sabato 25 giugno 2016

Il 1916 sul fronte italiano: La vittoriosa difesa sugli Altipiani e la conquista di Gorizia (di Paolo Pasqualucci)


Sommario:  1. La falsificazione del Ricordo.  2. La Grande Guerra l’abbiamo vinta, scusateci se ci siamo permessi.  3.  La Battaglia degli Altipiani, fallita “Spedizione punitiva”.  4.  La conquista di Gorizia.

Il centenario della Grande Guerra, che fu la nostra IV Guerra d’Indipendenza, grazie alla quale riuscimmo, con il doloroso ed eroico sacrificio di un’intera generazione, a completare l’unità territoriale della Nazione contro il nostro plurisecolare  nemico asburgico, è stato finora ricordato in modo a dir poco inadeguato per non dire deformato se non addirittura vergognoso.   Nell’atmosfera da fine di una civiltà oggi  sempre più diffusa - fine nelle corruttele più sfrenate e nella vacuità spirituale più completa - il pacifismo gaglioffo dominante (quello amico di tutti i vizi) non poteva che ricordare il centenario della nostra partecipazione a quella guerra con la pappa del cuore delle litanie sui “morti invano”, sull’“inutile massacro”, sul “dolore”, sulla “compassione” per il gran numero di feriti e mutilati - insomma con dolciastre e “politicamente corrette” lacrime sulle sofferenze prodotte da quella tremenda guerra; lacrime ipocrite poiché l’individuo che professa il “politicamente corretto” è di un egocentrismo assoluto, pensa solo e sempre a se stesso, ai suoi diritti, ai suoi desideri.

1. La falsificazione del Ricordo

Non si vuole più credere allo Stato né alla nazione e nemmeno al popolo, come valori che esprimono realtà spirituali, sociali, storiche per le quali occorre anche combattere e morire, esaltando al loro posto l’individuo senza patria e senza religione del “villaggio globale”, cui si vogliono attribuire tutti i diritti e nessun dovere, a cominciare dal chimerico “diritto alla felicità” – felicità, ovviamente, materiale, da conseguirsi nel miglior modo possibile in questo mondo, alla svelta e ad libitum.   Come si poteva celebrare degnamente una guerra condotta, da tanti giovani che vi dovettero partecipare, all’insegna della “religione della Patria” e dei conseguenti ideali di riscatto morale, sacrificio, disciplina, dovere, onore, virtù militari?  Tutte cose perfettamente sconosciute nell’epoca della “civiltà elettronica”.  Bisognava concentrarsi solo sugli aspetti negativi:  l’ottusità e l’insensibilità di certi generali e ufficiali; la durezza della vita nelle trincee; le numerose morti per malattia o in prigionia; le sofferenze dei civili; lo squallore delle retrovie; le deficienze, anche gravi, della nostra organizzazione militare;  le episodiche ribellioni; gli imboscati…
 La falsificazione del significato si fonda anche sull’ignoranza.  Ignoranza dei fatti storici, essendo notoriamente la storia una delle discipline più bistrattate dall’odierna incoltura.  Et pour cause, dato che l’ edonismo dominante, nel suo radicale nichilismo, deve far piazza pulita anche della vera cultura e in primo luogo dell’esatta conoscenza della storia:  conoscenza spesso scomoda, che ci impedisce di adagiarci in un presente senza tempo, come se fossimo figli di nessuno e autorizzati a vivere come tanti Robinson Crusoe.
Un filosofo tedesco contemporaneo, il discusso prof. Peter Sloterdijk, noto per una sua Critica della ragion cinica (1983), alcuni anni fa ha sostenuto, in un discorso polemico sulla “riconciliazione franco-tedesca”, che l’Italia era un caso classico di cattiva coscienza nei confronti del proprio passato perché aveva voluto tramutare una guerra persa in una falsa vittoria:  infatti per noi la I g.m. era finita con la sconfitta di Caporetto[1]. L’armistizio ci avrebbe trovati sul Piave e sul Grappa, ancora a leccarci le ferite ben nascosti dietro le divisioni francesi e britanniche inviate a soccorrerci?  Il suddetto filosofo non deve esser molto ferrato nelle Istorie. E non è il solo, visto che anche a livello di istruzione superiore, c’è chi ritiene oggi, in Italia, che la Grande Guerra noi l’abbiamo persa a Caporetto!  Lì sarebbe malamente finita per noi la brutta avventura![2]
Si tratta di una bugia colossale, nella quale, per quanto riguarda noi italiani, sguazzano due subculture:  quella variegata della sinistra vulgar-marxista, radicaloide, femminista, cattolica e  pacifista, antiitaliana per amore della rivoluzione e dell’umanità nuova da costruire, del “dialogo” e delle “aperture”; e quella, forse meno variegata, del c.d. “tradizionalismo”: ultramontano, austriacante e neoborbonico, antiitaliano in nome di un’idea di “tradizione” rimasta ferma alla (pseudo) Donazione di Costantino e al Sacro Romano Impero.  Questo “tradizionalismo”, saltabeccante tra Filippo il Bello e Bonifazio VIII, Julius Evola e il Principe di Canosa, sta vivendo il suo quarto d’ora di celebrità da quando sono esplose le autonomie e le Leghe, insomma  da quando sembra esser rinato in modo virulento il  particolarismo italico di antica, infausta e comunale memoria, fattosi ora araldo entusiasta di una “Europa delle regioni”, che qualcuno spera si trasformi domani o dopodomani in una messianica riedizione dell’Impero.

