mercoledì 15 aprile 2015

SEGNI DEI TEMPI (di Costantino Marco)

Sovente, avendone l’occasione pubblica, i vecchi militanti della Democrazia Cristiana ne rimpiangono la funzione politica e l’organizzazione di partito, ricordando, con una enfasi tipicamente democristiana, l’eterna e grata memoria dei posteri per il ruolo di contenimento della civiltà cristiana contro la minaccia comunista.
In realtà, con tutto il possibile disincanto storico, per chi abbia vissuto con una certa consapevolezza i decenni di dominio democristiano in Italia, e soprattutto le sue periferiche degenerazioni partitocratiche e clientelari, resta difficile accreditare simile immagine idilliaca e ammirevole della DC. E per più motivi. A partire dall’idea moralmente perniciosissima secondo cui l’affermazione elettorale della propria parte politica equivalesse alla salvezza civile dell’Italia intera.
Infatti questa identificazione della parte politica col tutto sociale è all’origine di quella privatizzazione della funzione pubblica da cui si è sviluppato ogni rapporto degenerativo e illegale tra potere di governo e rappresentanza politica che in Italia ha instaurato il regime partitocratico, sostitutivo di fatto a quello teorico dello Stato di diritto.
Il grande merito storico della DC è stato quello di costituire un fronte politico moderato interclassista che si è opposto a quello rivoluzionario della Sinistra comunista, secondo uno schema vetusto e collaudato della storia italiana unitaria sostanzialmente analogo nel tempo, che risale a Giolitti e che si è riproposto fino a Berlusconi. Ma il suo limite politico, anch’esso storico e non meno duraturo, è stato quello di fare di quella costituzione politica moderata un fine di potere particolaristico, anziché un mezzo per sconfiggere l’avversario ideologico in nome del quale si era costituito. Invece, però, di affrontare l’avversario culturale comunista, sul fondamento di una diversa e superiore prospettiva ideale e religiosa, la DC, in nome del comune anti-fascismo, l’ha legittimato come opposizione “democratica” sol perché avente una cospicua base elettorale, come se il fascismo non l’avesse per tempo anch’esso avuto, lasciando nell’equivoco se i comunisti fossero effettivamente “democratici” in quanto anti-fascisti, ovvero “anti-democratici” in quanto anti-democristiani. E così, il crollo del comunismo sovietico ha lasciato orfani e disorientati, sia i fautori marxisti che i loro detrattori politici, che perciò si sono estinti, lasciando come eredità ciniche pratiche gestionarie di un potere senza ricambio, e astiosità parolaia di un’opposizione senza speranza di governo.
Finito dunque il comunismo per esaurimento internazionale, è finita anche la politica anti-frontista democristiana, ma non l’equivoco che l’aveva sorretta, ossia l’idea di poter costruire un fronte puramente negativo di salvaguardia delle ragioni dei moderati italiani, a prescindere da ogni concreta strategia di governo. E così, morta la DC non è morto lo spirito anti-comunista, e al posto della Balena bianca è sorto il Popolo della tifoseria “liberale”, guidato dall’imprenditore Berlusconi, che si era proposto di cambiare quella politica e quello Stato che gli avevano consentito di diventare l’uomo più ricco e potente d’Italia, difendendo le ragioni di quanti – e sono la maggioranza degli italiani – si erano opposti e si oppongono ancora alla minaccia comunista, comunque si chiami oggi.
E’ la DC, che è stato il primo schieramento politico italiano a preferire al termine “partito” (imbarazzante accanto all’aggettivo “cristiano”!) un termine generico sostitutivo, il modello ideologico berlusconiano, e non i vari e confusi progetti liberalistici, portati avanti da ex socialisti e da ex fascisti. E come la DC, il movimento politico berlusconiano costruisce su un motivo sano (opporsi alla demagogia della spesa pubblica e assistenzialistica della Sinistra), una politica malata (il potere come fine e la gestione della sopravvivenza).
La riforma della politica italiana deve dunque partire dalla critica radicale – e non dall’elogio! – dell’ideologia democristiana, che consiste nel combattere elettoralmente per una causa che politicamente non si vuole vincere. Vincere, infatti, significa proporre una politica migliore di quella offerta dai vinti; e cioè avere idee, uomini e virtù di governo che non sono garantiti dalla semplice vittoria elettorale.
