Abbiamo
visto, nell’intervento precedente, pubblicato domenica 16 novembre 2014 in questo blog, che la
soluzione del grave impasse nel quale si trova la fisica attuale viene
ricercata dagli scienziati nella
verifica sperimentale di una teoria molto complessa, alla quale si sta
lavorando da molto tempo: la “gravità
quantistica”[1]. Si tratta di interpretare la forza di gravità
alla luce della meccanica quantistica ossia della fisica delle particelle, cosa
rivelatasi finora impossibile. Dal punto di vista dell’uomo della strada, si
può comunque cercare di comprendere come si sia arrivati alla necessità di
coniugare quella meccanica con la forza di gravità. Ma occorre ritornare a Newton e farsi un’idea
dei problemi cui la fisica si trovava di fronte dopo di lui; problemi che Einstein,
secondo un’opinione ancora diffusa, avrebbe risolto una volta per tutte. Come presenta
il prof. Rovatti la contrapposizione tra Newton ed Einstein?
1. Dallo
spazio “vuoto” di Newton a quello “pieno” di Einstein. Con la sua legge di
gravità, Newton cosa aveva dimostrato?
“Newton aveva cercato di spiegare la ragione per la quale le cose cadono
e i pianeti girano. Aveva immaginato una
“forza” che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata “forza di gravità”. Come facesse questa forza a tirare cose che
stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo, non era
dato sapere, e il grande padre della scienza si era cautamente guardato
dall’azzardare ipotesi. Newton aveva
anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un
grande contenitore vuoto, uno scatolone per l’universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono
diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo “spazio”,
contenitore del mondo, inventato da Newton, neppure questo era dato sapere”[2].
Da questa
presentazione (alquanto sintetica) della gravitazione universale scoperta da
Newton, si comprende che Newton non era riuscito a spiegare come facesse la
forza di gravità “a tirare le cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza
che ci fosse niente in mezzo”. E nemmeno
perché si dovesse ritenere lo spazio una specie di “grande scatolone vuoto”,
che non si riusciva a capire di cosa fosse fatto.
A questi
interrogativi, secondo il prof. Rovatti, avrebbe compiutamente risposto
Einstein, dopo la scoperta del campo elettromagnetico nella seconda metà dell’Ottocento,
dovuta a Faraday e Maxwell. “Il campo è un’entità reale diffusa ovunque, che
porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la
superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein era affascinato sin da ragazzo dal
campo elettromagnetico […] e presto capisce che anche la gravità, come
l’elettricità, deve esser portata da un campo:
deve esistere un “campo gravitazionale”, analogo al “campo elettrico”; e
cerca di capire come possa esser fatto questo “campo gravitazionale” e quali
equazioni lo possano descrivere. E qui
arriva l’idea straordinaria, il puro genio:
il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio. Questa è l’idea della teoria della relatività
generale. Lo “spazio” di Newton, nel
quale si muovono le cose, e il “campo gravitazionale”, che porta la forza di
gravità, sono la stessa cosa”[3].
Intuizione
indubbiamente geniale. “È una
folgorazione. Una semplificazione
impressionante del mondo: lo spazio non
è più qualcosa di diverso dalla materia:
è una delle componenti “materiali” del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva,
si storce. Non siamo contenuti in
un’invisibile scaffalatura rigida: siamo
immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a
sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza, ma
perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono misteriose “forze” generate dal centro
dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a far ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose
cadono perché lo spazio si incurva”[4].
2. Le
teorie di Einstein si inseriscono in modo originale in una tradizione di
pensiero. Sappiamo, tuttavia, che le particelle
subatomiche, i quanti di energia, hanno bisogno di uno spazio piano o euclideo
per muoversi, che a loro non serve la supposta curvatura dello spazio[5]. Allora la grande intuizione di Einstein si è
rivelata inutile, visto che non può applicarsi al mondo subatomico, il quale,
ormai è accertato, costituisce la struttura stessa della materia? E nemmeno al cosmo, visto che anche su larga
scala, ci dice l’astrofisica, la luce viaggia in linea retta e lo spazio appare
piano, euclideo[6]. E non è forse vero che finora nessuno è
riuscito a dimostrare che il campo elettromagnetico “porti” anche la forza di
gravità? Newton ha dimostrato che la forza di gravità agisce istantaneamente
a distanza (cioè in t = 0) mentre l’onda del campo elettromagnetico non può
superare la velocità della luce: non
potendo agire istantaneamente, come può allora “portare” la forza di gravità?
Ma perché Einstein ha sentito il bisogno di fare del campo elettromagnetico
un campo gravitazionale curvo?
