mercoledì 8 aprile 2015

I FIORI BIANCHI DI FIUME (di Lino Di Stefano)

Stefano Zecchi – l’Autore del pregevole, seducente e commovente romanzo, ‘Rose bianche a Fiume’ (Mondadori, Milano, 2014) – non ha, certo, bisogno di presentazioni visto che egli, oltre che romanziere, saggista ed editorialista, è anche un esperto di Estetica e la cattedra da lui occupata, in tale disciplina, all’Università Statale di Milano, rappresenta un’ulteriore garanzia del suo prestigio come uomo, come  scrittore e come pensatore
   Lo studioso ha al suo attivo, infatti, numerosi lavori sia di carattere letterario vero e proprio, sia di carattere filosofico – ricordiamo, in questa sede, solo qualcuno come, ad esempio, ‘La bellezza’ (1990) e ‘La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea’ (1978) – sebbene, adesso, ci interessi, in maniera precipua, la menzionata fatica ambientata nell’ex città italiana dell’Istria.
   Diviso in 19 capitoli, il denso volume in questione descrive, spessissimo con toni tristi e struggenti, la vicenda di Gabriele – personaggio principale del romanzo – il quale, ad un certo punto della sua dolorosa esistenza viene invitato, tramite un biglietto anonimo, a tornare a Fiume, città ormai incorporata dalla Jugoslavia per effetto della sconfitta subita dall’Italia dopo il secondo conflitto mondiale. L’interprete della vicenda, sebbene debba affrontare reminiscenze angosciose e tormentate, non si esime dall’accettare la sfida e, dopo tanti anni di esilio, decide di tornare nella città natìa.
   Qui, si è svolta la propria giovinezza con la famiglia; qui, egli è entrato anche nell’agone politico; qui, si snocciolano, prepotenti, i ricordi; qui, riposano i suoi genitori; qui, infine, vive ancora una sorella con la quale, però, i rapporti restano freddi. A Fiume – appartenente non più alla Jugoslavia, ma alla Croazia – il protagonista trova quasi tutto cambiato quantunque alcuni ambienti, in particolare il mare e il cielo, restino inalterati malgrado la politica snazionalizzatrice messa in atto dalla Jugoslavia, prima, e dalla Repubblica di Croazia, dopo.
   L’aria della città, però, resta sempre la stessa benché l’Autore faccia dire ad un personaggio, dopo la sconfitta e la consequenziale cessione della città ai nuovi padroni, che “in Istria, in Dalmazia, la guerra perduta dall’Italia cambia definitivamente la geografia politica dell’Europa”, con “la pacificazione ancora lontana”. Gabriele che si esprime sempre in prima persona, narra pure la sua giovanile esperienza politica esperita, nell’immediato dopoguerra, nel Partito comunista, con l’intera carica di ottimismo e di entusiasmo per un futuro migliore.
   Naturalmente in contrasto col padre – di formazione dannunziana - che vorrebbe vedere nell’impegno del figlio la prosecuzione della propria attività di imprenditore in un’importante azienda tessile;  l’erede, però, è, come conferma pure la madre, “un sognatore troppo ingenuo per soddisfare i progetti e le aspettative” del genitore il quale, un giorno, lo pone di fronte alla cruda realtà con tali pesanti parole: “Contano i fatti e le nostre azioni, ragazzo mio, e i fatti e le azioni hanno emesso la sentenza di morte sulla nostra famiglia”.
   Tale realismo che farà pagare cara al genitore la permanenza in città – ormai proprietà dei nuovi padroni – visto che, al momento opportuno, sarà massacrato da coloro che vedono in lui solo un nemico da eliminare al più presto. A questo punto, compare sul palcoscenico degli avvenimenti un certo Miran, esponente in vista del ‘novus ordo’ jugoslavo; questi, in apparenza amico, consigliere e guida di Gabriele, alla fine getterà la maschera dimostrandosi, in sostanza, un vero nemico di chi si fida di lui, come Gabriele, e gli Italiani in generale.
   Colla disgregazione, in seguito, della Jugoslavia anche Miran resterà tagliato fuori dagli sviluppi politici rappresentati dalla nuova realtà costituita dalla Croazia e dato, inoltre, che è fedele al precedente regime titino, egli rimane emarginato ed incapace - perché privo del coraggio necessario - addirittura di incontrare Gabriele; nell’occasione fa da tramite fra i due proprio Eleonora, la compagna Eleonora, la quale è totalmente ignara del dramma consumatosi sulla pelle dei suoi concittadini e degli Italiani.  
    Adesso, invece, ancora sulla cresta dell’onda, ad una precisa domanda del protagonista relativa alla considerazione secondo cui il nuovo regime non ha fatto nulla per persuadere gli Italiani a restare, il dirigente comunista se ne esce con tale sprezzante risposta: “Meglio che se ne vadano, qui finirebbero per essere una malattia infettiva che diffonde il contagio dappertutto”.