Ci rendiamo conto che questo intento costa fatica ideale e scelte politiche dolorose quanto necessarie, ossia senso dello Stato.
Se l’Italia repubblicana fosse stato un vero Stato, con una classe politica degna di esso, non avrebbe costruito le sue incerte fortune sull’equivoco dubbio se un partito comunista fosse o non democratico, e sulla indubbia certezza che esso fosse in ogni caso utile a quanti vi si opponessero. Questo equivoco ha lacerato per generazioni il nostro Paese in una dannosa guerra civile permanente, che lo ha isolato culturalmente, economicamente e politicamente dalla scena europea, dalla quale non è scomparso per ragioni essenzialmente militari e di opportunità internazionale. Infatti, il prestigio internazionale che i singoli italiani – imprenditori o intellettuali – hanno conseguito, non va confuso con il discredito complessivo che l’Italia ha nell’opinione pubblica mondiale per le sue irredimibili contraddizioni, sulle quali ha fatto la fortuna la sua disinibita classe politica repubblicana, che nessun paese civile vorrebbe ritrovarsi in casa. Come uscirne?
Anzitutto ritrovando un senso civico unitario, ossia riconoscersi in un progetto politico comune, la cui validità venga ritenuta meritoria degli stessi sacrifici che la sua realizzazione richiederebbe a tutti o alla gran parte degli italiani. Questo senso civico unitario è incompatibile con una classe politica che non ha il minimo senso dello Stato e che fa di questa deficienza il criterio principale di merito della sua cooptazione partigiana in uno o altro schieramento particolare.
Una nuova classe politica storicamente non si improvvisa, ma nasce con l’affermarsi del progetto politico che la promuove. Il vuoto politico può essere certamente riempito anche da mediocri avventurieri, ma l’occupazione del potere non è duratura se favorita dalla sola contingenza favorevole. Se non bastano i paternostri, occorre ben altro della furbizia per governare gli Stati.
I luoghi della promozione di un nuovo progetto politico nazionale non sono né possono essere gli attuali partiti politici, ma solo dei comitati civici, costituiti da giovani, da uomini di cultura, del mondo del lavoro non assistito e di testimoni della fede, che sono ormai le uniche risorse economiche e morali di questo paese. E il senso del rinnovamento morale dell’Italia non può non passare attraverso un’abiura, concreta e simbolica, dal passato regime politico e del suo apparato dottrinario che idealmente lo legittimava.
Concretamente, occorre consegnare alla storia istituzionale dell’Italia la frusta Costituzione repubblicana, che non da oggi rappresenta nient’altro che il manifesto ideologico di una stagione emergenziale nata dalla guerra mondiale e che andrebbe superata in ogni campo della vita civile e ideale dei popoli europei.
Simbolicamente, occorre fare il resoconto delle fortune personali della classe politica repubblicana, che a partire degli anni Settanta è andata costituendosi come una oligarchia di privilegiati, dalla vita parallela rispetto a quella degli altri cittadini, che pure col loro voto omertoso l’hanno confermata al potere.
Essendo anche la democrazia parlamentare, come ogni altro regime politico, irreformabile per auto-emendazione, ai fini di una sua rigenerazione morale occorrerebbe una catarsi etica collettiva, che invocasse le responsabilità politica e personale di quanti si fossero indebitamente arricchiti all’ombra delle cariche pubbliche ricoperte, costringendo i colpevoli quanto meno alla restituzione dei beni ignominiosamente acquisiti, e inibendo la loro progenie fino alla terza generazione dall’assumere ogni carica pubblica. Lo si è fatto con gli eredi di casa Savoia, decretandone addirittura l’esilio, e lo si fa tutt’ora con i criminali, confiscando i loro beni; a maggior ragione andrebbe fatto per i ladri di Stato, che da legislatori e da amministratori fedifraghi hanno ipotecato la vita economica delle nuove generazioni di italiani.
