori e in tutte le marine esistevano catene burocratiche; ma
accusare di codardia Iachino perché non si inoltrò in una cortina
fumogena e in pari tempo elogiare la decisione di Cunningham di
eludere le cortine di nebbia italiane in quanto gesto suggerito dalla
prudenza, significa utilizzare un pernicioso duplice criterio di
valutazione […] Se si deve riconoscere il valore dei pochi convogli
che riuscirono a raggiungere Malta, tanto di più va riconosciuto ai
numerosi che tennero in vita lo sforzo bellico dell’Asse in Africa
sfidando ripetutamente gli attacchi di velivoli, sommergibili e unità
di superficie. Benché il destino della Marina italiana fosse
segnato dalla propria debolezza tecnica e da Ultra, essa combatté
nondimeno una guerra tenace e cavalleresca; e se la Marina non vinse
la sua guerra, essa scongiurò la sconfitta per trentanove lunghi e
frustranti mesi”46.
Paolo
Pasqualucci
mercoledì 19 aprile 2017
[Fonte:
iterpaolopasqualucci.blogspot.ie]
1
Sulla quasi scomparsa e comunque sulla decadenza dello spirito
militare in Occidente e in Italia, vedi: Carlo Jean, Strategia e
storia militare, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, VI,
1/2002, pp. 15-29, che si sofferma sulle carenze culturali
contribuenti al fenomeno, in primo luogo l’ignoranza della storia
militare (“in Italia essenzialmente amatoriale”), poco curata
anche nelle Accademie militari, da coniugarsi ad una scelta
ideologica più o meno obbligata, quella della “denazionalizzazione
in senso ecumenico, universalistico” della professione militare (e
a ben vedere di tutte le istituzioni). Ricordo che la Costituzione
della nostra Repubblica all’art. 11 ci probisce in pratica di fare
la guerra, anche solo per difenderci (in modo simile a quella
giapponese). Per una prospettiva più ampia: Bernard Wicht,
L’esprit militaire, dans un climat de transformation
postnationale et de vague de fond nihiliste, con la breve
eccellente premessa di Bernard Dumont, in ‘Catholica’, 2006, n.
92, pp. 22-35. L’Autore collega la crisi dello spirito militare
alle trasformazioni tutt’altro che ottimali provocate nel
“mestiere delle armi” dall’attuale crisi dello Stato nazionale
sovrano e dalla trasmutazione dei valori occorsa nelle nostre
società, dalla loro radicale Umwertung. Di questa
trasmutazione segno macroscopico è la “femminilizzazione”
radicale degli eserciti occidentali, cosa del tutto negativa per
l’addestramento e il morale, e che non favorisce di certo lo
spirito militare (vedi il noto saggio di Martin Van Creveld, Le
donne e la guerra. Ieri, oggi, domani, tr. it. di R. Macuz
Varrocchi, Libreria Editrice Goriziana, 2007).
2
“Qui [in Italia] è virtù grande nelle membra, quando non la
mancassi ne’capi. Specchiatevi ne’duelli e ne’congressi
[combattimenti] de’ pochi, quanto li Italiani sieno superiori con
le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli
eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza de’
capi; perché quelli che sanno non sono obbediti, et a ciascuno pare
di sapere, non ci sendo fino a qui alcuno che si sia saputo rilevare
[imporre], e per virtù e per fortuna, che li altri cedino…”(N.
Machiavelli, Il Principe, introduz. e note di F. Chabod.
Nuova ediz. con aggiornamenti bibliogr. a cura di L. Firpo, Einaudi,
Torino, 1972, p. 127 (cap. XXVI). Forse non c’era tutta questa
“virtù grande nelle membra”, tuttavia il celebre rilievo di
Machiavelli non appare privo di fondamento: la nostra disgraziata
storia frammentata e particolaristica, dalle Guerre Gotiche in poi,
ha impedito il formarsi di classi dirigenti capaci di pensare in
grande, per così dire, nonostante le notevoli qualità che pur
hanno dimostrato di avere, in certi periodi. Penso per esempio a
Genova e Venezia: nel Medio Evo avevano le migliori flotte da guerra
del Mediterraneo, e avrebbero potuto dominarlo completamente se,
invece di combattersi sempre ciecamente, si fossero messe d’accordo,
spartendosi le zone di influenza commerciale e mettendo in piedi
un’alleanza navale stabile.
