Annalisa Terranova, è
una giornalista professionista del Secolo d’Italia, che proviene dal Fronte della Gioventù,
l’organizzazione giovanile che negli
anni 70-80 emulò, ma con una propria
sbalorditiva capacità innovativa, l’attività propositiva manifestata dalla
gioventù della Fiamma Tricolore che dagli anni 50 del secolo scorso tenne testa
alla protervia culturale e politica dell’arco antifascista. I giovani
neofascisti di allora riuscirono a penetrare
profondamente nelle leve
giovanili delle scuole medie e di molte università italiane, fino al 1968, con una loro
indipendenza politica non sempre apprezzata
dalla classe adulta del Msi e
che meritò loro la nomea d’ essere i “Giamburrasca del Msi”
di quell’epoca”, come racconta il ricercatore storico Antonio Carioti (autore
della prefazione del nuovo libro della Terranova, del quale parleremo
appresso).
Annalisa Terranova non è
però solo una giornalista brillante,
dotata di perspicacia nel cogliere il senso profondo della notizia, provvista
di una solida cultura che le permette di inquadrare gli avvenimenti nel loro
contesto diacronico; ella ha dimostrato d’essere altresì una sagace saggista
politica ed una diligente ricercatrice
storica; ne fanno fede libri di valore
come “Le due riforme: L’Europa da Lutero al concilio di Trento” (1989), “La
Riforma, come origine della modernità” (2000), “Ildegarda di Bingen: mistica,
visionaria, filosofa” (2011).
Inoltre s’è cimentata, con
esito assai promettente nella narrativa con un romanzo, Vittoria, che narra la storia di una ragazza romana, nata da una
famiglia di genitori che non si vergognano di essere stati e di restare
fascisti; e che, in sintonia con l’adn familiare, pur ancora giovanissima s’impegna
a destra nei turbolenti anni
Ottanta. Nelle pagine del romanzo
affiorano spunti autobiografici, che vanno dai ricordi d’una infanzia
felice fino al generoso impegno politico
con altri giovani che, con un programma
alternativo d’idee ed iniziative audaci,
tentano di rompere l’assedio nemico favorito da un “nostalgismo”
sentimentale, rispettabile ma politicamente
improduttivo e coltivato da larghi strati delle generazioni piú anziane del Msi.
In questo suo nuovo libro
libro – L’altro Msi. I leader mancati per
una destra differente – Annalisa Terranova
rientra nella veste delle ricercatrice storica, come già in una storia
del Fronte della Gioventù dopo gli anni di piombo (“Planando sopra boschi di
braccia tese”, 1996), che sbocca infine nelle vicende storiche di Alleanza
Nazionale (“Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina”, 1998); e, quindi, nell’originale indagine sulle idee e le
persone della destra femminile (“Camicette nere”, 2007). E lo fa, con spirito
critico, riuscendo a prendere una doverosa distanza prospettica dai fatti, dai
personaggi e dai tempi che indaga e racconta, anche quando si tratta di eventi
ai quali Ella stessa ha in qualche modo partecipato direttamente o
indirettamente
Qust’ultimo libro dedicato
all’altro Msi, suscita parecchie
riflessioni in un lettore che abbia militato nel Msi per oltre trentanni, e ne conosca la storia dal di dentro per
esperienza personale (com’è il caso di
chi scrive).
I leader di quest’altro
Msi, per Annalisa Terranova sono (qui li indico secondo la successione dei
capitoli del libro): Pino Romualdi, Ernesto Massi, Ernesto de Marzio, Pino
Rauti, Marco Tarchi, Beppe Niccolai, Domenico Mennitti, Gianfranco Fini.
I profili di questi leader
(che direi inesplorati anzichè mancati, essendo stati personaggi di prima linea
nel movimento della fiamma tricolore) sono tutti interessanti, descritti con
ordito preciso e sulla scorta di dati d’archvio. Si tratta di
personaggi politici di rilievo che Annalisa ricolloca sul palcoscenico
della storia del Msi (per largo tempo dominato esclusivamente dalla figura
carismatica di Giorgio Almirante), riscattandoli da un ingiusto oblio vissuto
dalle basi del popolo missino rinchiuse nel frigorifero della nostalgia.
A mio avviso il sottotitolo
del libro risulta piuttosto impreciso, se si considera che almeno due delle
figure ritrattate non mancarono l’obbiettivo e raggiunsero la segreteria
nazionale del Msi: Pino Rauti e Gianfranco Fini, uno in concorrenza con
l’altro.