Sarebbe del tutto errato ritenere le teorie di Einstein sbocciate
all’improvviso, in una sorta di deserto, di colpo illuminato dal suo genio di
sconosciuto venticinquenne.
Quest’immagine di Einstein fa parte del mito di Einstein. In realtà, quando apparve negli Annalen
der Physik del 1905 il suo famoso articolo che esponeva la teoria della
relatività ristretta, egli era già da tempo apprezzato collaboratore della
rivista. Il direttore, il grande Heisenberg, lo stimava, pur non conoscendolo ancora
di persona.
L’idea
dello “spazio curvo” era già implicita nel modo in cui era inteso il campo
elettromagnetico dal suo scopritore, Faraday: composto da “linee di forza” curve,
sul tipo delle linee geodetiche. La
curvilineità dello spazio è un portato del concetto di campo
elettromagnetico esteso (da Einstein) a tutto lo spazio, in quanto tale. Altri aspetti della teoria della relatività
generale furono anticipati da Lorentz e Poincaré, anche se fu poi Einstein ad
operare la sintesi, con le sue personali intuizioni. Inoltre, l’idea che non ci
sia distinzione tra lo spazio e la materia che si trova in esso, ovvero che il
vuoto (vacuum) non esista, perché lo spazio sarebbe in ogni dove sempre pieno
(in termini einsteiniani, avente ovunque una densità maggiore di zero), risale addirittura ai Presocratici, fu
teorizzata a fondo da Aristotele e di nuovo riproposta da Cartesio. Ad essa si accodarono Spinoza, Leibniz,
Kant. Einstein, che considerava Cartesio
un precursore quanto alla sua concezione dello spazio, vi introduce la variante,
non da poco, della curvatura costante dello spazio, costituito da
“campi” continui di energia e di materia, sfera increata ed illimitata anche se
finita, retta da un’immanente razionalità che egli poteva anche chiamare “Dio”,
qualche volta, ma (precisò) nel senso di Spinoza (Deus seu Natura,
panteismo radicale). L’immagine del
tutto come sfera è comunque ben presente nel pensiero greco. Per Parmenide il tutto “…è compiuto da ogni
parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni
parte”[7].
Invece con
Newton lo spazio si apre all’infinito, ed è indipendente dalla materia
che contiene. Newton si inscrive nella tradizione di pensiero che concepisce lo spazio come vuoto in sé ed
infinito, presente sin da Democrito ed Epicuro (“gli atomi ed il vuoto”). Secondo la famosa definizione di Newton, “lo
spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane
uguale e immobile”[8]. In questo spazio, spazio del cosmo,
assolutamente indipendente dalla materia e dall’energia, si muovevano i corpi
celesti, si esercitava la forza di gravità.
Secondo Newton, l’identificazione cartesiana di “estensione” e “corpo”
avrebbe reso impossibile il moto stesso dei corpi. Il prof. Rovatti scrive che
Newton “aveva immaginato una forza che tira tutti i corpi uno verso
l’altro”, in uno spazio da intendersi come un immenso “scatolone vuoto”. In realtà Newton, che non era un visionario,
questa forza l’aveva calcolata, servendosi anche delle dimostrazioni di
Galileo. Forse sarà interessante e
fascinoso vedere come aveva fatto, sempre nell’ambito di un’esposizione alla
nostra portata.
3. Inerzia e gravità. Come agisce la forza di gravità? La sua famosa anche se difficile formula
l’abbiamo tutti studiata a scuola: “due
corpi esercitano una forza reciproca che varia secondo l’inverso del quadrato
della distanza tra di loro e in maniera direttamente proporzionale al prodotto
delle loro masse”. Ciò significa che “un
corpo reagisce all’azione di una forza accelerando ossia variando la sua
velocità ogni secondo in modo inversamente proporzionale alla sua massa”[9]. Questa definizione presuppone, come sappiamo,
il principio d’inerzia, già ben intuìto da Galileo, anche se non ancora
come moto rettilineo (“A principiar il moto è ben necessario il movente, ma a
continuarlo basta il non aver contrasto”, aveva scritto da giovane, in una
lettera; e da vecchio, nell’ultima e più importante opera, Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze:
“Imagino un mobile lanciato su un piano orizzontale e rimosso ogni
impedimento: già sappiamo che il moto si
svolgerà equabile [uniforme] e perpetuo sul medesimo piano, qualora questo si
estenda all’infinito”[10]. E perché “basta il non aver contrasto”? Perché il corpo, venuta meno l’azione della
forza che lo ha messo in moto, continua nel suo moto rettilineo uniforme? “Non lo sappiamo, postillava Feynman, è così
e basta”[11].