3
A questo proposito si cita sempre la testimonianza di Piero
Calamandrei, insigne giurista e antifascista intransigente dopo il
25 luglio, il quale scrisse nel suo diario, il 10 settembre:
“rimango sorpreso di sentire come è potente anche nella gente
umile la vergogna dell’armistizio” (Elena Aga Rossi, Una
nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le
sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 2003, nuova ediz. ampliata,
p. 135). Per il vasto sentimento popolare di condanna del Diktat
che era in realtà il Trattato di Pace, vedi: Sara Lorenzini,
L’Italia e il trattato di pace del 1947, il Mulino,
Bologna, 2007, cap. III: L’opinione pubblica e lo shock del
trattato di pace, pp. 99-129.
4
James J. Sadkovich, La Marina italiana nella seconda guerra
mondiale, Universale Economica Feltrinelli/Storia, Milano, 2014,
pp. 536, tr. it. di Mauro Pascolat, revisione di Augusto de Toro.
Per la prima edizione italiana: ID., La Marina italiana nella
seconda guerra mondiale, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia,
2006, pp. 536, traduz. e revis. dei medesimi. Per l’originale:
James J. Sadkovich, The Italian Navy in World War II,
Greenwood Press, Westport, 1994. Mi sono servito dell’edizione
goriziana.
5
Hitler era stato molto sleale con l’Italia. Il c.d. “Patto
d’acciaio” stipulato il 22 maggio 1939 era un’alleanza
difensiva, che prevedeva l’entrata in guerra automatica di
uno dei due contraenti se l’altro fosse stato aggredito. Nel
protocollo segreto del patto, gli italiani avevano detto chiaramente
che non sarebbero stati pronti prima del 1943 ad una eventuale
guerra in Europa: le loro forze armate abbisognavano di un’ampia
riorganizzazione. Hitler a sorpresa il 22 agosto firmò un patto di
non-aggressione con l’Unione Sovietica e dieci giorni dopo attaccò
la Polonia, dopo aver simulato di esser stato aggredito dai
polacchi. I tedeschi pretendevano che l’Italia entrasse in guerra
immediatamente al loro fianco. Fece bene Mussolini a chiamarsi fuori
e magari avesse continuato, qualsiasi cosa avesse fatto Hitler. Ma
sapevano, i tedeschi, che l’Italia non era pronta e che la sua
struttura industriale era troppo debole, per sostenere una guerra
europea. Perché allora si lamentavano di continuo
dell’arretratezza industriale e militare del nostro Paese, impari
ad uno sforzo bellico di quella portata? Chi l’aveva provocata,
la guerra?
6
Con l’eccezione di qualche isolato giudizio più
obiettivo. Un riconoscimento del valore e dello spirito di
sacrificio dei nostri equipaggi, ben consapevoli di esser costretti
a battersi in condizioni di costante e crescente inferiorità
materiale, si trova nell’opera del comandante spagnolo Luis de la
Sierra, La guerra navale nel
Mediterraneo (1940-1943), 1976,
Mursia, Milano, 1987, tr. it. di Alfredo Brauzzi, p. 126, p. 431.
Nella Prefazione,
il prof. Sadkovich, appassionato da sempre di storia militare,
rivela tutto il fastidio che ad un certo punto gli procurava la
rappresentazione manichea del nemico, in particolare degli italiani,
per di più dileggiati in modo impressionante, anche da storici
autorevoli come l’americano Samuel E. Morison, che definì la
Regia Marina addirittura una “Dago Navy”, la “Marina degli
accoltellatori” cioè dei mafiosi, per gli inglesi solo oggetto di
riso (Dago,
termine spregiativo per persona di origine italiana, da Dagger,
pugnale e quindi coltello,
serramanico).
Questa l’immagine (tuttora) prevalente: “Gli untuosi
‘spaghetti’, alla mercé di Mussolini, quel buffone
magniloquente, campione del bluff e della rodomontata, non facevano
che qualche sporadica comparsa [nelle autorevoli storie della II
g.m.], quando gettavano le armi e si lasciavano docilmente condurre
in un campo di prigionia, oppure quando si facevano affondare le
navi da marinai britannici superiori e si facevano abbattere gli
aerei da piloti britannici superiori”(op. cit., pp. 17-18). Gli
storici autorevoli in questione tra l’altro ignorano in genere la
nostra lingua e documentazione, ben possedute invece dal prof.