2.  La Grande Guerra l’abbiamo vinta, scusateci se ci siamo permessi

 Lo sfondamento di Caporetto (24 ottobre 1917), tra Plezzo e Tolmino, nei monti dell’alto Isonzo, dovuto soprattutto agli errori dei nostri comandi dimostratisi impreparati (per vari motivi) di fronte alla nuova tattica del nemico basata sull’infiltrazione, invece che sul consueto, sanguinoso e spesso sterile assalto frontale, ci costrinse a far arretrare di colpo tutto il fronte, schierato in un lungo semicerchio alcuni km al di là dell’Isonzo, appunto da Tolmino sino al mare.  Altrimenti, gli austrotedeschi, scendendo rapidamente lungo il corso del fiume, avrebbero chiuso le nostre forze in una gigantesca sacca.  Cominciò così la ritirata, alla quale si mescolarono mezzo milione di friulani in fuga, contribuendo enormemente ad un caos che  si estese sino alle retrovie, costituite (negli eserciti di allora) da centinaia di migliaia di uomini.  La III armata, schierata da Tolmino al mare poté  tuttavia ritirarsi in buon ordine, lasciando al nemico solo l’artiglieria pesante.  Giunta sul Piave, ricostituì la linea assieme ai resti della II, quella del generale Capello, travolta dall’offensiva nemica, e a quella più piccola (la IV) scesa dal Cadore in relativamente buono stato.  Con circa 35 divisioni ancora in grado di combattere sostenemmo con successo la c.d. “battaglia d’arresto” contro circa 50 divisioni austrotedesche, usurate dall’avanzata ma col morale alle stelle e decise a chiudere la partita; battaglia difensiva durissima e decisiva che durò  un mese e mezzo, dagli Altipiani al Grappa al Piave, dal 10 al 26 novembre e dal 4 al 25 dicembre, vinta con le nostre sole forze, con l’apporto dei “ragazzi del ‘99”, non con l’aiuto di francesi ed inglesi, che comunque costituirono alle nostre spalle una fondamentale riserva strategica: 5 divisioni francesi e 6 inglesi, giunte in tutta fretta e poi ridottesi rapidamente a 5 (2 francesi e 3 inglesi).  I nostri alleati entrarono in linea quando avevamo già stabilizzato il fronte da soli[3].
Dopo questa battaglia, ci fu quella detta del Solstizio, nel giugno del 1918, con la quale l’Austria-Ungheria cercò la vittoria finale e decisiva sul nostro fronte.  La sua poderosa offensiva, nonostante un buon successo iniziale, fallì completamente di fronte alla nostra tenace resistenza e da quel momento il suo esercito cominciò a disgregarsi, mentre aumentava la crisi del fronte interno.  Ad un nemico indebolito, con l’impero che si stava dissolvendo, per il crollo della Bulgaria e l’avanzata verso l’Ungheria degli Alleati (l’Armata d’Oriente, nella quale combatteva anche  una  forte divisione italiana,  di circa 45.000 uomini), il Regio Esercito (51 divisioni) e le cinque divisioni dei nostri alleati, più una cecoslovacca e un reggimento americano, diedero poi il colpo di grazia con la battaglia di Vittorio Veneto, esattamente un anno dopo Caporetto, battaglia che durò  cinque giorni.
Questi sono i fatti.  Oggi, nel clima antipatriottico dominante, non si vogliono ricordare e comunque, se ricordati, dispiacciono ai molti che  coltivano la denigrazione del proprio Paese come sport preferito. E dispiacciono sicuramente a tutti quei “tradizionalisti” italiani che quest’anno celebrano la morte di Francesco Giuseppe, penultimo imperatore austro-ungarico, spentosi appunto un secolo fa, in piena guerra; una guerra provocata soprattutto dagli incredibili errori dei suoi ministri e dei loro colleghi tedeschi, che non seppero contenere la crisi balcanica del 1914 nei suoi limiti regionali.  Questi “tradizionalisti” rimpiangono evidentemente il bel tempo antico quando l’Italia era divisa in Stati e staterelli inani e disarmati, pellagrosi e malarici, e le guarnigioni dell’esercito del defunto imperatore, oltre al Lombardo-Veneto, puntellavano principati, ducati, granducati consumati dalle tarme nonché l’ormai decrepito Dominio Temporale delle Sante Chiavi, impervio ad ogni riforma costituzionale, come dimostrato dal fallimento dell’ultimo e più radicale tentativo, quello di Pio IX nel periodo 1846-1848.  Un nemico acclarato dell’Italia, Sua Maestà “imperiale e apostolica”.  Dopo la perdita del Veneto, avvenuta nel 1866, il suo governo emanò su sue istruzioni “misure contro l’elemento italiano in alcune regioni della Corona”, volte a favorire la penetrazione tedesca e slava nelle stesse[4].

