L'8 e 9 luglio u.s. si sono celebrati gli
Stati generali delle Edizioni Tabula fati
e Solfanelli, in quel di Chieti.
Sarei stato lieto di partecipare
all'interessante convegno, dove alcuni esperti hanno tenuto lezioni sull'arte
di presentare i propri lavori ai consulenti editoriali, sull'arte di scrivere e
sull'arte di presentare in pubblico le fatiche partorite. Purtroppo ragioni di
età, di distanza e di clima mi hanno relegato nella mia città.
Ho visto i programmi degli interventi, senza,
almeno per ora, aver potuto leggere i testi delle conferenze. Ciò mi ha
tuttavia suggerito delle considerazioni di scrittore, artista fra i molti, e di
oscuro critico letterario.
A occhio e croce, credo che il complesso
dell'insegnamento fosse inteso a migliorare le capacità narrative e espositive
dei partecipanti, autori delle Edizioni
Tabula fati e Solfanelli. Cosa di
per sé encomiabile. Encomiabile anche la modestia degli stessi invitati,
d'altronde al corrente degli argomenti da trattare. Ma, a meno che abbia preso
abbaglio, non mi sembra peregrino mettere in rilievo che la ricerca del
gradimento da parte d'una vasta gamma di lettori conduca fuori strada.
Il mondo di chi vuol raccontare o licenziare
un saggio non dovrebbe piegarsi all'esigenza di piacere a questo e a quello.
Così facendo egli finisce per tradire se stesso, cade dell'insincerità, la
quale è un grave peccato dello scrivere. Quel mondo poi, sta già nel
linguaggio, nell'espressione. Lo scritto non fallace bisogna anzitutto che abbia
un contenuto veridico e che sia sincero. Vincolati a questo assunto sono quelli
che onestamente acquistano il libro e lo apprezzano. Semmai, chi concepisce il
libro può mirare a convincere coloro i quali pensano diversamente.
Gli accorgimenti stilistici, la costruzione
del lavoro, il dosaggio degli argomenti e degli avvenimenti, il vocabolario variato
e appropriato, lo scampo alle assonanze, l'arte delle ripetizioni, la
scorrevolezza, il ritmo quasi musicale, i dialoghi sapienti senza parere, l'intelligente
suggerimento, i scelti punti di vista, il distacco misurato, la grammatica, la sintassi,
eccetera, sebbene indispensabili, vengono dopo.
I casi da addurre sono tanti e molteplici.
Quante eccellenti prove di abilità descrittiva non reggono alla logica e al
buonsenso. Il fatto che esse catturino critici e incantino masse di
appassionati non le salva affatto dalla disonestà. Gli amanti delle falsità non
si contano. I patiti di Voltaire o del pluralismo o di Benigni, sono i
lusingati da protagonisti e personaggi che, ben
dipinti e ben rivestiti, incarnano i loro propri vizi, quasi convertiti
in virtù. L'apparenza estetica...
Se qualcuno mi accusa di moralismo, porto
pazienza. La verità esiste, è una. I giochi di artificio sono altra cosa.
Per converso, si assiste al triste fenomeno
dei critici che disdegnano o trascurano rari esempi di belle lettere, di
scrittura magistrale, i quali godettero di un favore popolare, classificati
nella letteratura rosa o per educande, quando il loro solo difetto consistette
in un certo romanticismo, tuttavia contenuto nella possibile realtà. Se signore
e signorine di vario genere furono sedotte da quel romanticismo, non fu certo
un male.
Mi riferisco, ad esempio, a Liala e a Milli
Dandolo (vedi il suo romanzo storico di 1.000 pag. Croce e delizia). Da quelle gentildonne, nondimeno attualmente,
molti che faticano sulla penna avrebbero molto da apprendere.
Quanto alle tecniche consigliabili al
presentatore dell'edizione contenente le proprie sudate carte, davanti a un
pubblico d'occasione, consento sulla loro utilità. Ciononostante, resta ardua
la metamorfosi di un timido in un oratore disinvolto. E certi suggerimenti li
trovo piuttosto adatti per il venditore. Costui, del resto, si destreggia e va
sul liscio nel procurarsi la sala, i relatori e gli astanti.
Piero
Nicola
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