Secondo la concezione
aristotelica, il corpo in movimento, una volta venuta meno l’azione del suo
motore o movente, avrebbe dovuto fermarsi, se ogni corpo in movimento
presuppone l’azione costante di un motore ovvero di qualcuno o qualcosa
che ne causa il moto. Per questo il vuoto non poteva esistere, per lo
Stagirita, perché la sua presenza avrebbe interrotto l’azione del movente,
richiedente il continuum della materia per mantenersi, e reso impossibile il
moto. Questa concezione del moto, deve
esser inquadrata nel suo contesto.
Dipendeva in primo luogo dalla cosmologia dello stesso Aristotele,
in parte derivata da Platone, fondata sull’idea che la terra fosse una sfera
immobile al centro dell’universo, attorno alla quale ruotavano gli astri (sole
compreso, della cui effettiva grandezza – centodieci volte più esteso della
terra – non si aveva idea) infissi o
immersi nelle sfere celesti. Se la terra
era al centro del cosmo, ogni movimento di traslazione di un corpo doveva esser
concepito in relazione a questo centro, rispetto al quale erano da calcolarsi
l’alto e il basso, verso i quali andavano i moti rettilinei, distinti per
natura da quelli circolari. Ad ogni
corpo doveva poi attribuirsi un movimento naturale, ma si dovevano anche
considerare movimenti per costrizione o contro natura. Il moto doveva poi considerarsi semplice o
composto. Il moto circolare era quello del “corpo primo” ossia dell’etere,
costituente l’ultima sfera celeste o cielo delle stelle (ritenute) fisse. Al sopra di questa sfera c’erano gli dèi, al
di là dello spazio e del tempo. Al di sotto del corpo primo c’erano le sfere,
anch’esse eteree, contenenti i pianeti che però si muovevano di moto composto,
cioè di moto semplice (circolare) coniugato con altri movimenti, cosa che (si
rilevò fin dall’antichità) rendeva poco chiara l’idea del moto dei pianeti[12].
Era questo
uno dei punti deboli del sistema e quindi della concezione aristotelica del
moto. Sulla complessa concezione del
moto di Aristotele e sull’importanza che la sua Fisica ancora conserva
per noi, spero di tornare in futuro.
La moderna
scienza del moto nasceva parallelamente alla scoperta del moto della terra
attorno al sole: bisognava capire come questo potesse avvenire e ciò comportò
una nuova concezione del moto dei corpi, che non poteva più esser inteso in
relazione ad una terra immobile al centro dell’universo. Un ruolo fondamentale lo giocò dunque il principio
d’inerzia, che affermava una verità apparentemente contraria alla recta
ratio. Infatti, se il movimento è
l’effetto di una causa, finita l’azione della causa, come avrebbe potuto
mantenersi da solo il suo effetto?
Ma, oltre che dal moto dei satelliti messi in orbita attorno alla terra,
il principio d’inerzia è confermato proprio dalla legge di gravità. Newton apportò una variante significativa al
principio, sostenendo che l’unico modo di di far cambiar direzione al moto di
un corpo è quello di impiegare una forza. In tal modo il principio d’inerzia veniva
inserito nella dinamica, scienza che indaga il moto studiando le forze
che operano in esso (mentre la cinematica lo indaga prescindendo da
queste forze)[13]. Se il corpo accelera, allora la forza è stata
applicata nella direzione del moto; se devia dal suo corso, la forza è stata
applicata lateralmente. L’intuizione di
Newton era nel senso che “una forza è necessaria per variare la velocità o la
direzione del moto di un corpo”. La legge che governa questa forza è appunto
quella secondo la quale “l’accelerazione prodotta dalla forza è inversamente
proporzionale alla massa” o, detto in altro modo: “la forza è proporzionale alla massa moltiplicata
per l’accelerazione. Quanto maggior
massa possiede un corpo, tanto più grande sarà la forza necessaria a produrre
una determinata accelerazione”[14]. Inversamente proporzionale – la forza – alla
massa, che è la quantità di materia, non al peso, che Newton definisce
come “disposizione centripeta, o propensione verso il centro, di tutto il
corpo”[15].