3. La Battaglia degli Altipiani, fallita “Spedizione punitiva”

Si iniziò il 15 maggio e durò circa un mese, raggiungendo il culmine nei primi diciotto giorni (15 maggio – 3 giugno).  Sulla carta, il piano austroungarico era semplice e nello stesso tempo “napoleonico”: sfondare le nostre linee difensive muovendo a sorpresa dagli impervi Altipiani (Asiago, Sette Comuni), lanciarsi a freccia giù per le vallate, sboccare in pianura “tra l’Adige e il Brenta” e prendere da tergo il nostro esercito, schierato quasi tutto tra Belluno e l’Isonzo, per annientarlo in una grandiosa Battaglia di Vicenza.  Il maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, che aveva approvato il piano, comandante in capo dell’Imperial Regio Esercito, aveva chiesto 8 divisioni ai tedeschi, 4 delle quali da impiegare direttamente nell’offensiva.  Gli furono rifiutate, anche perché la Germania non era in guerra con l’Italia (le avremmo dichiarato guerra il 27 agosto successivo, sempre più premuti in tal senso dai nostri alleati). I tedeschi non credevano alla riuscita di un’offensiva di quel genere e non volevano distogliere forze dal fronte di Verdun, dove imperversava dal 21 febbraio di quell’anno un’offensiva che, ad intervalli, sarebbe durata senza nulla concludere sino a dicembre[5]. Pur scettico sulle prime, Luigi Cadorna, comandante supremo italiano, di fronte alle ripetute informazioni sull’imminente, grande offensiva,  cominciò tuttavia a radunare una forte armata allo sbocco delle valli, traendola via via dal fronte isontino, lasciato audacemente indebolito, dall’interno del paese, dal corpo di spedizione in Albania.  Da questa armata Cadorna inviava poi le divisioni che mandava in successione  a sorreggere le difese sugli Altipiani.   Non all’altezza fu invece il comando italiano sugli Altipiani, che non provvide ad un tempestivo schieramento difensivo in profondità, pur ordinato da Cadorna.  Così il nemico, realizzata la necessaria superiorità locale, soprattutto in artiglierie, attaccò con 14 divisioni scelte (tolte in parte dalla Galizia, regione a Est dei Carpazi, e dall’Isonzo) penetrando a cuneo per una profondità di ben 20-25 km nel nostro dispositivo e raggiungendo, dopo duri combattimenti, l’ultima nostra linea difensiva prima della pianura, dove fu fermato.  Fallito l’obiettivo strategico dello sbocco in pianura, mentre si stava profilando il contrattacco italiano, si ritirò con abile manovra di circa 10-12 km, sgombrando Arsiero e Asiago distrutte, attestandosi su posizioni difensive forti e sempre potenzialmente pericolose per noi, tenute praticamente sino alla fine della guerra.  Da esse l’Imperial-Regio mosse all’attacco due volte, durante la “battaglia d’arresto” seguíta alla nostra ritirata dall’Isonzo e durante la battaglia del Solstizio, ma fu sempre di nuovo fermato dai nostri e anche respinto.    
Si disse e lo si ripete ancor oggi, specialmente da parte di studiosi stranieri, che gli italiani furono salvati dai russi, dall’offensiva scatenata il 4 giugno dal generale Brussilov in Galizia, che aveva sfondato ampiamente il fronte austro-ungarico già dopo due giorni di combattimenti, provocando il pronto richiamo di diverse unità austriache dalla battaglia degli Altipiani e l’interruzione dell’offensiva.  Ma un imparziale studio delle date e delle testimonianze, come scrisse il generale Faldella, dimostra che l’argomento è del tutto fallace. Naturalmente, Cadorna si aspettava un’offensiva russa di alleggerimento, questo tipo di aiuto fu attuato diverse volte tra gli alleati dell’Intesa (ne facemmo anche noi).  Ma quando Brussilov si mosse, secondo un piano già approntato dal marzo precedente con l’accordo dei suoi alleati, l’offensiva austro-ungarica si stava già arenando.
Nelle sue memorie, il generale Erich von Falkenhayn, il Capo di Stato Maggiore tedesco che aveva negato a Conrad le 8 divisioni, scrisse:  “Nei primi giorni di giugno e, invero, prima che si iniziassero gli avvenimenti nella metà meridionale della fronte orientale [l’offensiva di Brussilov] fu evidente che non si poteva procedere nell’attacco [sul fronte degli Altipiani] né era possibile mantenersi nella posizione a cuneo da esso raggiunta”[6].  
Spiega il generale Faldella:  “Gli attacchi austro-ungarici furono continuati fino al 17 giugno.  La prima conseguenza che la sconfitta sul fronte orientale [Brussilov attaccò il 4, come si è detto] avrebbe dovuto avere, sarebbe stato, logicamente, il ritiro delle divisioni dalla fronte italiana.  Invece fino al 20 giugno il numero delle divioni impiegate tra Val Lagarina e Val Brenta rimase inalterato poiché il 9 fu inviata verso oriente la 61a divisione che stava arrivando allora dalla fronte Giulia e il 13 giugno fu ordinata la partenza per la Galizia della 48a divisione, che però era stata sostituita dalla 9a divisione.  Soltanto dopo il 20 giugno e cioè dopo che era stato ordinato di cessare l’offensiva e di ritirarsi sulla linea arretrata di difesa, furono inviate in Galizia altre due divisioni.  L’opinione che l’offensiva austro-ungarica fosse già fallita quando Brussilov attaccò è sostenuta anche da storici austriaci, come l’italofobo Pichler, capo di Stato Maggiore della 11a armata [una delle due che partecipò all’offensiva]…”[7].

