domenica 6 settembre 2015

8 settembre 1943: La morte della Patria

Destata dal messaggio di Pietro Badoglio, l'illusione intorno alla fine della guerra,  era svanita nel giro di poche ore. Disorientamento e paura incombevano sopra un settembre percosso dall'umiliante e dominante grido tiriamo a campà.
 La voglia di sopravvivere a costo dell'onore si era impadronita anche dei soldati del re, che risalivano la strada polverosa dell'angusta Valbrevenna, ultima e desolata striscia della provincia di Genova.
 L'amor di patria e l'orgoglio militare si erano appiattiti sulla speranza d'incontrare contadini disposti a cedere una povera veste civile in cambio delle ormai inutili divise e dei pochi soldi in saccoccia.
 Nella spogliazione dei soldati vinti e credenti in un futuro illuminato dalla gongolante mitologia intorno alle delizie della sconfitta, un giorno, Mattarella permettendo, si contemplerà, con animo triste, il principio della metamorfosi della virtù italiana, ossia il passaggio dall'esemplare eroismo di Ettore Muti alla cieca e implacabile giustizia di Francesco Moranino.
 La strada statale era battuta dai carri dei tedeschi in rumorosa/irosa discesa su Genova. Dalle finestre affacciate sulla via entravano sgomento e vergogna.
 Dalla Germania si diffuse il messaggio di un duce dalla voce irriconoscibile e coatta. (Le testimonianze e i documenti raccolti dallo storico Renzo De Felice e il carteggio del duce con Claretta Petacci, pubblicato di recente, svelano la verità nascosta dietro quella voce angosciata: Mussolini era prigioniero del furente ricatto dei tedeschi.
 Se il duce non avesse costituito una repubblica alleata i tedeschi avrebbero polonizzato l'Italia. Joseph Goebbels nel suo Diario non mancò di deplorare il duce che non manifestava il desiderio di vendetta sui gerarchi, che lo avevano contestato nella seduta del 25 luglio.
 Intorno alla radio del bar del paese era palpabile l'angoscia dei residenti e degli sfollati, consapevoli della sciagura incombente.
 Tuttavia una folla di giovani, figure dell'italiano nuovo educato da Mussolini, aderì al fascismo ultimo e disperato.
 Forse quei giovani erano consapevoli di appartenere a una impresa finalizzata frenare il disonore della Patria, sofferente sotto le bombe degli implacabili nemici e sotto gli agguati dei traditori festanti.
 Forse sapevano che la loro impresa era destinata a commuovere gli italiani viventi in un lontano futuro. Un avvenire da preparare a prezzo del sacrificio. Non per caso una canzone repubblichina declinava lo stato d'animo dei combattenti che corteggiavano la morte, civetta in mezzo alla battaglia. Dal suo canto Filippo Tommaso Marinetti, nell'inno della X Flottiglia Mas, esaltava i disperati combattenti dell'onore.
 Gli eroi italiani, proposti alla ammirazione dei combattenti erano i martiri, ad esempio Francesco Ferruccio, i repubblicani fratelli Bandiera. Gli studenti genovesi accorsero nei ranghi del battaglione Goffredo Mameli e dimostrarono il loto straordinario valore battendosi contro i carristi inglesi nella difesa della Romagna).
 Venne infine la primavera da Togliatti definita radiosa. La strada della Valbrevenna fu indirizzata a un poligono usato dalla giustizia sommaria per la fucilazione dei fascisti. La polvere della vendetta intossicava l'aria chiusa della vallata. In città i vincitori della guerra civile se la spassavano con le nolenti ausiliare repubblichine.
 Intanto una canzone scritta nei giorni del tramonto repubblichino e rovesciata nella gola trionfante dei vincitori, narrava la disperata ricerca di un bene perduto e cercato nella folla che non sa e non vede il dolore. 
 I non vedenti di quella canzone involontaria sono i vincitori della guerra civile, che disprezzano il sangue versato dai vinti, che festeggiano la infame e disonorante esposizione di piazzale Loreto, che delibano il filmato della fucilazione di Achille Starace (senza capire la dignità del fascista morente).  


Piero Vassallo

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