   Ad un certo punto, nella dura contrapposizione fra Tito e Stalin – contrasto teso a dimostrare se il vero comunismo è il primo o il secondo – Gabriele viene confinato, per due anni, non senza la ‘longa manus’ di Miran, nell’sola Calva, Goli Otok per gli slavi, vero e proprio campo di concentramento e di rieducazione per i detenuti, quasi sempre innocenti, considerate le violenze, i soprusi e le infinite inenarrabili sofferenze alle quali solo pochissimi riescono a sopravvivere.
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   Naturalmente, esiste, e come, nel romanzo, un’interprete femminile ed essa risponde al nome di Kety-Aurora con velleità artistiche – è, infatti, aspirante attrice – in parte, soddisfatte dalle sue discrete capacità e in parte, appagate  dalla protezione di Miran che ricopre responsabilità di primo piano in seno al partito comunista jugoslavo;  i  principali dirigenti, infatti, sostengono di voler realizzare un sistema politico in linea con i tempi e, con gli Italiani, sostiene, il capitano Della Janna, “degni delle colpe d’Italia”.
   Aurora è una ragazza allegra, ottimista e disinibita e prona alle direttive del nuovo regime; di lei, Gabriele è innamorato, ma la giovane - sebbene ogni tanto gli si conceda - con le sue aspirazioni, pensa solo all’arte ritagliandosi il suo piccolo spazio nella compagnia del Dramma italiano di Fiume dove Gabriele va spesso a trovarla con in mano un mazzo di rose bianche, acquistato presso un famoso angolo della città. Nel frattempo, annessa definitivamente la città di Fiume, i nuovi padroni jugoslavi mettono in atto le vendette, in particolare, contro gli Italiani non allineati.
   Una di queste vittime è proprio il padre di Gabriele trucidato con violenza, mentre anche la madre, non resistendo all’immane dolore, muore di crepacuore; gli oltraggi contro la minoranza italiana si susseguono senza sosta tant’è vero che, dopo aver scontato la pena all’Isola Calva, Gabriele decide, anche se da esule, di tornare in Italia stabilendosi a Milano dove riesce a trovare anche un’occupazione dignitosa. Ed ecco che, dopo alcuni anni, egli risponde al misterioso invito di tornare a Fiume, città, ormai, totalmente cambiata, ma non tanto da non consentirgli di riconoscere gli antichi luoghi e di incontrare qualche persona ancora viva, come Oscar.
   Qui rivede anche Aurora, attrice affermata, la quale si autodefinisce “jugoslava di origine italiana”, aggiungendo, addirittura in polemica con Gabriele che difende l’italianità della città, che  “se ne sono andati via quelli che remavano contro di noi e noi siamo stati felici che se ne siano andati”. Ignara, evidentemente, delle angherie consumate ai danni dei suoi connazionali. Anche il capitano Della Janna che ha sperato nel buon senso dei vincitori, viene, alla fine, trucidato dai responsabili del nuovo regime, come la moglie di quest’ultimo racconta a Gabriele mentre insieme si recano al cimitero.
   Il protagonista, nell’accomiatarsi definitivamente da Fiume, pur desiderando rivedere Aurora, non se la sente di entrare in teatro, ma in questa sua turbata e sincera osservazione è racchiuso l’infinito amore per la città nativa e per i superstiti abitanti: “C’era un decoro in quelle persone che andava oltre la pura e semplice qualità dell’abito: era un desiderio di rispetto per se stessi e per quella loro piccola comunità che si trovava unita in teatro, era la volontà di rimanere con dignità italiani in una città che non era più italiana”.
   Dopo due mesi dalla partenza dell’amico, Oscar riceve una cartolina da Parigi con i saluti di Gabriele e  Maria; e ciò proprio nell’istante in cui egli sta ritagliando una notizia - tratta dal quotidiano ‘La Voce del Popolo’  e da spedire, per posta,  a Gabriele - in cui è scritto che il dirigente Miran T. e la moglie, Eleonora R., si sono suicidati. Che dire, in ultima analisi, di questa bella fatica dell’Autore?
   Innanzitutto, che non è possibile riassumere nell’ambito di un articolo l’intima bellezza di un libro che resta, da una parte, una limpida lezione di storia e, dall’altra, una sincera testimonianza di amor di patria;  in secondo luogo, che il volume si legge tutto d’un fiato sia perché è scritto bene, sia perché nel protagonista c’è molto dello scrittore - veneto anche lui - sia, ancora, perché nel romanzo ci sono delle pagine così struggenti da far rasentare, nel lettore, il pianto.
  E non esageriamo. I passi sono tanti, ma ci limitiamo a citarne uno solo allorquando, cioè, il padre di Gabriele, in un atto di estrema sincerità, comunica al figlio di essersi illuso di poter continuare a vivere in lui non la propria vita, ma la storia della famiglia.  
        
 Lino Di Stefano

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