Sadkovic, come si evince dalla bibliografia e dall’uso che ne fa.
7
Sadkovich, op. cit., pp. 108-113; pp. 237-248; passim.
8
Op. cit., pp. 245-246. Le corazzate e le portaerei tornavano alla
base (a Gibilterra) all’imbocco del Canale di Sicilia, con la loro
scorta mentre il convoglio proseguiva con quella sua propria,
entrando il più velocemente possibile sotto l’ombrello protettivo
della RAF dislocata a Malta.
9
Op. cit., pp. 248-249.
10
Op. cit., p. 249.
11
Sadkovich, op. cit., Prefazione, pp. 22-23. Corsivi miei.
12
Anche nei primi mesi del 1943, sulla “rotta della morte” con la
Tunisia, dominata in modo implacabile dall’aviazione
angloamericana, “nonostante la grave inferiorità materiale, i
mesi di frustrazione e l’inevitabilità della sconfitta, agli
equipaggi italiani non venne meno lo spirito combattivo”(Sadkovich,
op. cit., p. 465 ss., con la descrizione di alcuni combattimenti di
torpediniere e siluranti italiani di quel periodo). Durante tutta la
guerra, numerose furono le volte nelle quali il naviglio sottile
italiano si lanciò all’attacco contro forze nemiche anche di
molto superiori per proteggere un convoglio o un porto attaccati.
Molto rari furono gli episodi di panico tra gli equipaggi dei
mercantili silurati (in genere di notte) mentre andavano a fondo
(Sadkovich, op. cit, p. 370).
13
Faccio un esempio: la loro ricognizione aerea
era dotata di velivoli più potenti (come l’idrovolante
Sunderland)
e meglio organizzata della nostra. Infatti, avevano sviluppato in
tempo di pace quella proficua collaborazione aeronavale tra
aviazione e marina che noi non eravamo riusciti a mettere in piedi
allo stesso modo. E questa è la migliore
organizzazione. La differenza divenne
incolmabile quando gli americani cominciarono (abbastanza presto) a
fornirgli i famosi Maryland Catalina,
poderosi idrovolanti a lunga autonomia, praticamente insuperabili in
quel compito. Il prof. Sadkovich, tuttavia, documenta che la
ricognizione aerea veniva usata anche per “coprire” il fatto che
un convoglio o una determinata nave erano già stati segnalati da
Ultra.
14
Sadkovich, op. cit., pp. 303-304.
15
Vince O’Hara, Azioni notturne di superficie, nel blog:
www.regiamarina.net,
2017, di pp. 4. Il concetto è che agli italiani non mancò il
coraggio bensì un addestramento e una tattica adeguati. Circa la
famosa dispersione delle salve delle nostre artiglierie navali,
imputata alle deficienze della nostra industria, il prof. Santoni ha
dimostrato che l’industria non c’entra. La colpa era della
dottrina d’impiego: per realizzare il massimo di sicurezza, si
volevano artiglierie che consentissero di sparare mantenendosi
sempre a una grande distanza, ragion per cui i cannoni nostri erano
più lunghi del solito, cosa che provocava vibrazioni eccessive nel
proiettile in partenza, le quali erano all’origine della
dispersione finale della salva, dovuta anche al fatto che le cariche
troppo potenti, richieste da tale tipo di impiego, logoravano prima
del previsto l’anima del cannone. Diverse volte unità inglesi,
centrate dalle nostre salve, ne uscirono inaspettatamente indenni
(Alberto Santoni, Da Lissa alle Falkland. Storia e politica
navale dell’età contemporanea, Mursia, Milano, 1987, pp.
166-167). E che dire del fatto che non c’erano comunicazioni
radio dirette tra navi ed aerei, per cui “le segnalazione degli
aerei dovevano passare attraverso vari livelli di comando prima di
raggiungere il comandante in mare, pregiudicando notevolmente la
tempestività delle decisioni” (Giorgio Giorgerini, La guerra
italiana sul mare. La marina tra vittoria e sconfitta. 1940-1943,
Mondadori, Milano, 2001, p. 318). Solo dopo due anni di guerra
cominciarono a realizzarsi queste comunicazioni radio dirette. Ma
dobbiamo credere che la nostra industria non sarebbe stata capace di
produrre le necessarie apparecchiature radio prima della guerra?
