1. La fisica è in crisi. “Uno studente universitario che assista alle
lezioni di relatività generale il mattino e a quelle di meccanica quantistica
il pomeriggio non può che concludere che i professori sono citrulli, o hanno
dimenticato di parlarsi da un secolo:
gli stanno insegnando due immagini del mondo in completa
contraddizione. La mattina, il mondo è
uno spazio curvo dove tutto è continuo; il pomeriggio, il mondo è uno spazio
piatto dove saltano quanti di energia”. Il
paradosso è, continua l’Autore, “che entrambe le teorie funzionano
terribilmente bene”. Ognuna nel suo campo, si capisce. Ma può la fisica mantenersi in questa
visione radicalmente dualistica della realtà, nella quale si contrappongono due
modi opposti di intendere lo spazio? Non
può. E difatti, ci informa l’Autore, “un
gruppo di fisici teorici sparsi per i cinque continenti sta laboriosamente
cercando di dirimere la questione. Il
campo di studio si chiama “gravità quantistica”: l’obiettivo è trovare una teoria, cioè un
insieme di equazioni, ma soprattutto una coerente visione del mondo, in cui la
schizofrenia sia risolta”.
Chi
si esprime in questo modo è il prof. Carlo Rovelli, illustre fisico teorico,
membro di prestigiose istituzioni scientifiche internazionali, direttore di un
importante gruppo di ricerca di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille,
in un agile e appassionato libretto appena pubblicato da Adelphi, intitolato Sette
lezioni di fisica [1],
pervaso comunque da un profondo ottimismo sul futuro della fisica. Si tratta della “espansione”, per forza di
cose assai limitata, di sette articoli a carattere divulgativo scritti di
recente per il Domenicale de Il Sole-24 Ore. In effetti, il lettore avrebbe gradito anche
una maggiore “espansione” per quanto riguarda la spiegazione di certi
importanti concetti. Ad esempio, accennando alla teoria della relatività
ristretta, il prof. Rovatti si limita a questo scarno rilievo: “la teoria che chiarisce come il tempo non
passi uguale per tutti: due gemelli si
ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente” [2].
Ma
perché la fisica si trova in una situazione di “schizofrenia”? Perché non riesce più a fornire un’immagine
coerente del mondo? E come mai ci
troviamo di fronte a due concezioni del tutto opposte dello spazio? Per capirlo, può esser utile risalire alle
origini, alla einsteiniana teoria della “relatività speciale” o “ristretta” del
1905, elaborata per rispondere ai problemi che la velocità della luce sempre costante
nel vuoto poneva alle rilevazioni di tempo connesse a certi esperimenti, come
quelli (falliti) di Michelson e Morley, volti a dimostrare l’esistenza
dell’etere. La tesi di Einstein è che la simultaneità non può esser assoluta
per tutti gli osservatori di un determinato evento ma relativa al sistema di
riferimento (in quiete o in moto) nel quale si trovi ciascun osservatore. Con
questo “relativismo” si è iniziata di fatto la decostruzione dell’immagine
unitaria del mondo. Con una teoria ristretta
ad un sistema di riferimento in moto di traslazione lineare ed uniforme
rispetto ad un sistema di riferimento in quiete. Uniforme, questo moto, perché con
direzione e velocità costanti; di traslazione lineare, perché non rotatorio.
La einsteiniana teoria della “relatività generale” (del 1916) è invece una
teoria della gravitazione che mira ad integrare e superare quella newtoniana. Qui
compare lo “spazio curvo”, assente dalla prima teoria, ove lo spazio era ancora
piano (“piatto”, secondo l’anglomania dominante). L’esperimento mentale del quale si è
servito Einstein, per fondare il principio della “relatività ristretta”,
concerne dunque la percezione della simultaneità di eventi fisici tra loro
simultanei, percezione fondamentale in fisica per la misurazione del tempo
degli eventi naturali. Dal reciproco
confronto di osservatori posti in un sistema
di riferimento in quiete e in uno in moto lineare uniforme rispetto ad esso,
Einstein concluse (cosa all’epoca sconvolgente) che l’evento simultaneo per un
sistema di riferimento non poteva esserlo per l’altro. Vediamo perché.