Rauti, capo carismatico dell’opposizione
interna dai tempi della seconda segreteria di Almirante (1969); Fini,
successore designato alla guida del partito dopo Almirante, scalzato dalla
massima poltrona da Rauti che nel 1990 riesce finalmente ad insediarsi al
vertice del partito con il proposito di spostare verso altri lidi un Msi
ancora movimento d’ordine, filoatlantico, arroccato a destra e che
praticava con Gianfranco Fini un “almirantismo senza Almirante”.
Pino Rauti - definito
un “Gramsci nero” in quanto sostenitore di un processo culturale a tutto
campo che corroborasse l’azione politica - sognava un Msi incamminato sulla
strada di un progetto innovativo
“nazional-popolare”, guidato da una classe dirigente piú giovane, in grado di
mettere in naftalina l’anziana nomenclatura almirantiana.
Ma il sogno rautiano di sottrarre una una buona quota di consensi
ad una sinistra devitalizzata dalla
droga del potere, condiviso attraverso il compromesso storico dei
comunisti con la balena bianca della Dc
e gli altri partitelli dell’arco costituzionale antifascista, purtroppo fallisce alla sua prima prova
elettorale.
Questo generoso progetto
politico e culturale, che puntava al superamento del formalismo obsoleto tra
destra e sinistra e puntava alla
ricerca di “nuove sintesi a forte coloritura terzomondista e antioccidentale”,
s’infrange ben presto, contro l’inerzia letargica del partito riconquistato da Gianfranco Fini
con l’appoggio dell’ala almirantiana e della maggioranza delle rappresentanze
parlamentari, che (salvo limitate eccezioni) preoccupate del loro destino
elettorale nel partito, si crogiolavano nella fierezza degli “esuli in
patria”come fonte di dividendi preferenziali.
Quando Fini, allontanandosi
dall‘ereditá almirantiana, usce dalla casa del padre per rinnegarlo e fonda
Alleanza Nazionale, Pino Rauti si dissocia dal nuovo corso rialzando l’insegna della fiamma
tricolore in una nuova formazione politica che,
tuttavia, non riesce a recuperare i
consensi raccolti dal vecchio Msi,
e si vede ridotta ad un ruolo politico marginale.
Piú ingrato del destino di
Rauti, fu quello degli altri personaggi che nel Msi pensarono ad una destra
differente.
Un
caso esemplare è quello di Pino Romualdi, il verace fondatore del Msi, che seppe
organizzare i sopravissuti della Rsi, prima in un contenitore clandestino (i
Far) per farli quindi confluire in un organismo legale, alla luce del sole,
e cercare una agibilità politica di
“fascisti in democrazia”.
Pino Romualdi era
consapevole della necessità di non dover
“non restaurare” un fascismo mussoliniano acefalo - divenuto impossibile nel contesto
della respubbica antifascista succeduta al regime monarchico-fascista - ma, al tempo stesso, ben deciso a “non rinnegare”, pur senza
restaurare - secondo la formula lanciata da Augusto De Marsanich nel primo
congresso missino di Napoli (1948) - quanto di positivo l’era mussoliniana aveva conseguito nell’ambito
legislativo, politico e sociale.
Per questa audace
intuizione - che puntava ad una grande formazione politica di tutti gli
italiani che non si sentivano omologati all’antifascismo tutelato dagli
angloamericani sbarcati in Italia - Pino Romualdi era deputato ad essere il “capo naturale” della nuova formazione
politica nata a Roma il 26 dicembre del 1946, se non fosse pesato su di lui il
ruolo di vicesegretario del fascismo repubblicano svolto nella Rsi; un ruolo
che gli valse nel 1948 un arresto,
alcuni anni di carcere e un processo che lo sciolse da una precedente condanna
a morte inflittagli da una corte
d’assise straordinaria del 1945. Quell’avvenimento lo allontanerà dalla vita del Msi per alcuni anni. Al suo
ritorno alla vita politica si vedrà
collocato nel ruolo di un comprimario
nell’alta dirigenza del Msi, fino al giorno
della sua morte avvenuta a poca distanza da quella di Giorgio Almirante,
accanto al quale, egli, Romualdi
rappresentò sempre il convincimento politico
di una grande destra moderna, la quale
per Almirante risultò sempre, in
pectore, una proposta strumentale, funzionale
al suo suo disegno politico radicale di “alternativa al sistema.
Ciò nonostante Pino Romualdi, politico di talento, dopo aver lavorato con Michelini si
rassegnò a lasciarsi oscurare dalla
figura di Almirante, acccanto al quale restò fino alla fine.
