giovedì 8 ottobre 2015

La grande eresia

Non è possibile comprendere le cause dello sbandamento oggi in atto nella teologia e nella morale cattolica senza risalire alle fonti ingenue delle suggestioni di stampo modernistico, in libera e devastante circolazione dopo morte di Pio XII.
 Il modernismo, infatti, promuove l'obbedienza ai segnali lanciati dalla cultura giornalistica d'obbedienza massonica e/o sovietica.
 Ora nei primi anni Sessanta del xx secolo, il mondo moderno, quantunque diviso in blocchi, godeva di apparentemente buona salute: in allora la catastrofe del comunismo, le difficoltà della potenza a stelle e strisce e la corsa all'inginocchiatoio politico davanti alla Russia di Vladimir Putin, non erano eventi prevedibili. Gli entusiasmi chiliastici e i febbrili gongolamenti intorno al candore di papa Roncalli, purtroppo violavano la legge che suggerisce la naturale e obbligata ignoranza del futuro.
 Il momentaneo luccichio del mondo moderno abbagliò lo sguardo e toccò il cuore ecumenico di Giovanni XXIII, il papa buono, che decise di ricevette (non senza allarmare e turbare la curia vaticana) il giornalista sovietico Aleksei Adzubej e la di lui moglie, la figlia di Nikita Kruscev (il successore buono del sanguinario Stalin).
 Di qui l'invenzione e la diffusione dell'irrispettoso e quasi goliardico gioco di parole, coniato da un sacerdote refrattario, per definire la rincorsa vaticana della diplomazia sovietica: Ecce Adzubej qui tollit peccata mundi.
 Se non che la spinta al rinnovamento atteso dal papa buono e dai cattolici progressisti non arrivò dalla patria del socialismo reale ma dalle università americane, intossicate dal decadentismo francofortese, predicato dal raffinato cinedo Herbert Marcuse.
 Ingannati da una rustica e abbagliata lettura degli squilli sessantottini, il clero progressista corse, infine, al seguito di una ideologia adottata da studenti borghesi, idealmente radunati intorno al mito di Walter Benjamin, il pensatore impegnati a trasferire il neopaganesimo dell'ultra destra germanica nella vuota testa della gioventù americana.
 Di qui il disorientamento e lo sconcerto dei cattolici irriducibili all'errore ultramoderno. Il refrattario Marcel De Corte nell'abbaglio dei prelati sessantottini vide “l'accostamento blasfemo tra Vangelo e Rivoluzione, di cui parla san Pio X a proposito del modernismo politico ”.
 Il lungimirante filosofo belga, in una lettera indirizzata nel 1969 a Jean Madiran. confessava addirittura la forte tentazione di abbandonare la Chiesa cattolica, e dichiarava la flebile speranza che lo induceva a resistere: “La Chiesa è simile a un sacco di grano pieno di calandre- Per quanto numerosi siano i parassiti – e a prima vista formicolano – essi non hanno sterilizzato tutti i chicchi. Alcuni, poco importa il numero, restano fecondi. Germineranno. E le calandre creperanno, quando avranno divorato tutti gli altri. Buon appetito, signori: voi mangiate la vostra stessa morte” [1].
 Simili alle alate, fameliche e insaziabili calandre, i prelati, smarriti nelle nebbie sollevate dal pensiero francofortese e californiano, ingoiavano e ruttavano le fanfaluche e le umilianti fandonie declinate dal giovanile delirio urlante nei cortei del maggio sessantottino. De Corte rammentò il motivo dell'apprezzamento del sessantottismo dichiarato dall'abbagliato clero francese: “Esso chiama a costruire una società nuova, in cui i rapporti umani si stabiliranno in maniera del tutto diversa. Tale nuova società, i Vescovi di Francia sono tanto più disposti ad accoglierla in quanto il Concilio, sensibile alla mutazione del mondo, ne aveva presentito l'esigenza e fissato le condizioni essenziali. … La Chiesa ormai pienamente evangelica e rivolta verso il mondo, invoca, con tutta la sua esperienza sovrannaturale, l'avvento del socialismo, piena attuazione dell'ideale evangelico”.
 Grazie al mecenatismo di Giovanni Volpe, la lucida visione di De Corte fu il criterio informatore delle attività, sanamente reazionarie, promosse dalla fondazione Gioacchino Volpe, attiva in Roma tra il 1973 e il. 1983 [2].
 Per inciso: gli atti della Fondazione Gioacchino Volpe smentiscono e ridicolizzano la mitologia che impone, con sentenza inappellabile, il restringimento della cultura all'area sinistra.
 Purtroppo i politicanti della destra, caninamente abbarbicati alle esangui frivolezze di Armando Plebe e di Alain De Benoist, non seppero o meglio non vollero fare propria l'ingente produzione della Fondazione Volpe.
 Nella luce accecante, sprigionata dall'equivoco intorno al sessantottismo, il clero coatto intanto vedeva apparire la (santa) città socialista del futuro, “di cui i collegi episcopali assumeranno la direzione democratica”.
 Associato all'agitata democrazia dei giovani in piazza, il guelfismo si trasformò nell'incubo che rappresenta la metamorfosi sociale della Chiesa cattolica. Facilitata dalla discesa della cultura di destra nei racconti di Tolkien, il progressismo circolante senza freni nella teologia accomodata “ha per termine la costruzione di una società nuova, retta dalla volontà di potenza dei chierici”.

Interpretata da Bergoglo la missione della Chiesa cattolica si riduce a una patetica, surreale concorrenza al potere mondialista, che corre a perdifiato nella regione dei sogni (o incubi) intorno a un'umanità redenta dal denaro dei banchieri.
 Alla chimera di banca la fede di Bergoglio oppone la figura di una società amministrata dai buoni e intesa alla pia felicità del genere umano in terra.
 Versione empiamente pia del modernismo, il bergoglismo declina il suo comico progetto: realizzare il paradiso cristiano su una terra arata dai partiti della licenza in tutte le direzioni del vizio. Una terra vegliata da politici paleo-democristiani che si affacciano allo schermo della Rai in veste piamente iettatoria.
 Si tratta, a ben vedere, del capovolgimento della ragione guelfa in un ghibellinismo a bassa intensità.
 In ultima analisi, si delinea un progetto finalizzato a trasformare il sale della terra in nutrimento e concime del mondo.
 La tentazione di De Corte si capovolge (e in certo modo si invera) nella rovinosa fuga della gerarchia dal cuore dei fedeli.

Piero Vassallo








[1]    Cfr.: Marcel de Corte, “La grande eresia”, Giovanni Volpe editore, Roma 1970, pag. 103.
[2]  A dimostrazione dell'eminente valore della cultura tradizionale, ai convegni della Fondazione Volpe parteciparono studiosi di alto profilo, quali Marcel De Corte, Augusto Del Noce, Nicola Petruzzelli, Marino Gentile, Gustave Thibon, Ettore Paratore, Mario Attilio Levi, Massimo Pallottino, Thomas Molnar, Giuseppe Sermonti, Fausto Gianfranceschi, Giano Accame, Marco Tangheroni, Primo Siena, 

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