2. Riassunto
del famoso esperimento mentale “banchina-treno” di Einstein. Un osservatore
M si trova esattamente a metà di una banchina ferroviaria, le cui estremità
chiameremo A (a sinistra per chi guarda) e B (a destra). Due fulmini scoccano simultaneamente in A e
in B. M li vedrà contemporaneamente, per
lui essi saranno effettivamente simultanei.
Perché? La luce viaggia a
velocità costante nel vuoto, a 300.000 km/s (299.792,458 km/s, coprendo 9.463
miliardi di km in un anno)[3]. Considerando irrilevante la resistenza
dell’aria, dobbiamo dire che i raggi di luce provenienti simultaneamente dal
fulmine caduto in A e da quello caduto in B, percorrono entrambi la stessa
distanza per raggiungere l’immobile osservatore M. Percorrendola entrambi alla medesima velocità
costante, giungeranno simultaneamente in M, incontrandosi.
Supponiamo
adesso che un treno “molto lungo” stia viaggiando a fianco della medesima
banchina con la “velocità costante v” da sinistra (estremità A della
banchina) a destra (verso l’estremità B della stessa) per chi guarda, dalla
posizione dell’osservatore M. M si vede
passare davanti questo treno. Nel treno
è seduto un passeggero che, quando i due fulmini si abbattono, si trova per
combinazione proprio alla stessa altezza dell’osservatore M sempre in piedi a
metà esatta della banchina. Diremo che
si trova nel punto M’ esattamente speculare ad M. M’ vedrà anch’egli simultaneamente i due
fulmini? Avrà la medesima percezione
della simultaneità dei due eventi posseduta da M, fermo a metà della
banchina? Einstein sostiene di no. E
perché no? Trovandosi in moto, M’,
rispetto alla banchina, “si muove rapidamente verso il raggio di luce che
proviene da B [dall’estremità della banchina verso la quale sta correndo il
treno] mentre corre innanzi al raggio di luce che proviene da A [estremità
opposta della banchina]. Pertanto M’
vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da
A. L’osservatore che si trova sul treno
riterrà pertanto che il lampo di luce in B ha avuto luogo prima del lampo di
luce in A”. Si trae allora la seguente
conclusione di carattere generale: “gli
eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto
al treno e viceversa (relatività della simultaneità); ogni corpo di riferimento
(sistema di coordinate – treno o banchina che sia, etc.) ha il suo proprio
tempo particolare: un’attribuzione di
tempo è fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di
riferimento tale attribuzione si riferisce” [4].
Tutto
a posto, dunque, semplice e geniale. Ci
troviamo di fronte ad una audace intuizione che vuol costituirsi come vera e
propria legge di natura per ciò che riguarda la nostra percezione temporale di
eventi naturali tra loro simultanei. Questa
legge Einstein la ricava immaginando di paragonare tra loro le esperienze
visive effettuatesi in un sistema di riferimento rigido (immobile) ed in uno in
moto lineare uniforme rispetto ad esso. Essa
vuol valere indiscriminatamente per tutti i sistemi rigidi e per tutti quelli
in moto lineare uniforme, reciprocamente in relazione tra loro, come nella
connessione banchina-treno assunta a paradigma.
3. Bertrand
Russell ci svela la velocità del “treno”.
Per dare un senso concreto all’esperimento mentale di Einstein,
occorrono delle cifre, delle misure. Nel
suo scritto divulgativo, il grande fisico si limita a dire che il treno “è
molto lungo” e che “si muove rapidamente a velocità v” lungo la
banchina. Il treno deve essere “molto lungo”.
E perché? E quanto lungo? E circa la velocità: quanto “rapidamente”
deve muoversi il treno verso l’estremità B della banchina? Deve trattarsi di una velocità molto elevata,
ma quanto elevata?