16
Alberto Santoni, Il
vero traditore. Il ruodo documentato di ULTRA nella guerra del
Mediterraneo, Mursia, Milano, 1981,
pp. 378. Il libro porta numerose fotocopie in appendice che
mostrano i messaggi di Ultra “most secret” indirizzati ai
comandi, con le decrittazioni in chiaro concernenti i dati dei
nostri convogli mediterranei. Ma Ultra informava anche sui
numerosi piccoli convogli lungo la costa libica, su navi isolate,
navi in porto, per esempio a Tripoli o a Bengasi (che venivano così
attaccate dall’aria).
17
Op. cit., vedi i primi due capitoli: Gli
speciali sistemi informativi e L’ULTRA
entra nel Mediterraneo, pp. 9-105. I
codici italiani si basavano sul sistema crittografico tedesco
ENIGMA, che i tedeschi ritenevano impossibile a penetrarsi,
sbagliandosi grandemente. Gli italiani sembra fossero scettici in
proposito ma non potevano rifiutarlo per non irritare il prepotente
Alleato. Una timidezza pagata cara. Gli inglesi possedevano il
meglio della tecnologia nel settore delle decrittazioni, un enorme
calcolatore elettromeccanico, chiamato in gergo Colossus,
precursore dei posteriori cervelli elettronici (op. cit., ivi).
18
Santoni, op. cit., pp. 71-88. Le navi italiane
furono scorte dagli inglesi con i loro binocoli notturni, però dopo
esser state già localizzate dai loro radar, circostanza taciuta
dall’ammiraglio Cunningham nelle sue memorie (cfr. Luis de la
Sierra, op. cit., pp. 225-228).
19
Santoni, op. cit., pp. 48-49.
20
Su questa vicenda, provocata, pare, da una rete spionistica che
faceva capo alla Resistenza francese e sulla controversa figura
dell’ammiraglio Franco Maugeri, capo del Servizio Informazioni
della Regia Marina dal 21 maggio 1941 all’8 settembre 1943, attivo
nelle trattative segrete che portarono poi alla consegna
armistiziale della flotta a Malta, per le quali fu anche decorato
dagli americani, consegna voluta soprattutto (si è sempre detto)
dagli inglesi; nel dopoguerra oggetto, il Maugeri, di violenti
attacchi da parte della pubblicistica di destra a causa di un suo
incauto libro di memorie, poi subito ritirato, vedi: Carlo de Risio,
I (troppi) misteri della guerra navale. Spionaggio, tradimenti e
le perdite della flotta italiana, in : ‘Nuova Storia
Contemporanea’, 6/2011, pp. 145-152). Vedi anche: Santoni, Da
Lissa alle Falklands, cit., pp. 194-205, sulle manovre
sotterranee e più o meno personali di esponenti italiani di alto
livello per una “resa anticipata e un accordo navale con gli
inglesi”. A proposito di spionaggio a favore del nemico, per
obiettività va ricordato che: l’ammiraglio Canaris, capo del
controspionaggio tedesco, fu impiccato dai nazisti perché scoperto
essere al servizio degli inglesi; che l’organizzazione “Orchestra
Rossa”, collegata ad elementi del quartier generale tedesco, fornì
preziose informazioni a Stalin, facendo fallire l’ultima poderosa
offensiva tedesca, nell’estate del ’43; che un generale tedesco
prigioniero spiegò spontaneamente agli americani il sistema
difensivo sul Reno, nel 1945; che i gruppetti di agenti sabotatori
inviati dalla R.S.I. al Sud furono quasi tutti catturati subito (e
molti di loro subito fucilati) perché gli americani erano già
perfettamente informati sul loro arrivo da una fonte situata nel
cuore del controspionaggio tedesco a Berlino (Giuseppe Parlato,
Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia,
1943-1945, il Mulino, 2006, pp. 73-74); che la preziosa conferma
della rinuncia definitiva del temuto assalto italo-tedesco a Malta,
gli inglesi l’ebbero “da una fonte vicina al Comando
germanico”(Sadkovich, op. cit., p. 327).
21
Alberto Leoni, Il paradiso devastato. Storia militare della
Campagna d’Italia 1943-1945, il paragrafo: La strana resa
di Pantelleria, pp. 51-53.
