Narrate
con i toni del giallo metafisico o sviluppate secondo i criteri
dell'intrattenimento psichiatrico, le orribili
storie della politica criminale, insieme con i brividi, suscitano nel
lettore la convinzione che la radice dell'eversione sanguinaria sia una grave e
conclamata psicopatologia.
La
convinzione che Hitler, e nella sua risma Robespierre, Stalin, Pol-Pot e Mao
furono malati di mente e non geniali/criminosi costruttori di patiboli
applauditi da moltitudini fanatizzate, confondono e avviano le difese
immunitarie delle società civili al combattimento contro marginalità
furenti/deliranti, radunate di gruppuscoli privi degli strumenti indispensabili
al qualunque progetto inteso alla conquista del consenso.
Ora il
delirio politicante va individuato, circoscritto e segregato, non confuso con
la politica realisticamente ed efficacemente indirizzata al grande male.
La
perversione politica, purtroppo, non può essere associata facilisticamente alla
figura dell'indemoniato, che la misericordia dei parenti e degli amici trascina
dall'esorcista né a quella dello psicopatico chiuso nella camicia di forza.
Il
saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi "Il tempo della svastica"
(edizioni Agostini Wihte star, Novara 2014) è un prezioso contributo e un
opportuno invito alla riflessione sulla natura fascinosa (superstiziosa, secondo coloro che
riflettono sull'etimo delle parole) e a suo modo intrigante della
perversione politica.
Nella
introduzione, Luciano Garibaldi dichiara, infatti, l'intento di evitare la
caduta nei due trabocchetti della
storiografia fantastica, l'esegesi psichiatrica del male storico e il
revisionismo: "Abbiamo cercato di seguire fin dall'inizio la strada
dell'obiettività, non omettendo nulla in ordine alla criminalità del Terzo
Reich e del suo führer , a partire dall'infamia della persecuzione antiebraica,
ma al tempo stesso, collocando la vita privata più intima del protagonista nei
limiti del verosimile, senza cedere in facili demonizzazioni come quella
relativa a una sua presunta omosessualità".
Il
problema dell'origine della violenza di massa non si risolve ricorrendo alla
psichiatria dilettante o ai pettegolezzi sulla demenza del capobanda.
Il
saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi, ad esempio, ricorda il giudizio
negativo degli insegnanti di Hitler, da alcuni storici esibito come prova della
alienazione del führer, ma rammenta che Hitler non aveva torto quando
nel Mein Kampf definiva squilibrati i suo professori, che infatti
finirono la loro vita in un manicomio.
Guidati dalla convinzione
non ha senso attribuire alla demenza il successo di una politica
visionaria e feroce, gli autori ricostruiscono la disgraziata carriera di
Hitler escludendo le interpretazioni gialle e/o pseudomistiche. Ridisegnano
pertanto la figura di Hitler e ricostruiscono le fasi della sua formazione e il
contributo che ad essa fu conferito da personalità di alto profilo e collocano
tale prodotto al centro di una folla tedesca arroventata dalle
privazioni imposte dai vincitori della Grande Guerra e spaventata dalla
minaccia costituita dai rivoluzionari comunisti.
Nello
scenario, fedelmente ricostruito dagli autori, la violenza esercitata con
inaudita ferocia dai seguaci di Hitler si rivela criminosa ma non demenziale.
E' peraltro noto che cause del successo nazista furono la cecità della vendetta
francese e il fanatismo del fronte rosso tedesco.
Gli
autori dimostrano altresì che l'ideologia hitleriana era espressione di una fisima
(anche in questo caso l'etimologia aiuta il lettore della storia, ricordano la
stretta parentela di fisima e sofisma) e non di una cieca follia.
La
fonte del pensiero hitleriano era infatti la capovolta teologia gnostica, che
nel primo dopo guerra era oggetto di studi talora appassionati e coinvolgenti
di studiosi tedeschi. L'antisemitismo risuonava nelle oscure profondità di una
cultura germanica avvelenata dalla lunga carriera compiuta dalla capovolta
teologia da Lutero a Hegel fino ai tardi romantici a Nietzsche e a Heidegger.
Abbassare
il grande malvagio alla statura del demagogo
incolto e improvvisato, oltre a indirizzare la lotta politica alla
repressione dei margini desolati e sparuti impedisce la corretta lettura delle
catastrofi storiche e l'elevazione di argini sicuri alle catastrofi incombenti.
Si
pensi alla debolezza delle difese sociali contro il nichilismo predicato (e
seminato nei cuori dell'Occidente liberale) dai nemici di Hitler che
confessavano (pensiamo agli apostati Walter Benjamin, Ernst Bloch, Jacob
Taubes, Herbert Marcuse, Hans Jonas) la medesima avversione nutrita dai nazisti
nei confronti del Creatore. Oppure alle tesi ecumeniche di Sigmund Freud
intorno alla religione biblica quale complotto egiziano contro il
presunto politeismo degli ebrei.
Il
saggio di Luciano e Simonetta Garibaldi ricostruisce sapientemente la
personalità di Hitler e indica la via per posizionarla nel cuore di una
Germania avvelenata dal risentimento e dalla falsa teologia. Una miscela la cui
metastasi agisce indisturbata nella cultura oggi al potere
nell'Occidente frastornato e inconsapevole del male oscuro, che lo affligge.
Il
libro dei Garibaldi, pertanto, si raccomanda quale lettura indispensabile agli
aspiranti politici, che aspirano ad agire nel vuoto lasciato dalla destra
italiana, e che perciò debbono recuperare il realismo storico indispensabile
all'efficacia dell'agire nella oscurata complessità del presente.
Piero Vassallo
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