giovedì 29 ottobre 2015

IL BENE PUBBLICO VENDUTO AL MERCATO (di Piero Nicola)

  La più recente cessione di servizio pubblico al mercato azionario è stata quella delle Poste. Come per altre vendite o svendite di beni dello Stato, cioè dei cittadini, ministero e mezzi d'informazione pervicaci sostenitori del governo, hanno inneggiato alla benefica privatizzazione. La politica delle privatizzazioni è un raggiro ai danni del popolo, che viene abbindolato con la presunta efficienza, per generale utilità, delle società anonime nel condurre industrie e servizi di preminente interesse sociale, dei quali la comunità era proprietaria o che sarebbe giusto lo fosse.
  Quanto alle privatizzazioni di branche economiche prima gestite dall'amministrazione comunale o regionale, è evidente che l'utile ricavato dalle imprese acquirenti o appaltatrici aumenta la spesa, rispetto a una corretta e diretta gestione dell'ente pubblico. La specializzazione e l'attrezzatura di quelle ditte solo in certi casi giustifica il ricorso ad esse.
  D'altronde, se esiste una sorta di legge antimonopolio e una parvenza di sua applicazione, le grandi Spa sono in mano alla finanza internazionale, da cui dipendono anche gli amministratori delegati, che hanno facoltà pressappoco illimitate.
  Oltre la perdita della moneta nazionale, con tutte le sciagure che ne conseguono, abbiamo il depauperamento del patrimonio della cittadinanza e occasioni ulteriori di corruttela con le attività date in appalto dagli Enti Pubblici; abbiamo la licenza di sfruttamento operato dal capitalismo apolide, il fallimento (anche strumentalizzato) di industrie che potrebbero essere salvate dallo Stato, salvando bensì l'occupazione. Infatti l'IRI ha quasi smesso il suo ufficio di provvidenza nazionale, dagli anglosassoni chiamata welfare, del quale l'Italia fu la migliore attuatrice, anche con l'INPS e con gli altri Enti previdenziali e assicurativi esenti da scopo di lucro.
  Se non bastasse l'alienazione delle funzioni della Res Publica e dei suoi averi, si tende a trasferire a società assicurative le provvidenze da essa garantite ai lavoratori. Si ripete, in questo campo, il regresso sopra denunciato. Si trasmette a Spa la facoltà di lucrare sul lavoro e sulla salute dei dipendenti. Le Casse pensione o infortunio e malattia dei dipendenti pubblici o privati, costituite nei rispettivi ambiti delle col vincolo dei contributi obbligatori e del controllo statale, vengono sminuite a vantaggio di compagnie assicurative, che offrono minori garanzie e fanno i propri interessi.
  Tutto questo in nome di un liberalismo immorale, già definito col termine ingannevolmente elogiativo di deregulation, che introduce un abominevole mercato del lavoro, ossia l'eliminazione del posto fisso e del contratto a tempo indefinito.
  La precarietà del lavoro (caratteristica della società americana, anche priva di una generale assistenza pubblica sanitaria) è presentata come una conquista del progresso economico e civile. Questa impostura vanta qualcosa che è causa primaria d'insicurezza, di disoccupazione, di trasferimenti e sradicamenti, d'impedimento alla formazione delle famiglie e di forte diminuzione delle nascite. Il vantaggio d'avere a disposizione lavoratori più diligenti ed efficienti, grazie a una più agevole licenziabilità, potrebbe ottenersi con una giusta disciplina, che regoli legalmente i rapporti tra imprenditoria e prestazione d'opera, con una magistratura del lavoro che dirima le controversie, con una legge che potrebbe altresì rendere illeciti sia lo sciopero sia la serrata.
  Se i costumi sono corrotti, lo saranno tanto per la tolleranza dei fannulloni quanto per lo sfruttamento dei bravi dipendenti, sia che le nuove leggi lo favoriscano, sia in barba alle leggi eque.
  Ma questa dei costumi è un'altra faccenda.

Piero Nicola

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