domenica 27 settembre 2015

L’ULTIMO LIBRO DI PAOLO PASQUALUCCI, FILOSOFO CATTOLICO: “IL CON-CETTO DELLO SPAZIO”

Da anni Paolo Pasqualucci è impegnato nell’elaborazione di cinque tesi preliminari  alla Metafisica del Soggetto, da ricostruire nel solco della tradizione aristotelico-tomistica e quindi del realismo filosofico, oggi vituperato nei salotti esangui del filosoficamente corretto.  Esce in questi giorni, per i tipi di Giuffré, il secondo volume di questa sua lunga fatica, dedicato a Il concetto dello spazio.  È un poderoso tomo di ben 650 pagine.  Allergico alle gaie quanto superficiali, sgangherate seduzioni del “pensiero debole” oggi imperversante, Pasqualucci ci propone audacemente un’ampia meditazione sul “concetto dello spazio”, visto nei suoi aspetti metafisici, fisici, teologici, in quanto concetto che bisogna ristabilire nei suoi giusti termini, quale primo mattone per una ricostruzione della metafisica[1]
Il primo volume della sua ricerca, uscito cinque anni fa per le Edizioni Spes- Fondazione Giuseppe Capograssi, trattava dei limiti del nostro pensiero, quali risultano in primis dall’impossibilità di pensare simultaneamente a due o più cose diverse. I nostri pensieri e stati d’animo sono sempre in succesione nel tempo, mai simultanei tra di loro.  Questa semplice constatazione dimostra che il tempo esiste come dimensione reale, nella quale opera la nostra mente.
Ma si possono scrivere 650 pagine sul concetto dello spazio, si chiederà il lettore, sia pure in uno stile chiaro e lineare, per nulla accademico?  Il libro è in realtà anche una resa di conti speculativa con la teoria della conoscenza del pensiero moderno, con il soggettivismo in essa imperante, da Cartesio, a Kant, a Heidegger, senza trascurare il pensiero scientifico.  Alla concezione dello spazio-tempo di Einstein viene dedicata un’ampia analisi critica, che alla fine ritorna al punto di partenza originario di ogni nostro pensare, ossia al rapporto tra Dio e lo spazio.  Data la complessità e vastità dell’intreccio elaborato da Pasqualucci, la cosa migliore in sede di presentazione è senz’altro quella di esporre una breve sintesi delle sue poche ma illuminanti pagine introduttive, intitolate “Al Lettore”.
“La prospettiva dell’uomo comune che si cerca di far valere qui non è certamente quella di un beffardo empirismo, rutilante ad esempio nell’invettiva del sulfureo Céline, il quale, cito a memoria, scrisse una volta che “scienziati, astronomi scalmanati chiacchieroni…scocciano a morte…sbavano incomprensibili teorie che matematizzano il nulla…astri la cui luce arriva miliardi di anni dopo, nel frattempo già scomparsi del tutto!”.  Il quisque de populo nel quale mi sono immedesimato vuol esser socratico, se così posso dire, quanto al suo metodo:  analizzare pazientemente e porre domande in tutta semplicità, al fine di giungere al vero, anche senza la pretesa di riuscire a spiegar tutto, cosa del resto rivelatasi impossibile agli stessi uomini di scienza.  La prospettiva che chiamo socratica mira perciò a rivalutare nel giusto modo il senso comune quale facoltà del nostro intelletto capace di sostenerlo nel ripristino di una concezione realistica del mondo, di contro al soggettivismo  dominante, avvitatosi nelle ben note spirali nichiliste, anche in ambito scientifico.”
