L'intrigante/insinuante
saggio La verità sull'Ovra, pubblicato nel 1946 dallo storico Antonio
Trizzino (1899 - 1973), che per la circostanza usò lo pseudonimo Sicanus, è
stato riproposto nel 2005 da Francesco Perfetti, direttore della collana Nuova
Storia contemporanea, della casa editrice fiorentina Le lettere.
Trizzino, che negli
anni cinquanta diventerà famoso quale autore di un saggio, Navi e poltrone,
in cui furono svelati i tradimenti consumati dagli ammiragli di Supermarina
durante il conflitto e quale autore di un documento inteso alla riabilitazione
dell'eroico comandante Enzo Grossi, nell'immediato dopoguerra aveva raccolto un
ingente quantità di documenti e notizie sulla polizia politica fascista, l'Ovra,
e sulle attività degli antifascisti rifugiati in Francia.
Trizzino
non era giunto alle conclusioni di Franco Bandini, il quale, nel saggio Il
cono d'ombra, (edito da Sugarco nel 1990) ha dimostrato che i fratelli
Carlo e Nello Rosselli non furono assassinati dai fascisti francesi ma da
agenti dell'internazionale comunista.
Il
testo di Trizzino contiene e propone tuttavia alcune notizie utili a valutare
gli obiettivi non sempre nobili della
strategia antifascista e la sua stretta associazione al più rovente
anticlericalismo.
Al
proposito delle aspettative nutrite dagli antifascisti rifugiati a Parigi,
Trizzino cita un documento che getta l'ombra del fanatismo bellicoso sui primi
resistenti al regime di Mussolini: "un articolo su Bocchino, pubblicato
su un giornale antifascista di Parigi nel 1937 e scritto indubbiamente da mano
esperta e da mente eletta, in cui si faceva carico al Capo della polizia di
aver ovattato il regime fascista, impedendo le sanguinose rappresaglie e le
violenze illegali dei fascisti, sicché - diceva l'autore - mancando il martirio
autentico, vero, quello di dominio e di coscienza pubblica,veniva a mancare in
Italia il lievito, lo sprone, l'occasione per suscitare la ribellione e la
rivolta armata".
Nell'articolo
citato da Trizzino un intellettuale azionista, militante nel movimento
Giustizia e Libertà espone senza ritegno
i sommi criteri che saranno adottati dai partigiani comunisti: uccidere
i fascisti e i loro alleati tedeschi per ottenere reazioni furenti e
controproducenti, le sanguinose rappresaglie necessarie a giustificare e
rendere popolare l'azione violenta e implacabile dei partigiani antifascisti.
L'inconfutabile
dichiarazione citata da Trizzino e riproposta dall'autorevole Perfetti ha
aperto uno spiraglio (finora poco frequentato dagli sguardi degli storici) al
legittimo ma imbarazzante e scomodo interesse dei revisionisti e dalla
soggiacente curiosità degli osservatori non professionisti, che desiderano
sapere a quali supremi princìpi obbedivano i partigiani, i gapisti ad esempio,
attivi nell'area estrema e rovente dell'antifascismo.
Nessuno
intende diminuire l'onore festoso che è tributato (per legge) alla resistenza
armata contro i fascisti. Tanto meno giustificare gli errori e le colpe dei
fascisti. L'inquietante/svelante manifesto citato da Trizzino, ossia il
programma tracciato/anticipato nel 1937 dall'anonimo intellettuale, consente
tuttavia l'avanzata del sospetto sulla presenza di suggestioni machiavelliche,
si è tentati di dire ciniche, insinuate, nell'animo canonicamente limpido degli
eroici resistenti, da direttive forse
diffuse da Mosca forse dalla massoneria di conio e di fetore liberale.
Il
libro di Trizzino contiene inoltre una notizia che, ove fosse finalmente
conosciuta, potrebbe turbare la curva da cui si leva l'applauso dei cattolici
di scuola bolognese alla resistenza antifascista.
L'autore,
infatti, rievoca un curioso, obliquo episodio dell'accanita resistenza al
fascismo: l'attentato dinamitardo compiuto nel 1933, nell'androne della basilica
di San Pietro.
Autori
dell'impresa terroristica di stampo anticlericale furono gli antifascisti
Claudio Cianca, nipote di un illustre rifugiato a Parigi, il futuro deputato
comunista Alberto Cianca, e l'anarco-nichilista Leonardo Bucciglioni.
Quale
responsabile dell'attentato dinamitardo, Claudio Cianca fu condannato a 17 anni
di reclusione, ma nel settembre del 1943 fuggì dal carcere per unirsi ai
partigiani comunisti.
La
definizione dell'attentato alla basilica di San Pietro è scritto con un inchiostro
simpatico, che nasconde dietro l'antifascismo l'insaziabile odio dei settari
schierati contro la Chiesa cattolica e contro la tradizione italiana.
La
conclusione che si trae dalla datata ma sempre attuale rievocazione di Trizzino
è che la resistenza al fascismo fu strettamente associata all'avversione alla
Chiesa cattolica, che Mussolini aveva sottratto all'umiliante cattività
liberale e massonica.
La
causa di tale odio risiede nella pace sociale instaurata dal regime fascista e
approvata dalla gerarchia cattolica, una pace che soffocava il violento anelito
ateista di stampo giacobino e liberale.
Nel Diario
della Serva di Dio suor Maria Francesca Foresti si legge che, in visione, Gesù
rivelò di aver salvato l'Italia da una rivoluzione comunista nel 1920 [1]. Forse
risiede qui la fonte della lettera amichevole indirizzata a Mussolini da San
Pio da Pietralcina.
La
disgraziata irruzione del nazismo sulla scena europea, la memoria delle
disoneste/sciagurate manovre di Francia e Inghilterra, intese a spingere il
governo italiano all'innaturale e infelice alleanza con la Germania nazista, le
incomprensibili motivazioni dell'intervento italiano nella seconda guerra
mondiale e la conseguente, dolorosa sconfitta, hanno consentito il sollevamento
del criminalizzante polverone storiografico e tele-cinematografico, che
impedisce di vedere le ragioni e le reali utilità dell'intesa tra Regime
fascista e Santa Sede, oltre che la radice profonda, laica e iniziatica,
dell'antifascismo.
Le
notizie divulgate da Trizzino e indirettamente confermate da Antonio Socci
possono finalmente aiutare gli studiosi e i curiosi di storia contemporanea a
comprendere le verità nascoste dietro le rintronanti chiacchiere della
scolastica anti-italiana.
Piero Vassallo
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