L’offensiva imperial-regia, dopo l’inizio folgorante grazie alla superiorità numerica e nell’artiglieria, che letteralmente spianò le nostre deboli linee avanzate,  non era riuscita a conquistare Passo Buole (le Termopili d’Italia, come si disse), Coni Zugna e il Pasubio, pilastri della nostra difesa e si incartò, dall’altra parte degli Altipiani, sul Cengio, ultimo baluardo prima della pianura. Il nemico ne conquistò gran parte, anche per un errore tattico di un nostro generale, ma poi vi si fermò, il 3 giugno, attardandosi a ripulirne i boschi dai nostri che vi continuavano a combattere.
“Con il trascorrere dei giorni si addivenne non soltanto ad un equilibrio numerico delle forze, ma al conseguimento di un sensibile e crescente vantaggio da parte italiana per la progressiva immissione nella battaglia, a partire dal 3 giugno, di unità prelevate dalla 5a armata, frattanto radunatasi nella pianura veneta.  Il serbatoio umano e di armi costituito da questa grande unità [10 divisioni di fanteria, 2 di cavalleria per 179.410 uomini e 15.690 quadrupedi, riunita con un eccezionale e rapido sforzo logistico] non consente dubbi ragionevoli sul fatto che, si fosse o meno verificata l’offensiva del gen. Brussilov sul fronte orientale, ed anche se avesse trovato impiego la 61a divisione frattanto giunta nella zona di Trento, la partita si era praticamente conclusa con il mancato sfruttamento del successo conseguito con l’occupazione del nodo di M. Cengio verificatosi ai primi di giugno”[8].
E anche se fosse riuscito a scendere in pianura, l’Imperial Regio avrebbe trovato ad attenderlo non il vuoto ma diverse e robuste divisioni italiane. 

