Stefano Zecchi – l’Autore del
pregevole, seducente e commovente romanzo, ‘Rose bianche a Fiume’ (Mondadori,
Milano, 2014) – non ha, certo, bisogno di presentazioni visto che egli, oltre
che romanziere, saggista ed editorialista, è anche un esperto di Estetica e la
cattedra da lui occupata, in tale disciplina, all’Università Statale di Milano,
rappresenta un’ulteriore garanzia del suo prestigio come uomo, come scrittore e come pensatore
Lo studioso ha al suo attivo, infatti, numerosi lavori sia di carattere
letterario vero e proprio, sia di carattere filosofico – ricordiamo, in questa
sede, solo qualcuno come, ad esempio, ‘La bellezza’ (1990) e ‘La fenomenologia
dopo Husserl nella cultura contemporanea’ (1978) – sebbene, adesso, ci
interessi, in maniera precipua, la menzionata fatica ambientata nell’ex città
italiana dell’Istria.
Diviso in 19 capitoli, il denso volume in questione descrive,
spessissimo con toni tristi e struggenti, la vicenda di Gabriele – personaggio
principale del romanzo – il quale, ad un certo punto della sua dolorosa
esistenza viene invitato, tramite un biglietto anonimo, a tornare a Fiume,
città ormai incorporata dalla Jugoslavia per effetto della sconfitta subita
dall’Italia dopo il secondo conflitto mondiale. L’interprete della vicenda,
sebbene debba affrontare reminiscenze angosciose e tormentate, non si esime
dall’accettare la sfida e, dopo tanti anni di esilio, decide di tornare nella
città natìa.
Qui, si è svolta la propria giovinezza con la famiglia; qui, egli è entrato
anche nell’agone politico; qui, si snocciolano, prepotenti, i ricordi; qui, riposano
i suoi genitori; qui, infine, vive ancora una sorella con la quale, però, i
rapporti restano freddi. A Fiume – appartenente non più alla Jugoslavia, ma
alla Croazia – il protagonista trova quasi tutto cambiato quantunque alcuni
ambienti, in particolare il mare e il cielo, restino inalterati malgrado la
politica snazionalizzatrice messa in atto dalla Jugoslavia, prima, e dalla
Repubblica di Croazia, dopo.
L’aria della città, però, resta sempre la stessa benché l’Autore faccia
dire ad un personaggio, dopo la sconfitta e la consequenziale cessione della
città ai nuovi padroni, che “in Istria, in Dalmazia, la guerra perduta
dall’Italia cambia definitivamente la geografia politica dell’Europa”, con “la
pacificazione ancora lontana”. Gabriele che si esprime sempre in prima persona,
narra pure la sua giovanile esperienza politica esperita, nell’immediato
dopoguerra, nel Partito comunista, con l’intera carica di ottimismo e di
entusiasmo per un futuro migliore.
Naturalmente in contrasto col padre – di formazione dannunziana - che
vorrebbe vedere nell’impegno del figlio la prosecuzione della propria attività
di imprenditore in un’importante azienda tessile; l’erede, però, è, come conferma pure la madre,
“un sognatore troppo ingenuo per soddisfare i progetti e le aspettative” del
genitore il quale, un giorno, lo pone di fronte alla cruda realtà con tali
pesanti parole: “Contano i fatti e le nostre azioni, ragazzo mio, e i fatti e
le azioni hanno emesso la sentenza di morte sulla nostra famiglia”.
Tale realismo che farà pagare cara al genitore la permanenza in città –
ormai proprietà dei nuovi padroni – visto che, al momento opportuno, sarà
massacrato da coloro che vedono in lui solo un nemico da eliminare al più
presto. A questo punto, compare sul palcoscenico degli avvenimenti un certo
Miran, esponente in vista del ‘novus ordo’ jugoslavo; questi, in apparenza
amico, consigliere e guida di Gabriele, alla fine getterà la maschera
dimostrandosi, in sostanza, un vero nemico di chi si fida di lui, come
Gabriele, e gli Italiani in generale.
Colla disgregazione, in seguito, della Jugoslavia anche Miran resterà
tagliato fuori dagli sviluppi politici rappresentati dalla nuova realtà
costituita dalla Croazia e dato, inoltre, che è fedele al precedente regime
titino, egli rimane emarginato ed incapace - perché privo del coraggio
necessario - addirittura di incontrare Gabriele; nell’occasione fa da tramite
fra i due proprio Eleonora, la compagna Eleonora, la quale è totalmente ignara
del dramma consumatosi sulla pelle dei suoi concittadini e degli Italiani.
Adesso, invece, ancora sulla cresta dell’onda,
ad una precisa domanda del protagonista relativa alla considerazione secondo
cui il nuovo regime non ha fatto nulla per persuadere gli Italiani a restare,
il dirigente comunista se ne esce con tale sprezzante risposta: “Meglio che se
ne vadano, qui finirebbero per essere una malattia infettiva che diffonde il
contagio dappertutto”.