Il progetto di Romualdi –
teso a liberarsi di un neofascismo
imbalsamato e perennemente in lutto - fu assunto con un certo successo,
prima dalla segreteria di Augusto De
Marsanich e quindi da Arturo Michelini (un grande leader che Annalisa
Terranova sottrae ad una ingiusta dimenticanza, citandolo una dozzina di
volte); il quale riuscì ad introdurre l’Msi nel gioco politico
democratico - dopo la conquista in apparentamento elettorale con il Partito
nazionale monarchico - dell’amminstrazione di sei grandi capoluoghi dell’Italia
meridionale (Napoli, Bari, Lecce, Foggia, Salerno e Benevento) contribuendo,
inoltre, con i voti determinanti dei
parlamentari missini all’elezione di tre Presidenti della Repubblica
(Giovanni Gronchi, Antonio Segni e
Giovanni Leone).
Michelini persegue, con
audace ostinazione, la politica di “grande destra” coinvolgendo abilmente in essa elementi che nella tragica guerra
civile (1943-1945) avevano optato per il regno del sud come la Unione dei Combattenti
Italiani (Uci) del maresciallo Messe e la maggioranza dell’elettorato monarchico,
arroccato soprattutto nell’Italia meridionale; egli poneva cosí la premessa per
sanare le profonde lacerazioni della guerra civile mediante la pacificazione
sopprattutto tra gli italiani che -
avendo militato in opposte trincee,
ciascuno secondo patriottismo e buona fede - erano disposti a superare
le antiche divisioni per associarsi, in libertà ed autonomia, con il proposito
di rinnovare lo Stato riscattandolo dalla tirannia partitocratica mediante una democrazia partecipativa capace di conseguire
la giustizia sociale mediante il superamento della lotta di classe in un clima
di concordia nazionale.
Il proposito di ratificare
la politica d’intervento di Michelini al congresso nazionale convocato a Genova
nel luglio del 1960, con la dichiarazione
dell’accettazione pubblica del metodo
democratico, fu bloccato dalle violenze di piazza scatenate dal Partito
comunista che chiamó all’unità antifascista, immediatamente raccolta dalla
Democrazia cristiana che usò l’insorgenza di Genova per giustificare lo
spostamento del suo asse politico dal centro al centro-sinistra, aprendo un
ciclo politico che si concluderà solo nel 1990 con l’intervento del processo
“Mani pulite”contro la corruzione politica condotto dalla magistratura
politicizzata che conseguí la distruzione del Partito socialista craxiano e
della Democrazia cristiana. Si chiudeva cosí il lungo ciclo politico della
“prima repubblica”, aprendo la strada alla discesa in politica di Silvio
Berlusconi.
Con l’eccezione di Ernesto
Massi, geopolitico ed economista, che guidò la sinistra interna del Msi nel
nord d’Italia fino a quando non se ne uscì (1956) per avventurarsi in un
Partito Nazionale del Lavoro che non riuscì a decollare, e di Marco Tarchi,
laeder giovanile degli Anni Settanta, espulso da Amirante, tutti gli altri
personaggi descritti nel libro (Ernesto de Marzio, Beppe Niccolai, Domenico
Mennitti), vissero un destino assai simile a quello di Romualdi.
De Marzio perseguiva nel
Msi un progetto assai simile a quello di Romualdi ( purtroppo pur coltivando
una politica analoga, i due non
riuscirono mai a legarsi per reciproche gelosie) puntando a un processo di una revisione ideologica che aggiornasse il progetto politico del Msi
portandolo dalla “alternativa al sistema” ad una “alternativa nel sistema”. De Marzio fu lo stratega
della formazione della corrente interna
di Democrazia nazionale con l’intenzione di assicurare al Msi il volto di una
destra moderna moderata per toglierlo
dall’isolamento politico e proiettarlo nuovamente verso l’esterno. Lo scontro
duro con Almirante, mise la corrente di De Marzio, appoggiata dalla maggioranza
dei parlamentari del Msi, particamente fuori dal partito; ed essa non ebbe
altra alternativa che quella di scindersi e costituirsi in una formazione politica
nuova (1977).
Partito da spiagge
autoritarie, il Msi giunse gradualmente
ad approcci di libertà (come affermò De Marzio in Parlamento il 7 maggio del
1975) riconoscendone la necessità concettuale fin dal 1967, nel Convegno d’Arezzo
promosso da Arturo Michelini ricorrendo il quarantennio della proclamazione
della Carta del Lavoro.