Il primo passo in direzione di questa rappresentazione realistica – chiarisce l’Autore – è consistito “nell’accertamento di una verità, ampiamente dibattuta nel primo volume della Metafisica del Soggetto, ossia che lo spazio fuori di noi è condizione imprescindibile della nostra conoscenza del mondo esteriore, perchè realtà tridimensionale (estensione e profondità) che, di per sè, consente la stasi e il moto dei corpi e dell’energia, e non perchè “forma a priori della nostra sensibilità” (secondo la celebre formulazione kantiana), forma inconsciamente predeterminata, anteriore ad ogni esperienza  concreta dello spazio stesso”.  Il carattere pleonastico dell’apriori kantiano, risulta già dalla constatazione del “fatto stesso del tempo impiegato dall’immagine dell’oggetto esterno a formarsi nella nostra mente.  È il tempo impiegato dalla luce diffusa a percorrere lo spazio che ci separa dall’oggetto, sommato a quello dei processi fisico-chimici che, dentro di noi, si risolvono nell’immagine compiuta della cosa esistente fuori di noi.  Per renderci conto dell’esistenza di questo tempo, basta sapere che la luce non si propaga istantaneamente ma con una determinata velocità:  non occorre presupporre l’esistenza in noi di un’intuizione immediata del tempo, a priori, indipendentemente da ogni esperienza”. 
Partendo da questa deduzione empirica del concetto dello spazio, Pasqualucci sviluppa un confronto serrato con la concezione kantiana della conoscenza e dello spazio (cui dedica tre capitoli, sugli undici dell’opera), “la cui influenza, piaccia o meno, si è fatta sentire sino alle elaborazioni einsteiniane”.  E non si sottrae al confronto con la “spazialità esistenziale” di Heidegger (nel cap. sesto), “ancora considerato il maggior filosofo del XX secolo, il quale cerca di risolvere in chiave appunto esistenziale, di spazio vissuto, il problema della natura dello spazio”.
Ma il confronto essenziale avviene con le concezioni dello spazio dominanti nella fisica moderna e contemporanea, cui sono dedicati tre capitoli.  Essa, ci ricorda Pasqualucci, “alberga dentro di sé una ‘filosofia della natura’ secondo la quale l’immagine del mondo deve ritenersi curva ed anzi deforme come le figure che si scorgano sul pomo di ottone levigato di una rotonda maniglia di porta.   Ciò che a noi sembra diritto sarebbe in realtà incurvato, ma non come la superficie della terra, cranio di ben polita sfera:  distorto a causa della curvatura dello spazio, deformato  dalla materia che contiene.  Mentre le dimensioni di ogni spazio misurato  sarebbero comunque relative al tempo impiegato dalla luce a portarcene l’informazione (spazio-tempo)”.
   Riflettendo sul quadro offerto dal pensiero filosofico e scientifico, che idea dello spazio se ne ricava?  Ed è un’idea univoca?
“Intuizione a priori della nostra “senbilità” lo spazio, oppure asimmetrica “spazialità” del nostro esser-nel-mondo che si disvela nell’Esserci nostro quotidiano nascondendo lo spazio in sé e per sé, ridotto ad irrilevante comparsa?  Oppure, curvilineità della materia-energia che fa di noi stessi una semplice variazione di densità dello spazio-tempo, una transeunte e quasi invisibile increspatura del tutto cosmico eterno ed increato, come sosteneva lo spinoziano Einstein?”.  Di fronte a queste “ardite concezioni, vibranti di una loro profana escatologia”,  unite tuttavia da un comune sostrato, la negazione dell’esistenza di uno spazio in sé vuoto ed euclideo, sottolinea Pasqualucci, non bisogna deporre le armi e rifugiarsi nel “pensiero debole”, quello che usa come alibi  l’ ossessivo ritornello del tenebroso Heidegger sulla “fine di ogni metafisica” (della quale lui sarebbe stato il volonteroso becchino).  Bisogna, all’opposto, combattere ovvero “confrontarsi con quelle complesse e profonde speculazioni prima di ribadire il sano realismo della rappresentazione dello spazio del senso comune mediante una rigorosa deduzione empirica del suo concetto (nel decimo e penultimo capitolo dell’opera), quale concetto di una realtà euclidea che esiste effettivamente fuori di noi e si lascia cogliere innanzitutto mediante il senso della vista”. 