22
Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano
del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna,
20032, p. 40. Nell’estate del ’42 le cose stavano
andando ancora bene per l’Asse, ma dal dicembre del ’41 erano
entrati in guerra gli Stati Uniti. Sul punto, vedi: Yves Durand, Il
nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca
(1938-1945), 1990, tr. it. di Alessandro Romanello, il Mulino,
Bologna, 2002, pp. 192-211. I finlandesi, ad esempio, ebbero un
primo contatto segreto con i russi all’inizio del 1942 a
Stoccolma, il 4 settembre 1944 fecero l’armistizio con l’URSS e
il 15 dichiararono guerra alla Germania, attaccando le truppe
tedesche. Il 9 settembre 1943 ungheresi e inglesi firmarono un
accordo segreto a Istanbul, rimasto senza effetto, come il
posteriore armistizio ottenuto dal reggente Horthy con i russi nel
1944, a causa della reazione tedesca. La Romania, con poche truppe
tedesche in casa, defezionò il 23 agosto 1944 ed ottenne
l’armistizio il 12 settembre successivo, dichiarando poi guerra
alla Germania (anche se, alla fine, venne considerata “nemico
cobelligerante” e non alleato, esattamente come accadde
all’Italia). Del resto, si è saputo solo diversi anni fa che,
dopo la pur vittoriosa Battaglia di Stalingrado, Stalin, spaventato
dalle enormi perdite subite, aveva fatto intraprendere contatti
segreti con i tedeschi per una possibile pace separata, finiti nel
nulla per l’intransigenza di Hitler.
23
Sulle precise responsabilità per il disastro di
Matapan, che non possono esser cancellate dalla pre-cognizione
dell’avversario grazie ad Ultra o dal suo possesso del radar e
delle portaerei, vedi: Giorgio Giorgerini, op. cit., cap. IX:
L’assurda notte di Matapan,
pp. 270-322. Le tre corazzate inglesi presenti e non viste aprirono
di colpo il fuoco, con i loro cannoni da 381 mm., dalla distanza di
appena 3500 metri circa, trasformando rapidamente in torce due
nostri incrociatori e due dei quattro nostri caccia, uno dei quali
fece a tempo a sparare qualche colpo e a lanciare qualche siluro,
senza esito, mentre l’altro tentò inutilmente di far fumo. Gli
altri due riuscirono a sganciarsi. Poco dopo gli inglesi scoprirono
fermo e al buio il Pola,
che fu fatto evacuare e affondato col siluro. La notevole vittoria
di Capo Matapan non fu del tutto indolore per i britannici: sulla
via del ritorno dall’impresa, l’incrociatore leggero Bonaventure
fu silurato e affondato dal sommergibile Ambra,
comandato dal tenente di vascello Mario Arillo, uno dei nostri più
audaci capitani. Il disastro di Matapan non incise sulla guerra dei
convogli ma fu sicuramente uno shock per i nostri comandi, che
divennero ancor più cauti per ciò che riguarda l’impiego della
flotta da combattimento (corazzate e incrociatori pesanti). La
cautela sembrò ad un certo punto eccessiva e provocò anche
malumori e proteste da parte degli equipaggi.
24
A titolo esemplificativo, vedi: Richard Hough, The Longest
Battle. The War at Sea 1939-1945 (1986), Cassell Military
Paperbacks, 2003, cap. 10: The Long Struggle for the Midland
Sea, pp. 204-236. Egli menziona Ultra, senza analizzarne
l’influenza sulle vicende mediterranee, pur avendo l’onestà di
ammettere che “la recente pubblicazione (1979-1984) della storia
ufficiale della British Intelligence in the Second World War,
del prof. F. H. Hinsley, ha rivelato per la prima volta l’immenso
contributo apportato al risultato della II g. m. dai decifratori dei
codici nemici, cosa che richiede una nuova valutazione sia delle
campagne che delle singole battaglie” (op. cit., p. 50).
25
Luis de La Sierra, La guerra navale nel Mediterraneo, cit.,
p. 281.
