giovedì 17 settembre 2015

La inesistente ma glorificata insurrezione della Genova partigiana

Le leggi della repubblica italiana esigono che della resistenza si parli in ginocchioni. L'età avanzata e l'artrosi, certificata dal medico della mutua, mi consentono di rimanere tranquillamente seduto. E di affermare che il datato squillo delle trombe resistenziali desta un invincibile disagio. Vivo pertanto il privilegio dell'esenzione dalla genuflessione democratica con una felicità, che è incrementata dalla conoscenza delle notizie vanamente coperte dal gemito storiografico emanato da alte e autorevoli gole.

 Agosto del 1944. Il comandante della divisione tedesca dislocata a Genova, generale Gunther Meinhold, chiese e ottenne d'incontrare il vescovo ausiliare dell'archidiocesi, Giuseppe Siri e, dopo avergli confidato la sua convinzione circa la inevitabile, incombente sconfitta della Germania, gli espose un progetto che contemplava, al momento opportuno, la formale resa ai partigiani e la pacifica ritirata della guarnigione tedesca di stanza a Genova.
 Il 22 aprile del 1945 finalmente Meinhold comunicò al vescovo Siri l'intenzione di sottoscrivere la resa dei tedeschi ai partigiani.
 La decisione di Meinhold non discendeva dalla paura dei nascosti partigiani ma dall'intenzione di evitare inutili spargimenti di sangue e di garantire la  tranquilla evacuazione dei militari tedeschi e la loro consegna agli americani.
 Meinhold non era mosso dal timore di soccombere a una eventuale insurrezione dei partigiani: al suo comando era, infatti, attiva una disciplinata e risoluta guarnigione di seimila combattenti, mentre sulla città erano puntate temibili batterie di  obici e di mortai.
 Il card. Siri, in una memoria pubblicata negli anni Settanta, ha rammentato che intorno al 25 aprile, i partigiani, fedeli al proverbio a nemico che fugge ponti d'oro, si erano dati alla macchia, costringendolo a una faticosa ricerca dei loro prudenti nascondigli. Dopo averli tratti dai loro rifugi, Siri condusse i partigiani nella sede del comando tedesco, dove fu firmato l'atto di resa.
 Prima di essere consegnati agli alleati in marcia su Genova, i prigionieri tedeschi furono fatti sfilare per le vie cittadine allo scopo di accreditare la leggenda (in seguito istituzionalizzata) dell'eroica insurrezione.
 Alcuni reparti tedeschi, disponendo di adeguati mezzi di trasporto,si diressero tuttavia  a Nord, nella speranza  di raggiungere il Brennero e di trovare rifugio in Germania.
 Il vescovo Siri, in sosta nel portico di un palazzo, li osservò sfilare indisturbati nella piazza De Ferrari (luogo della mitica battaglia celebrata da un magniloquente lapida) e dirigersi a Nord.
 Ed ecco che contro l'ultimo camion tedesco si avventò, armato di fucile, un giovane partigiano.  Il vescovo Siri tentò inutilmente di trattenere l'incauto giovane, il quale, uscendo dal portico, sparò alcuni colpi indirizzandoli contro il camion tedesco.
 La risposta dei militari tedeschi fu immediata e l'infelice  partigiano ferito al petto cadde nel centro della piazza. Il vescovo Siri non pote far altro che impartire l'estrema unzione all'agonizzante.  La morte di un eroe disperato segnò l'inizio e la fine della celebrata battaglia di piazza De Ferrari.
 Il rispetto che si deve al caduto non è sufficiente ad abbattere il ridicolo in corsa senza freni nella leggenda narrata agli studenti della scuola dell'obbligo per convincerli a credere nell'eroica vittoriosa battaglia combattuta dai partigiani genovesi.
 Il ridicolo è stato incrementato dalla perizia di un illustre studioso, il compianto Raffaele Francesca, il quale dimostrò che il cannone protagonista dell'immaginaria battaglia di De Ferrari, era un reperto della prima guerra mondiale abbandonato dai tedeschi quale ostacolo alla loro ritirata.


Piero Vassallo

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