Toccò in quell’occasione a
chi scrive abbordare l’argomento della libertà – fino ad allora abbastanza
trascurato nel dibattito interno del popolo missino – e farne il tema principale
della proposta politica del Msi, mantendo su un terreno di permanente
attualità, che lo spazio vitale della
libertà era l’unica alternativa per liberarsi dalla tirannia partitocratica e
procedere verso una democrazia organica.
Ma già nel 1957, al
congresso nazionale della rappresentanza universitaria (Unuri), svoltosi a Rimini, Pietro Cerullo sviluppando le tesi
eleborate con Franco Petronio - allora presidente del Fronte Universitario
d’Azione Nazionale, organismo parallelo del Msi - riconosceva che la seconda guerra mondiale,
con il tramonto non solo di alcuni regimi, ma di un sistema culturale e
geopolitico, aveva concluso un ciclo storico per cui s’imponeva un ripensamento
di principi e metodi culturali e politici nei quali “l’alternativa non era più
fra ordine e libertà, fra totalitarismo e democrazia, ma nella libertà e nella democrazia, fra diverse concezioni
dell’uomo e della vita, quindi del bene comune”.
Dunque la prospettiva di un Msi differente
convisse sempre in costante dialettica con un partito permanentemente in bilico tra la
rivendicazione acritica del passato e la prospettiva di una svolta storica che
fosse propedeutica alle necessarie innovazioni per il futuro.
Fu soprattutto Giuseppe
Niccolai (del quale Annalisa Terranova ha scritto il miglior profilo) –
definito il “fascista eretico dal cuore rossonero” – a sostenere l’urgenza di un’autocritica, sia
storica che interna, per riaprire una
nuova stagione di dialogo e riconnessione con la realtà nazionale, dopo
l’orgoglioso isolamento imposto al
partito da Almirante dopo la scissione di Democrazia nazionale.
E perchè si doveva uscire
da un isolamento politico che di fatto
risultò un “esilio in patria”? Perchè – affermava il “corsaro
politico” Beppe Niccolai – “non possiamo crearci una Patria di sogno e
rifiutare la Patria reale” quando il progetto dell’antifascismo è miseramente
crollato negli Anni Ottanta. Di conseguenza – sosteneva allora Niccolai – non
era più possibile essere “opposizione nel senso pregiudiziale, permanente e
fisiologico” in cui ci s’era abituati ad esserlo; quindi egli proponeva un nuovo modello di partito,
più snello ed agile, adeguato ai cambi della società e all’avvento delle nuove tecnologie: un
partito organico per rinnovare lo Stato italiano come “Stato organico”
Niccolai era stato un
almirantiano di lungo corso, gli era stato vicino come nessun altro (“Sarei
ingiusto se dicessi che mi sono politicamente costruito senza di lui o contro
di lui”). E quando Almirante morì lo ricordò con un memorabile scritto sulla
rivista Proposta (agosto 1988) diretta Domenico Mennitti, dove
non ne negava gli indubbi meriti: “seppe interpretare i vinti, trovò i temi
giusti e il tono umano, familiare, usando un liguaggio scorrevole per parlare di Patria agli Italiani”. Senza di lui,
riconosceva in quell’epicedio, “il Msi non avrebbe avuto possibilità di farsi
ascoltare”.
Detto questo, Niccolai
sempre controcorrente, osava indicarne altresì i limiti: “L’amore sfrenato che
aveva per se stesso, la coscienza in lui fortemente radicata che il Msi, fosse
Lui e basta, e in questa coscienza l’aver misurato i propri collaboratori per
cui, nella comunità, si sono privilegiati i cortigiani anzichè i caratteri:
l’avere, sempre nella consapevolezza di essere il più bravo, smussato se non
ucciso il dibattito e il confronto, che sono le condizioni per formare
coscienze e classi dirigenti; questa sua distanza dalla comunità, per cui la
politica, anzichè costruita collegialmente, nasceva dall’inventiva, dalla
bravura, dalla impareggiabile maestria propria e di nessun altro; tutto ciò
lascia un’eredità pesante, e con la quale il Msi deve ancora misurarsi”.
Con questa dolorosa
confessione, Beppe Niccolai, riconosceva le ragione per cui il Msi avrebbe
potuto essere diverso da quello che fu durante la lunga, carismatica segreteria
di Giorgio Almirante.