26
Sadkovich, op. cit., pp. 136-138, per i dettagli. “Gli italiani,
che non abboccarono, non possono esser biasimati per aver adottato
la stessa strategia di Cunningham, che cercò di non abboccare
all’esca degli italiani [si trattava di attirare la flotta da
battaglia nemica in qualche trappola, usando un convoglio come
esca]. Così, se Cavagnari [temporaneo Comandante in Capo della
Regia Marina] non riuscì a cacciare i britannici dal Mediterraneo,
Cunningham non riuscì a cacciare gli italiani dal mare – cosa
che, secondo Churchill, egli avrebbe dovuto fare per salvaguardare
[disse] ‘la reputazione della Royal Navy’” (op. cit.,
p. 138). Inoltre, “in giugno [del 1941] Churchill era furente per
le scialbe prestazioni della sua Marina, che nel corso del primo
anno di guerra aveva affondato appena 12 dei 334 mercantili
impiegati dagli italiani. Laddove, nelle sue memorie, Cunningham
cerca di imputare la causa di tale scarso rendimento alla mancanza
di ricognizione aerea, egli non fa che fornire un quadro distorto
della realtà: se sul finire dell’anno l’impegno dei britannici
contro il traffico marittimo dell’Asse diede esiti migliori, ciò
fu da ascrivere all’incremento dell’attività di intelligence di
Ultra dopo il giugno 1941, non certo a una maggiore efficacia della
ricognizione aerea”(p. 209). Gli italiani si accorsero ad un
certo punto che gli inglesi conoscevano anche i nomi della navi da
attaccare e sospettavano di spionaggio i pescherecci dei pescatori
arabi locali mentre i tedeschi sospettavano gli italiani stessi,
sbagliandosi entrambi clamorosamente (op. cit., ivi).
27
Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico. La marina
militare italiana dal Fascismo alla Repubblica, 1989, ristampa
Oscar Mondadori, 2003, p. 78. Il libro dell’autorevole storico
navale contiene una vasta ed accurata analisi delle scelte e delle
non-scelte della Regia Marina e della sua preparazione alla II g.m.,
dal cap. II al cap. IV, pp. 82-466.
28
Sadkovich, op. cit., p. 157.
29
Giorgerini, La guerra italiana sul mare, cit., pp. 436-439, e
in particolare p. 438. In questo suo fondamentale studio,
successivo all’opera del prof. Sadkovich, abbiamo un’indagine
complessiva molto precisa della “guerra dei convogli”, suddivisa
dall’Autore in cinque periodi per quanto riguarda i convogli
libici (giugno 1940-22 gennaio 1943, caduta di Tripoli), seguiti dal
sesto, quello più drammatico, della “rotta della morte” per la
Tunisia (11 novembre 1942, primo convoglio per Biserta-13 maggio
1943, resa dell’armata italiana): op. cit.: capp. XIII-XXI, pp.
417-562. I dati dei convogli li ho tratti da questo libro oltre che
dall’opera del prof. Sadkovich.
30
Giorgerini, La guerra italiana sul mare, p. 464.
31
Op. cit., p. 466.
32
Sadkovich, op. cit., p. 301.
33
Giorgerini, op. cit., p. 480.
34
Per esempio, l’1 dicembre 1941 giunsero a Bengasi la motonave
Veliero, con la sola protezione del cacciatorpediniere Da
Verrazzano, dopo esser sopravvissuti ad un attacco aereo e aver
eluso la Forza K, scaricando 14 carri armati M 13/40, 190
autoveicoli, 591 tonnellate di munizioni, 1.968 tn di materiali
vari, “un apporto cruciale per le forze dell’Asse durante le
battaglie di Crusader”(Sadkovich, op. cit., p. 301; pp.
290 ss. per ulteriori dettagli sugli arrivi in Africa nel periodo
considerato). Per i rifornimenti un grosso problema era
rappresentato dalle scarse capacità dei porti libici, che
abbisognavano di estesi lavori di ampliamento, potuti fare dagli
italiani solo in parte, tant’è vero che a volte le navi
ripartivano senza aver scaricato tutto. Anche per questo era
necessario occupare Malta od ottenere dai francesi di Vichy l’uso
della grande base di Biserta, dalla quale far proseguire il
materiale in treno per la Libia. Ma, nonostante le ripetute
richieste dei comandi italiani, Hitler non volle mai premere in
questo senso sui riluttanti francesi. La cosa è sottolineata più
volte dal prof. Sadkovich, a riprova della cecità di Hitler,
costretto poi ad occupare (inutilmente) tutta la Tunisia, mandandovi
notevoli forze tedesche, dopo la sconfitta di El Alamein e lo sbarco
americano in Algeria.
35
Carlo De Risio, Le tre guerre del Mediterraneo. Verità e
leggenda sul secondo conflitto mondiale, in ‘Nuova Storia
Contemporanea’, n. 3/2010, pp. 115-122; p. 121.