Solo
pochi tra i numerosi commentatori e divulgatori della teoria della relatività si
sono avventurati a conferire numeri al famoso esperimento. Tra questi Bertrand Russell, l’eccentrico matematico
e filosofo della scienza inglese, tra i primi entusiasti adepti della teoria
della relatività, negli anni venti del secolo scorso. Con qualche piccola variazione, egli ricalca
l’esperimento mentale di Einstein, attribuendo al treno una velocità esplicita. “Supponiamo che vi troviate su un treno che
corre verso est su binari perfettamente diritti a una velocità pari a tre
quinti della velocità della luce…”. Niente
di meno. Anche qui abbiamo un
osservatore nel treno ed uno fermo lungo la ferrovia. “Un evento verificatosi lungo la ferrovia
nella direzione in cui sta andando il treno, e che l’osservatore [M] fermo
[lungo la ferrovia o la banchina] giudica accaduto in questo momento (o meglio,
giudicherà accaduto in questo momento quando ne verrà a conoscenza), se si è
verificato ad una distanza che la luce può percorrere in un secondo, sarà
giudicato dal viaggiatore [M’] come avvenuto tre quarti di secondo fa”[5]. Pertanto, “il viaggiatore antedaterà gli
eventi che si verificano davanti al treno di tre quarti del tempo che la luce
avrebbe impiegato a coprire la distanza dagli eventi stessi fino all’uomo che
sta assistendo, da terra, al passaggio del treno; il quale uomo a sua volta
sostiene che quegli eventi si stanno verificando proprio al momento del
passaggio del treno (o meglio, lo sosterrà quando la luce proveniente da quegli
eventi lo raggiungerà). Gli eventi che
si verificano lungo la ferrovia dietro il treno saranno postdatati esattamente
nella stessa misura”[6].
Come
“evento”, aggiungo, possiamo ipotizzare un fenomeno luminoso, anche il nostro
fulmine. Il raggio di luce che da esso
emana giunge ad M fermo sulla banchina in un secondo di tempo. Per M’, che va invece a 180.000 km/s (3/5
della velocità della luce, essendo 1/5 pari al 20% della stessa, cioè a 60.000
km/s), esso gli arriverà in un tempo
inferiore, che Russell indica in ¾ di secondo.
Per M’ allora l’evento si è verificato non un secondo prima bensì ¾ di
secondo prima, dato che egli sta andando incontro all’evento alla velocità che
sappiamo. Perciò M’ vedrà tutti gli
eventi che si verificheranno “davanti al treno” sempre prima di M. Quegli eventi saranno per M’ sempre
anticipati rispetto ad M, fermo sulla banchina, “di ¾ del tempo che la luce
avrebbe impiegato” a coprire la medesima distanza nel portare l’informazione
dell’evento stesso ad M, sempre immobile davanti al treno che passa. Per quest’ultimo, l’evento è simultaneo al
passaggo del treno davanti a lui perché il raggio di luce lo raggiunge proprio
nel momento in cui il treno sta (ancora) passando. M non sa che è passato un secondo
dall’evento, che lui sostiene esser istantaneo (per questo Russell scrive: “o
meglio, lo sosterrà quando la luce proveniente da quegli eventi lo raggiungerà”). Per gli eventi che accadono “dietro il treno”
vale il ragionamento opposto. Ma essi
saranno “postdatati” solo da M’ che fugge davanti al raggio di luce a 180.000
km/s, ragion per cui l’informazione dell’evento-fulmine gli giungerà solo dopo
che il raggio di luce che la trasmette
l’avrà raggiunto, cioè solo dopo aver viaggiato per un secondo + il tempo
impiegato da M’ a percorrere 180.000 km/s in quello stesso secondo. E quindi alla distanza di 480.000 km dal punto
dell’evento luminoso (300.000+ 180.000).
Quale
sarà il principio generale ricavabile dall’esperimento
mentale? Che l’osservatore sul “treno
cosmico”, come anche viene chiamato il “treno di Einstein”, a causa della sua
velocità, che tende ad avvicinarsi a quella della luce, vedrà gli eventi che
accadono davanti al suo sistema di riferimento in moto lineare uniforme sempre in
anticipo rispetto a M, il cui sistema di riferimento è in quiete, e sempre in
ritardo gli eventi che hanno luogo nella direzione opposta a quella del suo
moto. Si conferma che ciò che è
simultaneo per M non può esserlo per M’.
4. Qualche
dubbio sul valore dell’esperimento di Einstein. Ma proprio da questi numeri sorgono, a
mio avviso, dei problemi. Riflettiamo
attentamente. La distanza che la luce
“può percorrere in un secondo” è pari a 300.000 km , poco meno
della distanza dalla terra alla luna. Dovremmo
quindi credere, (per conferire significato quantitativo, cioè
matematico, misurabile, all’esperimento) che un osservatore a terra sulla
“banchina”, il nostro M, possa veder coincidere con il passaggio del treno (che
va a 180.000 km/s) un lampo di luce che esplode a 300.000 km di distanza,
situato quindi nello spazio extraterrestre.