Ciò che conta veramente, per la rinascita civile e morale dell’Italia, è una presa di coscienza collettiva sul periodo storico che abbiamo attraversato, anche se non ancora del tutto. Un periodo segnato da una grandiosa rimozione ideologica dei mali spirituali del nostro tempo. Un tempo blasfemo, caratterizzato dal dominio di falsi idoli, creati per legittimare un mondo di pseudo-valori edonistici, giustificati da deboli ma insidiosi sofismi eudemonistici.
Idoli oppiacei, creati e diffusi per distrarre i popoli europei scristianizzati da ogni aspirazione trascendente, da ogni tensione escatologica e da ogni presa d’atto dell’insostenibilità morale di una esistenza priva di sostegni metafisici e di sentimenti religiosi.
La coscienza umana ripiegata sulla storia, una storia ridotta a fenomenologia dei bisogni materiali e del potere di amministrarli, è una coscienza spiritualmente mutilata, senza più il conforto della presenza divina, il cui sentimento univa gli uomini al di là delle ragioni economiche della loro convivenza. L’unità mistica è diventata unione dei consumatori, e tutti i problemi umani ridotti a questioni produttive.
La retorica dei sofisti odierni è una teoria dei consumi. I mezzi di comunicazione non parlano d’altro che di economia, la nuova teologia dei nostri tempi consumistici, chiamata a giustificare le ragioni degli idoli del benessere.
La lingua arida dell’economia parla di un uomo che ha smarrito se stesso e che aspira a riempire il vuoto di sé con beni inutili. Come ogni sapere astratto, l’economia è scienza dei beni inutili: della loro produzione e della loro distribuzione. Essa tratta del lavoro non come di una attività umanizzatrice che nelle cose prodotte riconosce lo spirito umano, ma come di una occasione di benessere materiale, necessaria solo a questo fine, e ammissibile solo se lo consegue.
Non più legato ai limiti antropologici della nostra natura, che fanno delle fatiche umane il completamento di un’opera aperta dal lato dell’esistenza, il lavoro diventa alla luce della scienza economica una attività meramente produttiva di beni, e non di senso. E pertanto mentre la produzione di senso collega il lavoro umano alla sua visione del mondo, la produzione di soli beni materiali collega il lavoro al solo processo del consumo, ossia della distruzione dei beni prodotti, premessa della loro ri-produzione.
Una logica della produzione che è insieme logica della distruzione, è un pensiero irrazionale, un sofisma destinato a confutarsi da sé. Ma poiché questo sofisma è diventato fede e credenza collettiva, la sua sorte trascina i suoi adepti nel baratro della contraddizione, sul cui ciglio appunto ci troviamo.
La soluzione non può consistere nel fermarsi prima dell’ultimo passo fatale, ma di cambiare rotta, e cioè uscire dalla caverna delle illusioni. Ammettere di aver perso la rotta e affidarsi alla saggezza dell’economia dello spirito, quello della santità, è l’altro modo umano di coltivare la ricchezza del mondo.
La santità è un modello tutt’altro che democratico, non essendo la sua elezione un suffragio esclusivamente umano, e come tale reversibile. Essa si caratterizza per l’estrema rinuncia ai beni del mondo, e perciò il suo valore pedagogico è altissimo in campo economico. Rinunciare ai beni del mondo significa nobilitare di dignità la povertà, e quindi non disprezzare i poveri costringendoli a inseguire ciò che non hanno, ma a rivalutare la loro vita per il bene che da essa può nascere. Quando il bene nasce dalla povertà, i poveri smettono di vergognarsi davanti ai ricchi; smettono di odiarli e di invidiarli, di volerli e di volersi uguali a loro.

Il mito dell’uguaglianza universale è ciò che assegna all’economia la dignità di scienza teologica, che fa della sua logica astratta e contraddittoria il supremo sapere del nostro tempo. Ed è lo stesso mito egalitario a stabilire il primato ideologico della democrazia, che assegna alle masse il loro destino, di cui esse vogliono disfarsi, mettendolo nelle mani dei loro rappresentanti politici. Anche la sovranità popolare segue lo stesso percorso cieco della ricchezza economica: la si vuole solo per disfarsene. Questi i segni del tempo, da cui partire per ripensare una vita umana fuori dall’ombra claustrale dei frusti miti correnti.   

Costantino Marco 

Nessun commento:

Posta un commento