36
Su questa famosa sconfitta, citata più di quella del convoglio
Tarigo quale simbolo del supposto continuo predominio inglese
nel Mediterraneo, vedi: Santoni, Il vero traditore, cit., pp.
116-120; Giorgerini, La guerra italiana sul mare, cit., pp.
483-489; Sadkovich, op. cit., p. 292-294. Secondo Santoni, il
convoglio non fu segnalato da Ultra ma scorto dal consueto
ricognitore Maryland. Secondo il prof. Sadkovich fu invece
segnalato e il ricognitore servì da copertura. Quando la Forza K
cominciò a sparare, gli incrociatori pesanti italiani si trovavano
dall’altra parte del convoglio a quasi venti km di distanza dalle
navi nemiche. Resta però il fatto che il tempo impiegato dagli
incrociatori per mettersi in grado di aprire a loro volta il fuoco
fu troppo lungo, la loro azione risultò impacciata. Nei loro
resoconti la marina tedesca e quella britannica criticarono
aspramente (e non a torto) la nostra Marina. La commissione
d’inchiesta stabilita ad hoc scagionò tuttavia il comandante
della divisione di incrociatori da ogni addebito. A mio modesto
avviso, la causa del disastro era sempre la stessa: il mancato
addestramento al combattimento notturno, una carenza a ben vedere
inconcepibile.
37
Sadkovich, op. cit., pp. 297-299.
38
Op. cit., p. 369.
39
Li ricorda nome per nome ancor oggi una The Neptune Association;
vedi: www.hmsneptune.com/history.
Il fortunato superstite fu il marinaio scelto Norman Walton.
40
Sadkovich, op. cit., p. 315.
41
Op. cit., pp. 481-506. Il testo riporta parecchie tabelle di dati e
cifre.
42
Op. cit., pp. 481-482. Le battaglie di Mezzo Giugno e Mezzo Agosto
1942 videro la pesante decimazione di due grandi convogli
organizzati dagli inglesi per rifornire Malta, ad opera della marina
e dell’aviazione dell’Asse, protagoniste di reiterati attacchi
combinati. Nella seconda battaglia, apparve per la prima volta un
radar su una nave italiana: sul cacciatorpediniere Legionario,
della scorta alla corazzata Littorio. A partire da giugno,
Malta aveva ricominciato a pungere con i sottomarini, sia pure non
come prima, mentre erano entrati in azione gli aerosiluranti inglesi
a lunga autonomia, basati in Marmarica (Cirenaica-Egitto). Si è
sempre sostenuto che l’operazione Pedestal, dell’agosto
‘42, nonostante le gravi perdite, riuscì a far arrivare a Malta
rifornimenti decisivi per la sua sopravvivenza e utili anche a
rinnovarne l’azione di disturbo. In realtà, secondo l’Autore,
la sopravvivenza di Malta fu garantita dalle 35.000 tn di materiali
che in novembre, dopo El Alamein, giunsero da Alessandria e dalle
175.000 che essa ricevette tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943,
quando la guerra aveva subito la svolta decisiva (op. cit., pp.
429-430).
43
Op. cit., p. 490.
44
Per i dati citati: Sadkovich, op. cit., pp. 482-483. Vedi anche:
Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico, cit., p. 499. I
tedeschi fecero molto meglio di noi: rispettivamente 203 e 294 navi
(secondo le analisi di Santoni e Mattesini). I dati in questa
materia variano sempre, secondo le fonti. La Royal Navy perdette
in totale nel Mediterraneo 238 navi da guerra di tutti i tipi
(secondo i dati del prof. Sadkovich).
45
Op. cit., p. 498. Successo, nonostante la spina nel fianco
rappresentata da Malta, sulla quale l’Autore fa queste
considerazioni finali: “Nel 1942 l’isola impegnava una flotta
aerea germanica e cinque stormi italiani; nel corso del conflitto,
Malta costò un migliaio di velivoli ai due contendenti. Se quello
stesso anno, i tedeschi non avessero impedito l’invasione
dell’isola [autorizzando invece Rommel a lanciarsi
sconsideratamente sulla via di Alessandria], gli italiani avrebbero
potuto tenere in vita molto più a lungo le loro linee di
rifornimento da e per l’Africa, e probabilmente gli Alleati non
sarebbero riusciti, un anno più tardi, a invadere la Sicilia”
(op. cit., p. 499).
46
Op. cit., pp. 503-504.
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