La propaganda austriaca proclamò esser questa Campagna del Tirolo una “Spedizione punitiva” (Strafexpedition) per il nostro “tradimento” della Triplice Alleanza. Il Trentino era per gli austriaci il Tirolo del Sud italiano.  L’accusa era ingiusta.  Tutti sapevano che l’alleanza nostra con l’Austria era sempre stata apparente, minata da contrasti e diffidenze continui, da interessi nazionali inconciliabili.  Proprio il maresciallo  Conrad per due volte aveva tentato di imporre la sua idea di un attacco preventivo contro di noi (allora suoi alleati), la seconda volta (nel 1908, al tempo del terremoto di Messina) con l’interessamento di elementi dello Stato Maggiore dell’Esercito Svizzero, aspirante alla conquista della Valtellina.  Gli austriaci ci avevano tenuto volutamente all’oscuro del demenziale loro ultimatum del 23 luglio 1914 alla Serbia, mettendoci di fronte al fatto compiuto.  Erano coperti dai  tedeschi, i quali si erano rifiutati (il 28 luglio) di partecipare con noi ad una conferenza di pace delle Potenze europee proposta in tutta fretta dalla Gran Bretagna il 24 luglio, per scongiurare la guerra imminente, dichiarata da Vienna alla Serbia lo stesso 28 luglio.  Eravamo usciti il 4 maggio del 1915 dall’Alleanza (di fatto già morta nell’agosto del ’14), dichiarando guerra ben tre settimane dopo alla sola Austria-Ungheria il 23 e varcando il confine il 24.  Austriaci e tedeschi erano da tempo preparati all’evento, che soprattutto i tedeschi avevano cercato di scongiurare premendo invano sugli austriaci affinché ci facessero qualche concessione territoriale per comprare la nostra neutralità, concessione da riprendersi poi a vittoria finale ottenuta. Gli austriaci non ci prendevano sul serio, disprezzandoci in quanto “nazione militarmente debole e codarda”, come disse il conte Tisza, ministro ungherese, cui bastava fare la faccia feroce per tenerla a bada[9]. Vienna ci fece alla fine offerte apparentemente generose ma l’11 maggio del ’15, sapendo che non potevamo accettarle perché ci eravamo già impegnati il 26 aprile precedente con gli Alleati a Londra ad entrare in guerra entro un mese (la notizia era stata diffusa dai francesi e da parte della stampa internazionale, oltre ad esser nota per le vie interne dello spionaggio militare).  

4.  La conquista di Gorizia.

La presa di Gorizia fu diretta conseguenza dell’esito positivo per noi della Battaglia degli Altipiani.  L’esercito i.r. aveva assottigliato il suo schieramento sull’Isonzo al fine di costituire le due armate (11a e 3a – Gruppo di Armate Arciduca Eugenio) che avevano attaccato sugli Altipiani.  In Galizia, la falla fu tamponata con l’invio e il ritorno di alcune divisioni i.r. e soprattutto grazie all’intervento dei tedeschi.  Approfittando del difficile momento del nemico, che si trovava sbilanciato tra fronte italiano e dell’Europa Orientale, con il punto più sguarnito nel basso Isonzo, il generale Cadorna, manovrando con sorprendente velocità per linee interne, ricondusse le sue divisioni dalla pianura veneta al fronte isontino, investendo di sorpresa con una grande offensiva il Campo trincerato di Gorizia.  Si ebbe così la Sesta Battaglia dell’Isonzo.  La ridente cittadina giuliana, subito al di là dell’Isonzo, era al centro di un munito “campo trincerato” che “constava di due parti fondamentali: la linea avanzata sulla destra dell’Isonzo (testa di ponte), appoggiata ai due caposaldi del  Sabotino e del San Michele; e quella arretrata, dietro l’Isonzo, saldata, da un lato, al Monte Santo e al San Gabriele, e dall’altro all’Hermada [che bloccava la via per Trieste].  Insomma, la difesa austriaca sul basso Isonzo s’appoggiava a quattro pilastri, due anteriori e due posteriori”[10].   