E chiaro che no, non possiamo.
Inoltre, quanto deve essere lungo il treno, che Einstein definisce
“molto lungo”, saettante a 180.000 km/s?
Quando M’ riceve l’informazione della caduta del fulmine davanti a lui,
egli si trova di 180.000
km spostato rispetto a M fermo sulla banchina, incontrando
il raggio di luce dopo che esso ha percorso solo 120.000 km verso di lui (300.000-180.000
km/s, velocità di M’). Ma se il raggio
di luce viene percepito da M “mentre il treno sta passando davanti a lui”, ciò
significa che il treno deve esser lungo almeno 180.000 km , ed anzi di
più se M non vuol esser condannato a vederne nient’altro che la coda. Ciò significa che la banchina deve essere di
uguale lunghezza ed anzi maggiore. Ricevendo
sulla banchina l’informazione del fulmine caduto all’estremità della banchina
stessa, dopo un secondo, allora M si trova su una banchina lunga 300.000 km , distanza
percorsa per l’appunto dalla luce in un secondo di tempo. E se viene ad M anche l’informazione sul
fulmine caduto simultaneamente all’altra estremità della banchina, sempre in un
secondo di tempo, allora la nostra “banchina” deve esser lunga 600.000 km , dato che M
vi si trova nel punto mediano, come si è più volte ripetuto. Con questi ordini di grandezze immaginare un
effettivo osservatore umano e una normale stazione ferroviaria sembra del tutto
assurdo.
Né
i commentatori né Einstein spiegano in genere perché il treno debba andare a
quella velocità, autenticamente astronomica.
Perché – ipotizzo – se il famoso treno andasse a velocità normale, fosse
anche quella di un treno superveloce dei nostri giorni, l’esperimento stesso
non si potrebbe fare: il raggio di luce che porta l’informazione del fulmine simultaneamente
a M sulla banchina e a M’ su un treno che passa davanti ad M a 250 km/h , sarebbe
percepito simultaneamente da entrambi gli osservatori. E questo lo si può affermare senza bisogno di
far calcoli.
Treno
e banchina “cosmici”, dunque. Ma sistemi
di riferimento “cosmici” come possono costituire un paradigma in base al quale
elaborare una legge di natura valida anche per gli osservatori umani? Si sta parlando, infatti, di come il soggetto
pensante, situato in sistemi di riferimento diversi, uno in quiete l’altro
in moto di traslazione lineare ed uniforme, possano avere o meno una identica
percezione della simultaneità di eventi della natura in se stessi simultanei. Ma se il soggetto (l’io nostro che
osserva e calcola) è posto in un sistema di riferimento costituito da un treno
“cosmico”, non lo trasformiamo in pura energia? Non può esistere alcun treno che vada alla
velocita di 180.000 km/s, voglio dire nessun oggetto di materia ponderabile che
vada a quella velocità: si
disintegrerebbe molto ma molto prima di raggiungerla. Per non dir nulla dell’eventuale “passeggero” [7]. Come disse Ernst Mach, l’esperimento mentale
non può costituire da solo il fondamento di una teoria, esso deve sempre
rappresentare “la necessaria condizione preliminare dell’esperimento fisico” [8]. E l’esperimento fisico non deve essere
a misura di un osservatore umano in carne ed ossa? Siamo noi che, servendoci dell’ausilio di
strumenti da noi stessi fabbricati, dobbiamo esser capaci di stabilire la simultaneità
di eventi che avvengano simultaneamente ovvero la natura oggettiva di
ciò che accade nella realtà esteriore.
Bisogna
allora chiedersi: come si possono
paragonare tra loro le esperienze di un “osservatore” che va a 180.000 o
secondo altri a 240.000 km/s (basta che non
si superi la velocità della luce) e quelle di chi sta fermo sulla banchina:
paragonarle al fine di ricavarne una legge di natura valida per entrambi? I loro punti di vista sono forse commensurabili? A quelle velocità vanno solo i quanti
elementari di energia, le particelle subatomiche, per l’appunto l’energia,
in onde e a pacchetti. Dobbiamo allora ritenere che “l’osservatore sulla
banchina” e “il passeggero” del treno cosmico siano solo dei simboli o
un astratto, impersonale sistema di coordinate? Ma se aboliamo l’osservatore umano, tutto il
discorso ha ancora senso?
