mercoledì 16 luglio 2014

"Il tempo della svastica". Luciano e Simonetta Garibaldi narrano l'invertita sapienza del male

Narrate con i toni del giallo metafisico o sviluppate secondo i criteri dell'intrattenimento psichiatrico, le orribili  storie della politica criminale, insieme con i brividi, suscitano nel lettore la convinzione che la radice dell'eversione sanguinaria sia una grave e conclamata psicopatologia.
 La convinzione che Hitler, e nella sua risma Robespierre, Stalin, Pol-Pot e Mao furono malati di mente e non geniali/criminosi costruttori di patiboli applauditi da moltitudini fanatizzate, confondono e avviano le difese immunitarie delle società civili al combattimento contro marginalità furenti/deliranti, radunate di gruppuscoli privi degli strumenti indispensabili al qualunque progetto inteso alla conquista del consenso.
 Ora il delirio politicante va individuato, circoscritto e segregato, non confuso con la politica realisticamente ed efficacemente indirizzata al grande male.
 La perversione politica, purtroppo, non può essere associata facilisticamente alla figura dell'indemoniato, che la misericordia dei parenti e degli amici trascina dall'esorcista né a quella dello psicopatico chiuso nella camicia di forza.
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi "Il tempo della svastica" (edizioni Agostini Wihte star, Novara 2014) è un prezioso contributo e un opportuno invito alla riflessione sulla natura fascinosa  (superstiziosa, secondo coloro che riflettono sull'etimo delle parole) e a suo modo intrigante della perversione politica.
 Nella introduzione, Luciano Garibaldi dichiara, infatti, l'intento di evitare la caduta nei due trabocchetti  della storiografia fantastica, l'esegesi psichiatrica del male storico e il revisionismo: "Abbiamo cercato di seguire fin dall'inizio la strada dell'obiettività, non omettendo nulla in ordine alla criminalità del Terzo Reich e del suo führer , a partire dall'infamia della persecuzione antiebraica, ma al tempo stesso, collocando la vita privata più intima del protagonista nei limiti del verosimile, senza cedere in facili demonizzazioni come quella relativa a una sua presunta omosessualità".
 Il problema dell'origine della violenza di massa non si risolve ricorrendo alla psichiatria dilettante o ai pettegolezzi sulla demenza del capobanda.
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi, ad esempio, ricorda il giudizio negativo degli insegnanti di Hitler, da alcuni storici esibito come prova della alienazione del führer, ma rammenta che Hitler non aveva torto quando nel Mein Kampf definiva squilibrati i suo professori, che infatti finirono la loro vita in un manicomio.
 Guidati dalla convinzione  non ha senso attribuire alla demenza il successo di una politica visionaria e feroce, gli autori ricostruiscono la disgraziata carriera di Hitler escludendo le interpretazioni gialle e/o pseudomistiche. Ridisegnano pertanto la figura di Hitler e ricostruiscono le fasi della sua formazione e il contributo che ad essa fu conferito da personalità di alto profilo e collocano tale prodotto al centro di una folla tedesca arroventata dalle privazioni imposte dai vincitori della Grande Guerra e spaventata dalla minaccia costituita dai rivoluzionari comunisti.
 Nello scenario, fedelmente ricostruito dagli autori, la violenza esercitata con inaudita ferocia dai seguaci di Hitler si rivela criminosa ma non demenziale. E' peraltro noto che cause del successo nazista furono la cecità della vendetta francese e il fanatismo del fronte rosso tedesco.
 Gli autori dimostrano altresì che l'ideologia hitleriana era espressione di una fisima (anche in questo caso l'etimologia aiuta il lettore della storia, ricordano la stretta parentela di fisima e sofisma) e non di una cieca follia.
 La fonte del pensiero hitleriano era infatti la capovolta teologia gnostica, che nel primo dopo guerra era oggetto di studi talora appassionati e coinvolgenti di studiosi tedeschi. L'antisemitismo risuonava nelle oscure profondità di una cultura germanica avvelenata dalla lunga carriera compiuta dalla capovolta teologia da Lutero a Hegel fino ai tardi romantici a Nietzsche e a Heidegger.
 Abbassare il grande malvagio alla statura del demagogo  incolto e improvvisato, oltre a indirizzare la lotta politica alla repressione dei margini desolati e sparuti impedisce la corretta lettura delle catastrofi storiche e l'elevazione di argini sicuri alle catastrofi incombenti.
 Si pensi alla debolezza delle difese sociali contro il nichilismo predicato (e seminato nei cuori dell'Occidente liberale) dai nemici di Hitler che confessavano (pensiamo agli apostati Walter Benjamin, Ernst Bloch, Jacob Taubes, Herbert Marcuse, Hans Jonas) la medesima avversione nutrita dai nazisti nei confronti del Creatore. Oppure alle tesi ecumeniche di Sigmund Freud intorno alla religione biblica quale complotto egiziano contro il presunto politeismo degli ebrei. 
 Il saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi ricostruisce sapientemente la personalità di Hitler e indica la via per posizionarla nel cuore di una Germania avvelenata dal risentimento e dalla falsa teologia. Una miscela la cui metastasi agisce indisturbata nella cultura oggi al potere nell'Occidente frastornato e inconsapevole del male oscuro, che lo affligge.
 Il libro dei Garibaldi, pertanto, si raccomanda quale lettura indispensabile agli aspiranti politici, che aspirano ad agire nel vuoto lasciato dalla destra italiana, e che perciò debbono recuperare il realismo storico indispensabile all'efficacia dell'agire nella oscurata complessità del presente.

Piero Vassallo



  

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