La “linea arretrata”, da 3 a 5 km a est di Gorizia, era già predisposta da tempo e assai solida.  Il Regio Esercito godeva di una netta superiorità numerica e, forse per la prima volta, di un buon numero di artiglierie, il cui tiro fu anche diretto in modo migliore che in passato.  L’attacco italiano fu portato con grande slancio iniziale, dal 6 al 9 agosto, per esaurirsi gradualmente contro la “linea arretrata”, il 17 successivo.  Furono conquistati il Sabotino e il San Michele, e l’8 agosto Gorizia.  Le perdite furono ingenti, soprattutto contro la “linea arretrata”.  Nei primi giorni della battaglia, sembrò addirittura che si potesse produrre uno sfondamento decisivo del fronte nemico.  Ma così non fu. 
Secondo Piero Pieri ci fu un errore di impostazione, nel senso che l’attacco, invece di avere un obiettivo principale e uno secondario, ne ebbe due entrambi principali, cosa che produsse una dispersione delle forze (e la necessità della pausa di un giorno) che impedì di incalzare subito il nemico che si ritirava sulla seconda linea, impedendogli di consolidarvisi.
“L’azione offensiva, attuata con forze ridotte, doveva svolgersi contro la testa di ponte austriaca, accompagnata da un’azione vincolatrice sul Carso, contro il San Michele; e si risolse invece in due attacchi d’uguale intensità.  Entrambi erano alla fine coronati dal successo, grazie ai criteri più razionali, al maggiore impiego d’artiglieria, e alla sorpresa, ma senza l’azione fulminea e travolgente e senza l’adeguato sostegno di riserve fresche, che avrebbe consentito una vera rottura e il tempestivo sfruttamento di questa, con una penetrazione di parecchi km entro la valle del Vipacco, la quale avrebbe potuto porre in grave crisi tutto lo schieramento austriaco sull’Isonzo.  Non solo, ma la battaglia, degenerata in un tremendo logorio di forze, portava le nostre nuove linee a ridosso di posizioni ancora più forti di quelle austriache del Sabotino e del San Michele, su una fronte più estesa e da fortificare ex novo”[11].
Nonostante il mancato risultato strategico di vasto respiro e le gravi perdite, il successo fu innegabile.  Il nemico aveva perduto “una testa di ponte formidabile, costituente un minaccioso sbocco offensivo verso la pianura friulana”.  Pertanto, migliorò notevolmente tutta la nostra situazione difensiva sul basso Isonzo[12].   Ci furono poi i benefici morali dell’impresa, da Pieri così riassunti:
“Per la prima volta, dopo quindici secoli di storia, un esercito tutto italiano sconfiggeva in una grande battaglia un esercito straniero; e per la prima volta  dopo più di tredici mesi di guerra nostra, e dopo ventiquattro di guerra mondiale, si cominciò a condurre la guerra secondo i dettami della sanguinosa esperienza.  Il morale della nazione e dell’esercito ne uscí sollevato, la vittoria ebbe larga eco in tutto il mondo; e, quale conseguenza diretta o indiretta, in quello stesso agosto una bella divisione italiana sbarcava a Salonicco, il governo italiano dichiarava finalmente guerra alla Germania, la Romania dopo tante incertezze entrava in guerra a fianco dell’Intesa”[13].
In effetti, la presa di Gorizia fu l’unica vittoria offensiva dell’Intesa nel 1916.  Più importante, nel quadro strategico generale fu la vittoria difensiva  dei francesi nella tremenda battaglia d’attrito di Verdun e quella nostra parimenti difensiva nella Battaglia degli Altipiani.  Quella conquista ebbe comunque notevole risonanza, sul piano psicologico e propagandistico, anche perché la massiccia offensiva britannica sulla Somme aveva guadagnato, in quell’estate terribile, solo pochi km di terreno, perdendo nel nefasto giorno d’inizio (il 1° luglio), oltre 57.000 uomini, ben 19.000 dei quali caduti[14].
L’entusiasmo per la presa di Gorizia, successiva alla vittoriosa difesa contro Conrad sugli Altipiani, fu immortalato nei versi, al tempo assai celebri, del poeta  toscano, volontario di guerra, Vittorio Locchi, scomparso poi a 28 anni il 15 febbraio 1917 in Egeo con l’affondamento della nave che trasportava parte del  suo reggimento in Macedonia.  Poeta popolare, toscaneggiante, il Locchi, in molta sua produzione, ma non privo della capacità di immagini suggestive e potenti.  Contro i gufi dell’antiitalia e gli ipocriti del “politicamente corretto”, voglio chiudere questo ricordo del 1916 sul fronte della nostra guerra con alcuni versi de La Sagra di Santa Gorizia:

Era tutto un arcobaleno
la cupola d’aria del Carso.
Brillavano le petraie
come ossami calcinati,
Lontano l’Alpi Giulie
parevano domi incantati.
….
E se il Calvario
non fioriva, se non fioriva
il Carso, sempre in tormento
sotto la furia dei colpi,
ci fiorivano tutti i cuori
seminati dalla speranza.
Si diceva: “Si va:
Questa volta si va davvero!
Salteremo l’Isonzo
come caprioli;
chi ci terrà
quando sarà l’ora?
Tutti vogliamo esser primi
a baciare il manto celeste
di Santa Gorizia…
Notte del 7 agosto
chi ti dimenticherà?
Che numero aveva il reggimento
fra cui passai nella notte
balenante, lungo la strada
bianca di Gorizia?
E venne l’ordine di avanzare.
L’ombre nere si levarono
dai lati della strada,
i lampi illuminarono
la selva dei fucili;
e il reggimento si sparse
pei campi come un volo
d’uccelli
verso l’aurora.

Paolo  Pasqualucci




[1] Dal Corriere della Sera del 31 dicembre 2008:  “Si è parlato all’epoca di vittoria mutilata, ma la prova dell’Italia è stata una sconfitta travestita da vittoria”.  A causa di questa falsa coscienza, di questa menzogna, si è giunti alla “tragedia del fascismo”, sempre secondo lo Sloterdijk. Già:  avremmo dovuto perdere per davvero, così non ci sarebbe stato il fascismo, Male Assoluto!
[2] “Aneddoto di poche settimane fa.  Un dottorando di laurea magistrale (quinto anno di scienze politiche) menzionò in sede di esame la sconfitta dell’Italia nella I g.m. ‘Lei si riferisce alla vittoria mutilata’?, gli chiese il professore che lo interrogava.  ‘Ma no, a Caporetto, che ci ha messo fuori combattimento!’, rispose lo studente, il quale ignorava che Caporetto fu una grave sconfitta, ma non l’unica né la più grave subíta dagli eserciti alleati nella Grande Guerra e che non determinò lo sbandamento e l’uscita dal conflitto dell’Italia”(Maurizio Serra, L’idea sbagliata della nazione “sbagliata”, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, 2009, XIII, 3, pp. 5-10; p. 6). 
[3] La cosa fu onestamente riconosciuta dal generale tedesco Krafft von Dellmensingen, autore del geniale piano che portò allo sfondamento di Caporetto, e dalla Relazione Ufficiale austriaca, la quale scrisse che il Regio Esercito, “se pur sostenuto moralmente dalla prospettiva di aiuti alleati, trovò in se stesso la forza di imporre l’alt agli eserciti avversari.  E così poté verificarsi il fatto che un esercito presunto in dissoluzione divenisse di nuovo, nel volgere di poche settimane, un avversario da tenersi in conto, che si mostrò determinato a non considerare assolutamente come perduta la partita” (citato da Pier Paolo Cervone, Vittorio Veneto, l’ultima battaglia, Mursia, Milano, 1994, pp. 77-78, corsivo mio).  Non male per un esercito che avrebbe visto finire ingloriosamente la sua guerra con la disfatta di Caporetto.  I reparti alleati entrarono in linea solo il 4 dicembre ma combatterono solo il 30 dicembre (riconquista francese di un tratto della dorsale del monte Tomba), ad offensiva nemica praticamente esaurita, perché il nemico non attaccò nei loro settori (Emilio Faldella, La Grande Guerra, vol. II:  Da Caporetto al Piave, Longanesi, Milano, 1965, pp. 284-285).  
[4] Il verbale del Consiglio dei ministri dedicato a questo argomento, tenutosi a Vienna il 12 novembre 1866,  è citato da Mario Toscano, Il negoziato di Londra del 1915, in ‘Nuova Antologia’, nov. 1967, p. 318.  Ricordo che durante il regno del “cattolicissimo” Francesco Giuseppe avevano ripreso lena e si erano potenziate le tendenze “giuseppine” ossia liberali e anticlericali:  si ebbero l’introduzione del matrimonio civile e di tribunali civili per la discussione delle relative cause; di un diritto di famiglia piuttosto ugualitario che, dal punto di vista patrimoniale, trasformava il marito in una sorta di tutore della moglie e dei figli;  misure che implicavano l’equiparazione dei culti;  la sottrazione al clero del monopolio dell’istruzione, tranne che per l’insegnamento religioso.  Disdegnando il dogma dell’infallibilità pontificia proclamato dal Concilio Vaticano I, l’imperatore aveva rimesso in discussione il Concordato del 1855. Pio IX protestò inutilmente contro le leggi e le misure anticlericali.   
[5] La richiesta di truppe tedesche da parte di Conrad si basava anche sul fatto che, pur non essendo in guerra con noi, i tedeschi (violando il diritto internazionale)  avevano mandato nel 1915 il Corpo Alpino Bavarese (30.000 uomini) a sostenere per alcuni mesi i territoriali austriaci che difendevano il Trentino dai nostri non insistiti attacchi e impiegavano loro sottomarini (all’occorrenza con bandiera imperial-regia) contro il nostro traffico mercantile in Adriatico e nel Mediterraneo.  Furono anche catturati prigionieri tedeschi ma il nostro governo fece finta di nulla, cosa che irritò profondamente i nostri alleati. Sul punto: Saggio introduttivo di Gianni Pieropan a Schneller, 1916. Mancò un soffio, cit., pp. 22-27 et passim.  
[6] Emilio Faldella, La Grande Guerra, Longanesi, 1965, vol. I, p. 208, per la citazione. 