I Fisici sostengono che si è avuta una
verifica empirica di questo famoso “esperimento mentale” di Einstein, non
coinvolgente naturalmente osservatori umani bensì strumenti molto sofisticati
sottoposti a determinati tests, ad esempio orologi atomici portati in volo attorno
alla terra. Mi sembra di poter dire, tuttavia, che questa conferma, unitamente
a quella relativa alla decadenza di certe particelle subatomiche, i muoni,
appare abbastanza oscura ai non iniziati.
Dobbiamo
allora ritenere che Einstein abbia torto nel sostenere che, a un soggetto
immaginario, in moto ad una velocità prossima a quella della luce nella
direzione di un evento luminoso simultaneo ad un altro che accade alle sue
spalle, l’evento luminoso verso il quale sta viaggiando debba apparire prima di quello dal quale si
sta allontanando? No, di certo. Però, credo sia legittimo chiedersi: che cosa abbiamo dimostrato, con il
constatare, grazie alle capacità visionarie e speculative di Einstein, che, dal
punto di vista delle onde di energia che si propagano nello spazio – onde,
ripeto, poiché nessun oggetto o soggetto può viaggiare a 180.000 o 240.000 km/s
– quanto più sono vicine alla velocità della luce, tanto meno si può cogliere
la simultaneità degli eventi luminosi tra loro simultanei, se queste onde
stanno viaggiando verso di uno e allontanandosi dall’altro? Forse che il punto di vista dell’energia
deve esser preso in considerazione per contrapporlo a quello del soggetto
umano, al fine di dichiarare la relatività di ogni sua “attribuzione di tempo”? Qui “l’attribuzione di tempo” la fa in
effetti l’energia stessa (il quanto-passeggero M’ immerso nell’onda
elettromagnetica che è in realtà il “treno cosmico”), come se vedesse e
pensasse. Non si cade così senza volerlo
in una sorta di animismo?
Un’ultima
notazione riguarda la logica interna del principio di relatività
“ristretta”. Sarà per mio demerito, ma
non riesco ad immaginarmi una situazione nella quale si attui il viceversa
intrinseco al principio stesso. Einstein,
infatti, scrive, come si è visto: “gli
eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto
al treno e viceversa (relatività della simultaneità)”. Quali possono essere, se ho correttamente
inteso il senso del “viceversa”, eventi che realizzino una situazione opposta
a quella di partenza, vale a dire non simultanei rispetto alla banchina e
simultanei rispetto al treno?
[1] C. Rovelli, Sette lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, pp. 85. Lo spazio “piatto” è quello euclideo ossia piano
(in inglese flat, che significa sia “piano” che “piatto”).
[4] Le citazioni tra virgolette, in parte riassumendole con parole mie, le ho
tratte da A. Einstein, Relatività: Esposizione divulgativa (1916), tr.
it. di V. Geymonat, introduzione di B. Cermignani, Boringhieri, Torino, 1967, pp.
61-62. La traduzione è condotta
sull’edizione inglese, approvata dallo stesso Einstein. Il volume contiene anche “scritti classici su
Spazio Geometria Fisica”. Le frasi tra
parentesi quadre, qui come altrove in quest’intervento, sono mie.
[5] B. Russell, L’ABC della relatività (1925), tr. it. di L. Pavolini,
Longanesi, Milano, 1974, p. 77 e 81.
[7] Ricordo che la massima velocità realizzata da una sonda spaziale (Helios 2,
nel 1976) è stata di 252.792
km/h in relazione al sole. E quella di un veicolo con equipaggio di 39.896 km/h (astronave
Apollo 10, nel 1969), in relazione alla terra (List of vehicle speed records,
en.wikipedia.org).
[8] E. Mach, Über
Gedankenexperimenten, in ID., Erkenntnis und Irrtum (1905), ristampa
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1976, pp. 183-200; pp. 187-189.
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