Ma dalle “disquisizioni metafisiche e fisiche”, rileva Pasqualucci, emerge anche un nodo teologico.   Ne ha offerto lo spunto proprio Kant, “quando affermava che chi non accettava la sua concezione trascendentale dello spazio come nostra intuizione a priori (senza la quale non potremmo conoscere lo spazio come realtà che pur esiste fuori di noi), anteriore ad ogni esperienza, rischiava di cadere nello spinozismo cioè nel materialismo di Spinoza, che faceva della res extensa un attributo di Dio.  Spazio, allora, come attributo di Dio e quindi impossibilità di ammettere l’esistenza di un Dio creatore, assolutamente indipendente dalla realtà del cosmo da Lui stesso creato, ivi compresi lo spazio e il tempo?  Bisognava difendere da quest’accusa la concezione realistica dello spazio.  Tale difesa, che ha comportato (nel capitolo quinto) l’analisi critica del concetto dello spazio come “sostanza corporea” in Cartesio e Spinoza, nonché la difesa di quella dello “spazio assoluto” di Newton, ha riproposto di per sé il tema fondamentale del rapporto tra Dio e lo spazio, sviluppato nell’ultimo capitolo dell’opera”.  In tale capitolo, dopo un’analisi del pensiero dei Padri e dell’Angelico sul tema, l’Autore propone di “considerare come sesta prova dell’esistenza di Dio il modus operandi a distanza ma istantaneo della forza di gravità nello spazio, scoperta fondamentale e crux philosophica della scienza moderna e contemporanea.  Annullando nella sua istantaneità sia lo spazio che iI tempo, tale modus si pone al di fuori delle leggi fisiche da noi conosciute, che non riescono affatto a darne ragione, rinviando pertanto all’intervento di un Agente capace di operare in modo soprannaturale.  Un accenno in tal senso si trova, del resto, in una celebre lettera di Newton ad un suo discepolo”.
Chi ritenesse la critica ai filosofi del passato roba da museo, prosegue Pasqualucci, si sbaglierebbe di grosso:  “Einstein ha visto in Cartesio (che identificava corpo e spazio, negando l’esistenza del vuoto) un precursore del suo concetto dello spazio e si è apertamente professato panteista nel senso spinoziano del termine, con le evidente implicazioni teologiche che ciò comporta, a cominciare dalla negazione (espressa, in Einstein) dell’esistenza di un “Dio personale”, e quindi Creatore e Giudice; credenza per le “anime fiacche”, diceva.”  Perciò, “lo spinozismo con il quale Kant minacciava i suoi critici, è riapparso nella visione del mondo dei Fisici contemporanei, intrecciato (sotto spoglie spesso neopositiviste) ad un kantismo di fondo per quanto riguarda il nesso spazio-tempo e una certa tendenza al soggettivismo dal punto di vista metodologico”.    
Per tutti quei cattolici che si lamentano della colpevole sudditanza del pensiero cattolico al sempre più asfittico e declinante pensiero moderno, questo libro dovrebbe comunque rappresentare una lettura che induce alla speranza di una ripresa della vera metafisica.

Piero Vassallo



[1] P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto II – Il concetto dello spazio, Giuffrè, Milano, pp. 650, 2015.   Chi ne vuole una una copia in omaggio può rivolgersi a:  Fondazione G. Capograssi, Via Savoia, 86, 00198 Roma, tel.  39-06.855.80.65 fax 06.855.88.32 –- e-mail: fond.capograssi@libero.it.  Sono disponibili anche copie in omaggio del primo volume, intitolato:  P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto.  Cinque tesi preliminari – Volume Primo, Ediz. Spes-Fondazione Giuseppe Capograssi, Roma, 2010, pp. 186. 

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