[7] Op. cit., pp. 211-212.  L’offensiva russa impedì che la 61a divisione i.r. accorresse sugli Altipiani, quando l’offensiva stava vivendo gli ultimi sussulti.  Si sarebbe comunque trattato di un aiuto del tutto insufficiente a sfondare, di fronte al numero in progressivo aumento delle divisioni italiane.  Su questa battaglia, fondamentale:  Karl Schneller, 1916.  Mancò un soffio.  Diario inedito della Strafexpedition dal Pasubio all’Altopiano dei 7 Comuni, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Pieropan, traduz. dal tedesco di Giorgio Pasetto, Arcana Editrice, Milano, 1984. Il tenente colonnello austriaco Karl Schneller fu l’autore del piano operativo dell’attacco.  All’ottima introduzione del Pieropan, il testo aggiunge numerosi brani tratti da diari e lettere di parte austriaca, tedesca, italiana.  Un’idea assai valida della battaglia, sotto forma di diario-racconto, la dà anche il famoso:  Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (Einaudi, 1945, 1970 ma scritto nel 1936-1937), al tempo valoroso ufficiale volontario della Brigata Sassari, aspramente impegnata nella lotta.    
[8] Schneller, 1916.  Mancò un soffio, cit., dal commento di Giani Pieropan, nella sezione “Elencazione ed analisi degli schieramenti”, pp. 397-410; p. 406.  Ci furono ancora violenti attacchi  il 7, il 12-13 e il 15-16 di giugno, ma si trattava ormai di colpi di coda isolati.  Il molto citato, storico americano John  R. Schindler, Isonzo.  Il massacro dimenticato della Grande Guerra, tr. it. di Alessandra Di Poi, Libreria Editrice Goriziana, 2002, dedica un’analisi breve e superficiale alla battaglia, per concludere ripetendo la ben nota falsa vulgata:  “L’Italia quindi aveva respinto quello che per Conrad avrebbe dovuto essere un colpo fatale.  In verità l’Italia si era salvata grazie alla sorprendente vittoria russa all’est, che ebbe anche la conseguenza di stroncare l’offensiva tirolese a metà del suo corso” (op. cit., p. 231).   Come ha ricordato qualcuno, lo sfondamento iniziale di Brussilov fu reso possibile anche dal fatto che Conrad aveva ritirato quattro fra le sue migliori divisioni dal fronte orientale proprio per impiegarle contro di noi nel Trentino.   
[9] Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915.  Come l’Italia decide la sua guerra, Il Mulino, 20092, p. 95. 
[10] Piero Pieri, L’Italia nella Prima Guerra Mondiale [1915-1918], Einaudi, Torino, 1965, pp.  111-112.
[11] Pieri, op. cit., p. 116.
[12] Op. cit., pp. 116-117.
[13] Op. cit., p. 117.  L’entrata in guerra della Romania fu dovuta assai più alle vittorie russe in Galizia che alla conquista di Gorizia, che potrà comunque aver pesato anch’essa.  La dichiarazione di guerra alla Germania non era ulteriormente procrastinabile, di fronte alle ripetute pressioni dei nostri alleati e delle loro opinioni pubbliche, soprattutto di quella inglese, con la stampa che cominciava a trattarci da infidi e traditori.  È interessante notare che, in un recente libro di uno storico inglese sulla nostra guerra, ancora poco conosciuta dal pubblico straniero,  la frase di Pieri sulla grande vittoria tutta italiana dopo tanti secoli contro un poderoso esercito straniero, viene riportata come se il Pieri l’avesse riferita alla Battaglia di Vittorio Veneto e non a quella di Gorizia [!], trasformandola così in un esercizio di vuota e scorretta retorica, dato che a Vittorio Veneto un ruolo importante fu svolto dal Corpo britannico ivi impegnato in un’armata mista italo-inglese, comandata da Lord Cavan (cfr. :  Mark Thompson, The White War. Life and Death on the Italian Front. 1915-1918, Faber & Faber, 2008, p. 365).  Il libro del Thompson è scritto secondo l’impostazione “politicamente corretta” attuale, che non comprende affatto (ed anzi disprezza) le nostre esigenze di unità e sicurezza nazionali, tutta intenta a dimostrare i suoi pregiudizi ideologici: l’asserita inutilità della terribile prova ed inoltre il carattere particolarmente nefasto di una guerra supposta progenitrice del fascismo.  Questi storici leggono la nostra guerra alla luce del posteriore avvento del fascismo, per loro forma del Male Assoluto, il che è estremamente scorretto, soprattutto sul piano storico.  Su Vittorio Veneto, scrive invece il Pieri:  “Così l’Italia terminava l’ardua prova con una grande vittoria.  Vittoria certamente agevolata dalla disgregazione crescente dell’esercito austro-ungarico; ma questa era pur sempre il risultato di tutta la tremenda lotta continuata con mirabile tenacia per tre anni e mezzo…”(Pieri, op. cit., p. 198).
[14] La Battaglia della Somme, della quale si celebra parimenti il centenario, soprattutto in ambito anglosassone, durò dall’1 al 20 luglio e dal 12 al 20 settembre, portando alla conquista finale di 12 km di terreno, guadagno strategicamente ininfluente, minimo in proporzione allo sforzo immane e sanguinoso prodotto (in modo simile a quasi tutte le nostre Battaglie dell’Isonzo).   

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