Uno dei
risultati più importanti dell’applicazione del principio d’inerzia nella legge
di gravità, spiegava Feynman, è che non occorre considerare la presenza di una
forza tangenziale per tenere in orbita il pianeta. Infatti, è l’inerzia del corpo a
rappresentare già di per sé il moto tangenziale all’orbita, moto che il corpo
(il pianeta) terrebbe se non ci fosse l’attrazione esercitata dalla forza di gravità: senza di essa il corpo partirebbe per la
tangente, come si suol dire. Ora, la
deviazione dalla tangente, rappresentata dal moto (in orbita) effettivamente
osservato dal pianeta, “è ad angoli retti rispetto al moto e non in
direzione del moto stesso” ossia trasversale al moto. E questo perché, “la forza necessaria a
controllare il moto di un pianeta attorno al sole non è una forza attorno
al sole bensì verso il sole”[16]. È una forza che attrae verso il sole, una
forza che deve attrarre per vincere la forza d’inerzia del singolo corpo. La realtà dell’inerzia inerente ad ogni
singolo corpo in moto è pertanto dimostrata proprio dall’esistenza della
gravità, in quanto risultante di due forze: quella inerente al corpo (del pianeta) e
quella attrattiva esercitata dal sole.
Se non possedesse forza d’inerzia, il pianeta andrebbe dritto contro il
sole perché mancherebbe una delle due forze necessarie a produrre la risultante
costituita per l’appunto dalla sua orbita attorno al sole.
[1] C. Rovatti, Sette lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014,
p. 48.
[2] Op. cit., p. 16.
[3] Op.cit., pp. 16-17.
[4] Op.cit., pp. 17- 18.
[5] Op.cit., pp. 47-48. Vedi
intervento precedente.
[6] Sul punto,
da ultimo: P. G. Ferreira, La teoria
perfetta. La relatività generale: un’avventura lunga un secolo, tr. it. C.
Capararo e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano, 2014, p. 246.
[7] Parmenide, Poema sulla natura.
I frammenti e le testimonianze indirette. Presentazione, traduzione
con testo greco a fronte, note di G. Reale, saggio introduttivo e commento filosofico
di L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, p. 105 (fr. 8, vv. 42-43).
[8] I. Newton, Principi
matematici della filosofia naturale, tr. it., introduzione e note di A.
Pala, UTET, Torino, 1977, p. 102. Sul
rapporto tra le due contrapposte concezioni dello spazio nell’età moderna, è
sempre fondamentale A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito
(1957), tr. it. di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano, 1970. I capp. 7, 9, 10, 11, sono dedicati a Newton.
[9] R. P.
Feynman, The Character of Physical Law (1965), with an Introduction by
P. Davies, Penguin, 1992, pp. 14-15.
Vedi inoltre: Newton, Principi,
cit., III, Proposizioni I-IX, tr. it. cit., pp. 616-635.
[10] Citazioni riportate da Alberto Pala in una nota di commento alla
newtoniana Definizione III, sul principio d’inerzia: Newton, Principi, I, Definizione III,
tr. it., cit., p. 94. Qualche anno dopo
Galileo, anche Cartesio aveva formulato il principio d’inerzia, in termini
formalmente più rigorosi (sempre Pala, op. cit.).
[11] R. P.
Feynman, The Theory of Gravitation, in ID., Six Easy Pieces. The
Fundamentals of Physics Explained (1965), with an introduction by P. Davies,
Penguin, 1995, pp. 89-113; p. 93: “We do
not know, but that is the way it is”. Richard
Feynman, Premio Nobel, spirito acuto e caustico, è stato uno dei padri
dell’attuale elettromeccanica quantistica. È scomparso nel 1988.
[12] Per questa sintesi della concezione aristotelica del moto,
vedi: Aristotele, De caelo, con
testo greco a fronte, introduzione, testo critico, traduzione e note di O. Longo,
Sansoni, Firenze, 1962, le pp. XI-XX dell’introduzione.
[15] I. Newton, Principi,
Definizione VIII, I libro, tr. it. cit., p. 99.
“La forza subíta da un corpo pesante sotto l’influenza della gravità si
chiama peso. Il peso non è una proprietà
intrinseca del corpo in questione, come invece è la massa, ma dipende sia dalla
massa, sia dal campo gravitazionale in cui il corpo si trova: ad esempio, il peso di un corpo sulla luna è
solo 1/6 del peso che avrebbe sulla superficie della Terra. Nella pratica quotidiana non si fa nessuna
distinzione fra massa e peso, poiché sulla superficie terrestre il campo di
gravità è costante, ma trattando argomenti scientifici i due termini non devono
esser confusi” (Dal Glossario a cura di U. Tartari in appendice a P. G.
Bergmann, Relatività generale e cosmologia.
L’enigma della gravitazione, tr. it. di F. Job, Mondadori, Milano,
1987, p. 207, voce Peso).
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