Un Msi differente
dal partito demonizzato dagli avversari
più incalliti è stato possibile, come
dimostra questo libro di Annalisa Terranova
e come riconobbero persino gli avversari più intelligenti, in una
speciale trasmissione della Rai (Primo Piano) andata in onda il 4 dicembre
1980, con il titolo “Nero è bello”. Sembrò allora che la guerra civile che tra
gli anni Settanta ed Ottanta aveva mietuto un centinaio di vittime tra giovani
di opposte trincee, si fosse finalmente chiusa; e che si avviassero finalmente
iniziative trasversali, per cui il Msi,
soprattutto attraverso il suo Fronte della gioventù, avesse ritrovato la
sua legittimità persino nella stampa dell’antifascismo moderato che aveva preso
a distinguire e rispettare quando si
parlava dei “neri”.
La realtà dell’altro Msi, risalito dalla ghettizzazione come una forza giovane e
nuova, veniva constatata autorevolmente da Augusto del Noce, il filosofo
italiano di maggior prestigio dopo Giovani Gentile. In una intervista
rilasciata al Secolo d’Italia (Roma, 24 dicembre 1983) il filosofo emerito lo
affermava a tutto tondo, con queste parole:
“Il Msi-Dn è una
moderna forza politica di destra. Esso si è liberato dai tanti lacci che lo
legavano emotivamente all’esperienza fascista e al culto mussoliniano.
Indubbiamente chi parla di ‘nostalgismo’ del Msi sbaglia, e lo stato
civile dell’elettorato gli da torto.
Altrimenti da quanti anni già si sarebbe dovuto estinguere? I voti raccolti dal
Msi non possono essere soltanto di protesta. Esso ha un suo elettorato
giovanile e non legato alla passata esperienza politica italiana. Inoltre per
le sue stesse radici può interpretare esperienze e istanze cattoliche. La sua
politica delle riforme istituzionali indica infine che finora è l’unico partito che abbia guardato,
almeno da qualche anno a questa parte, più al futuro che al passato. Esso
potrebbe essere definito un moderno partito conservatore europeo”.
Anni dopo (il 2 Aprile 2009) sul settimanale Panorama il politologo Gianni Baget
Bozzo- - già militante nella resistenza cattolica genovese e quindi autorevole
esponente della giovane generazione democristiana fino agli Anni Sessanta –
ribadiva il ruolo del Msi come forza di libertà, affermando:
“ Esso conservò il senso della nazione Italia e della
patria quando gli schemi della guerra fredda imponevano la divisione tra
Occidente ed Unione Sovietica. Svolse così un compito importante, e per questo,
discriminato e combattuto. Ma contribuì a mantenere il fondamento culturale del
Paese. Fu un elemento di differenza e quindi, appunto perchè emarginato e
perseguitato, una forza obiettivamente
di libertà. L’egemonia comunista della cultura italiana trovò una resistenza
nella cultura di destra e nell’identità politica del partito della fiamma. Ció
poteva essere riconosciuto solo se nasceva un movimento postideologico che
sostituisse il concetto di avversario a quello rivoluzionario di nemico,
proprio della cultura comunista. Ciò ha reso possibile che la testimonianza del
Msi fosse accolta in una prospettiva in
cui la nazione e il popolo si separavano dalla memoria della dittatura e
del regime e si ponevano come valori puri”.
In questa coraggiosa e leale testimonianza di Baget Bozzo
si riflettono propositi ed azione dei protagonisti di quell’altro Msi,
descritto dall’analisi attenta di Annalisa Terranova; analisi storica dalla
quale il partito della Fiamma – attraverso le parole di un avversario leale - finalmente esce vincitore di fronte alla
storia.
Dal libro della Terranova emerge, infine, che il Msi - come riconosceva in effetti Gianni Baget Bozzo – cercò di
lanciare un ponte agli italiani tutti,
dove far transitare la lezione del passato
rivisto con spirito critico, per
inverarlo in un progetto di società libera quale espressione di un futuro
germinato da un seme antico.
Proposito, questo,
rimasto inconcluso con lo scioglimento del movimento della fiamma per
dar vita ad una Alleanza Nazionale che, allontanandosi progressivamente dalla
radici missine, s’inoltrò nei meandri di
una liberaldemocrazia incerta e confusa
che la portò - nello spazio di
poco più di un decennio - ad annullarsi
nell’armata Brancaleone del berlusconiano Partito della libertà.
Quel progetto -
che i protagonisti dell’altro Msi cercarono di sviluppare attualizzandolo –
resta (a mio avviso) tuttora
vigente, nell’attesa che leve nuove ed audaci lo raccolgano e lo
ravvivino per rifondare lo Stato italiano dotandolo finalmente di una
democrazia compiuta, dove nazione e popolo risorgano come
valori puri.
Primo Siena
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