Ad un
certo punto, nella dura contrapposizione fra Tito e Stalin – contrasto teso a
dimostrare se il vero comunismo è il primo o il secondo – Gabriele viene
confinato, per due anni, non senza la ‘longa manus’ di Miran, nell’sola Calva,
Goli Otok per gli slavi, vero e proprio campo di concentramento e di
rieducazione per i detenuti, quasi sempre innocenti, considerate le violenze, i
soprusi e le infinite inenarrabili sofferenze alle quali solo pochissimi
riescono a sopravvivere.
.
Naturalmente, esiste, e come, nel romanzo,
un’interprete femminile ed essa risponde al nome di Kety-Aurora con velleità
artistiche – è, infatti, aspirante attrice – in parte, soddisfatte dalle sue
discrete capacità e in parte, appagate
dalla protezione di Miran che ricopre responsabilità di primo piano in
seno al partito comunista jugoslavo; i
principali dirigenti, infatti, sostengono di voler realizzare un sistema
politico in linea con i tempi e, con gli Italiani, sostiene, il capitano Della
Janna, “degni delle colpe d’Italia”.
Aurora è una ragazza allegra, ottimista e disinibita e prona alle
direttive del nuovo regime; di lei, Gabriele è innamorato, ma la giovane -
sebbene ogni tanto gli si conceda - con le sue aspirazioni, pensa solo all’arte
ritagliandosi il suo piccolo spazio nella compagnia del Dramma italiano di
Fiume dove Gabriele va spesso a trovarla con in mano un mazzo di rose bianche, acquistato
presso un famoso angolo della città. Nel frattempo, annessa definitivamente la
città di Fiume, i nuovi padroni jugoslavi mettono in atto le vendette, in
particolare, contro gli Italiani non allineati.
Una di queste vittime è proprio il padre di Gabriele trucidato con
violenza, mentre anche la madre, non resistendo all’immane dolore, muore di
crepacuore; gli oltraggi contro la minoranza italiana si susseguono senza sosta
tant’è vero che, dopo aver scontato la pena all’Isola Calva, Gabriele decide,
anche se da esule, di tornare in Italia stabilendosi a Milano dove riesce a
trovare anche un’occupazione dignitosa. Ed ecco che, dopo alcuni anni, egli
risponde al misterioso invito di tornare a Fiume, città, ormai, totalmente
cambiata, ma non tanto da non consentirgli di riconoscere gli antichi luoghi e
di incontrare qualche persona ancora viva, come Oscar.
Qui rivede anche Aurora, attrice affermata, la quale si autodefinisce
“jugoslava di origine italiana”, aggiungendo, addirittura in polemica con Gabriele
che difende l’italianità della città, che “se ne sono andati via quelli che remavano
contro di noi e noi siamo stati felici che se ne siano andati”. Ignara,
evidentemente, delle angherie consumate ai danni dei suoi connazionali. Anche
il capitano Della Janna che ha sperato nel buon senso dei vincitori, viene,
alla fine, trucidato dai responsabili del nuovo regime, come la moglie di
quest’ultimo racconta a Gabriele mentre insieme si recano al cimitero.
Il protagonista, nell’accomiatarsi definitivamente da Fiume, pur desiderando
rivedere Aurora, non se la sente di entrare in teatro, ma in questa sua turbata
e sincera osservazione è racchiuso l’infinito amore per la città nativa e per i
superstiti abitanti: “C’era un decoro in quelle persone che andava oltre la
pura e semplice qualità dell’abito: era un desiderio di rispetto per se stessi
e per quella loro piccola comunità che si trovava unita in teatro, era la
volontà di rimanere con dignità italiani in una città che non era più
italiana”.
Dopo due mesi dalla partenza dell’amico, Oscar riceve una cartolina da
Parigi con i saluti di Gabriele e Maria;
e ciò proprio nell’istante in cui egli sta ritagliando una notizia - tratta dal
quotidiano ‘La Voce del Popolo’ e da
spedire, per posta, a Gabriele - in cui
è scritto che il dirigente Miran T. e la moglie, Eleonora R., si sono
suicidati. Che dire, in ultima analisi, di questa bella fatica dell’Autore?
Innanzitutto, che non è possibile riassumere nell’ambito di un articolo
l’intima bellezza di un libro che resta, da una parte, una limpida lezione di
storia e, dall’altra, una sincera testimonianza di amor di patria; in secondo luogo, che il volume si legge tutto
d’un fiato sia perché è scritto bene, sia perché nel protagonista c’è molto
dello scrittore - veneto anche lui - sia, ancora, perché nel romanzo ci sono
delle pagine così struggenti da far rasentare, nel lettore, il pianto.
E non
esageriamo. I passi sono tanti, ma ci limitiamo a citarne uno solo allorquando,
cioè, il padre di Gabriele, in un atto di estrema sincerità, comunica al figlio
di essersi illuso di poter continuare a vivere in lui non la propria vita, ma
la storia della famiglia.
Lino Di Stefano
Nessun commento:
Posta un commento