Non è possibile
comprendere le cause dello sbandamento oggi in atto nella teologia e nella
morale cattolica senza risalire alle fonti ingenue delle suggestioni di
stampo modernistico, in libera e devastante circolazione dopo morte di Pio XII.
Il modernismo, infatti, promuove l'obbedienza
ai segnali lanciati dalla cultura giornalistica d'obbedienza massonica
e/o sovietica.
Ora nei primi anni Sessanta del xx secolo, il mondo
moderno, quantunque diviso in blocchi, godeva di apparentemente buona
salute: in allora la catastrofe del comunismo, le difficoltà della potenza a
stelle e strisce e la corsa all'inginocchiatoio politico davanti alla Russia di
Vladimir Putin, non erano eventi prevedibili. Gli entusiasmi chiliastici e i
febbrili gongolamenti intorno al candore di papa Roncalli, purtroppo violavano
la legge che suggerisce la naturale e obbligata ignoranza del futuro.
Il momentaneo luccichio del mondo moderno
abbagliò lo sguardo e toccò il cuore ecumenico di Giovanni XXIII, il papa
buono, che decise di ricevette (non senza allarmare e turbare la curia
vaticana) il giornalista sovietico Aleksei Adzubej e la di lui moglie, la
figlia di Nikita Kruscev (il successore buono del sanguinario Stalin).
Di qui l'invenzione e la diffusione
dell'irrispettoso e quasi goliardico gioco di parole, coniato da un sacerdote
refrattario, per definire la rincorsa vaticana della diplomazia sovietica: Ecce
Adzubej qui tollit peccata mundi.
Se non che la spinta al rinnovamento atteso
dal papa buono e dai cattolici progressisti non arrivò dalla patria del
socialismo reale ma dalle università americane, intossicate dal decadentismo
francofortese, predicato dal raffinato cinedo Herbert Marcuse.
Ingannati da una rustica e abbagliata lettura
degli squilli sessantottini, il clero progressista corse, infine, al seguito di
una ideologia adottata da studenti borghesi, idealmente radunati intorno al
mito di Walter Benjamin, il pensatore impegnati a trasferire il neopaganesimo
dell'ultra destra germanica nella vuota testa della gioventù americana.
Di qui il disorientamento e lo sconcerto dei
cattolici irriducibili all'errore ultramoderno. Il refrattario Marcel De
Corte nell'abbaglio dei prelati sessantottini vide “l'accostamento blasfemo
tra Vangelo e Rivoluzione, di cui parla san Pio X a proposito del modernismo
politico ”.
Il lungimirante filosofo belga, in una lettera
indirizzata nel 1969 a
Jean Madiran. confessava addirittura la forte tentazione di abbandonare la
Chiesa cattolica, e dichiarava la flebile speranza che lo induceva a resistere:
“La Chiesa è simile a un sacco di grano pieno di calandre- Per quanto
numerosi siano i parassiti – e a prima vista formicolano – essi non hanno
sterilizzato tutti i chicchi. Alcuni, poco importa il numero, restano fecondi.
Germineranno. E le calandre creperanno, quando avranno divorato tutti gli
altri. Buon appetito, signori: voi mangiate la vostra stessa morte” [1].
Simili alle alate, fameliche e insaziabili
calandre, i prelati, smarriti nelle nebbie sollevate dal pensiero francofortese
e californiano, ingoiavano e ruttavano le fanfaluche e le umilianti
fandonie declinate dal giovanile delirio urlante nei cortei del maggio
sessantottino. De Corte rammentò il motivo dell'apprezzamento del
sessantottismo dichiarato dall'abbagliato clero francese: “Esso chiama a
costruire una società nuova, in cui i rapporti umani si stabiliranno in maniera
del tutto diversa. Tale nuova società, i Vescovi di Francia sono tanto più
disposti ad accoglierla in quanto il Concilio, sensibile alla mutazione del
mondo, ne aveva presentito l'esigenza e fissato le condizioni essenziali. …
La Chiesa ormai pienamente evangelica e rivolta verso il mondo, invoca, con
tutta la sua esperienza sovrannaturale, l'avvento del socialismo, piena
attuazione dell'ideale evangelico”.
Grazie al mecenatismo di Giovanni Volpe, la lucida
visione di De Corte fu il criterio informatore delle attività, sanamente reazionarie,
promosse dalla fondazione Gioacchino Volpe, attiva in Roma tra il 1973 e
il. 1983 [2].
Per inciso: gli atti della Fondazione
Gioacchino Volpe smentiscono e ridicolizzano la mitologia che impone, con
sentenza inappellabile, il restringimento della cultura all'area sinistra.
Purtroppo i politicanti della destra,
caninamente abbarbicati alle esangui frivolezze di Armando Plebe e di Alain De
Benoist, non seppero o meglio non vollero fare propria l'ingente produzione
della Fondazione Volpe.
Nella luce accecante, sprigionata dall'equivoco
intorno al sessantottismo, il clero coatto intanto vedeva apparire la (santa)
città socialista del futuro, “di cui i collegi episcopali assumeranno la
direzione democratica”.
Associato all'agitata democrazia dei giovani in
piazza, il guelfismo si trasformò nell'incubo che rappresenta la metamorfosi
sociale della Chiesa cattolica. Facilitata dalla discesa della cultura di
destra nei racconti di Tolkien, il progressismo circolante senza freni nella
teologia accomodata “ha per termine la costruzione di una società nuova,
retta dalla volontà di potenza dei chierici”.
Interpretata da Bergoglo la
missione della Chiesa cattolica si riduce a una patetica, surreale concorrenza
al potere mondialista, che corre a perdifiato nella regione dei sogni (o
incubi) intorno a un'umanità redenta dal denaro dei banchieri.
Alla chimera di banca la fede di Bergoglio oppone
la figura di una società amministrata dai buoni e intesa alla pia felicità del
genere umano in terra.
Versione empiamente pia del modernismo, il
bergoglismo declina il suo comico progetto: realizzare il paradiso cristiano su
una terra arata dai partiti della licenza in tutte le direzioni del vizio. Una
terra vegliata da politici paleo-democristiani che si affacciano allo schermo
della Rai in veste piamente iettatoria.
Si tratta, a ben vedere, del capovolgimento
della ragione guelfa in un ghibellinismo a bassa intensità.
In ultima analisi, si delinea un progetto
finalizzato a trasformare il sale della terra in nutrimento e concime del
mondo.
La tentazione di De Corte si capovolge (e in
certo modo si invera) nella rovinosa fuga della gerarchia dal cuore dei fedeli.
Piero Vassallo
[1] Cfr.: Marcel de Corte, “La grande eresia”, Giovanni Volpe
editore, Roma 1970, pag. 103.
[2] A dimostrazione dell'eminente valore
della cultura tradizionale, ai convegni della Fondazione Volpe parteciparono
studiosi di alto profilo, quali Marcel De Corte, Augusto Del Noce, Nicola
Petruzzelli, Marino Gentile, Gustave Thibon, Ettore Paratore, Mario Attilio
Levi, Massimo Pallottino, Thomas Molnar, Giuseppe Sermonti, Fausto
Gianfranceschi, Giano Accame, Marco Tangheroni, Primo Siena,
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