E’ notizia di questi giorni che la nuova fidanzata di
Silvio Berlusconi, l’avvenente Francesca Pascale, visitando in compagnia del
sig. Glauco Guadagno, alias Vladimir Luxuria, il Gay Village, ha dichiarato
ufficialmente che Forza Italia farà sua la questione dei “diritti civili” degli
omosessuali compresa quella del matrimonio tra persone dello stesso sesso con
tanto di possibilità di adozione di figli.
Secondo la Pascale anche Berlusconi è d’accordo. Forza
Italia aprirà un apposito dipartimento interno per i “diritti civili” dei gay (1).
In Italia siamo bravi ad imitare quanto, prima di noi,
fanno all’estero ed a tale esterofilia non sfugge neanche il centro-destra.
L’allineamento dei liberal-conservatori italiani all’omofilia, infatti, segue
quello già inaugurato da Cameron in Inghilterra. Il partito conservatore
inglese ha, infatti, aperto da tempo al riconoscimento del matrimonio tra gay.
I maligni, per la verità, dicono che l’apertura di Cameron si è resa necessaria
per via del fatto che l’alta società inglese è talmente avvezza, e non da oggi,
alle trasgressioni sessuali omo-erotiche che il vecchio partito della classe
dominante ha dovuto prendere atto della miserabile realtà umana, nascosta
dietro la facciata ipocrita del moralismo anglicano di stile vittoriano, di una
élite la quale, del resto, è nata dalla stessa incontenibile lussuria di Enrico
VIII.
In questa virata del conservatorismo liberale verso il
relativismo etico affiorano, finalmente con chiarezza, le basi individualiste –
che non possono non portare ad esiti nichilisti – proprie anche al
conservatorismo di matrice anglosassone, ponendo così fine all’equivoco che ha
irretito in Italia i cattolici di sensibilità conservatrice e tradizionalista
che, in nome della difesa dei “principi non negoziabili” (e che tali certamente
sono), hanno finito per avvallare l’Occidente liberale nella sua inquietante ed
ambigua proiezione globale.
Dopo questa virata annunciata dalla Pascale, che,
vista la incipiente demenza senile ed erotomane del Cavaliere, è ormai la voce
ufficiale di Berlusconi e ha un peso decisivo in Forza Italia, possiamo
immaginarci la faccia dei tanti teocons italofoni i quali, militando in
associazioni catto(old/neo)cons, da “Alleanza Cattolica” alla sezione italiana
di “Tradizione Famiglia e Proprietà”, da “Lepanto” a CL versione terzo
millennio, hanno contribuito a schierare la sensibilità di vasti settori del
cattolicesimo politico a sostegno del conservatorismo euro-occidentale ed, in
casa nostra, del centro-destra berlusconiano.
Chissà se, quando si tornerà a votare, potremo vedere
la bella scenetta dei Massimo Introvigne, dei Marco Respinti, degli Andrea
Morigi, dei Luigi Amicone, dei Rocco Buttiglione, delle Daniela Santanché, dei
Maurizio Gasparri, dei Roberto De Mattei, che insieme a Luxuria intoneranno il
noto inno “Meno male che Silvio c’è!”.
Magari circoleranno anche libri del tipo “Il Paradiso
degli omosessuali” frutto delle fatiche letterarie di note penne
catto-conservatrici (2).
Per il momento possiamo solo constatare che mentre
organi mediatici di riferimento di tali ambienti catto-cons, come “La Nuova
Bussola Quotidiana” ed “Il Timone”, sembrano tacere, sono altri organi di
stampa del centro-destra, da “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a “Il Giornale” o
“Libero” (per il disappunto, immaginiamo, in quest’ultimo caso, del suo
editorialista Antonio Socci, tanto ottimo scrittore cattolico in cose religiose
e storico-religiose quanto pessimo invece in quelle filosofico-politiche che
sembrano, per lui, tutte ridursi soltanto ad un anticomunismo da anni ’50), a
suonare i peana, o almeno dare spazio, al permissivismo conservatore, con tanto
di decantazione della tollerante “sana laicità” di cui l’Occidente sarebbe
debitore al Cristianesimo e che lo distingue dall’Islam “terrorista”.
Né possiamo dire che, d’altro canto, brillino per
coerenza i rigoristi di certo tradizionalismo cattolico – quello sempre
pronto ad auspicare nuovi regimi di cristianità fondati sul diritto naturale,
come se bastasse il monopolio del potere politico ed un bel decreto per
rievangelizzare il mondo ex cristiano – dopo le tristi vicende che hanno visto
per protagonisti, come nel caso dei Legionari di Cristo e del loro fondatore
Marcial Maciel Degollado, i loro vertici.
Tutto questo è detto, da parte nostra, con estremo
dolore e non certo per la mera compiacenza del “lo avevo detto”.
Tuttavia non ci è neanche possibile non ricordare a
tanti amici di sentimenti conservatori o conservatori-liberali quanto abbiamo
spesso, da parte nostra, loro ammonito ossia che l’esito “relativista” del
conservatorismo era facilmente prevedibile facendo un po’ più di attenzione al
soggettivismo di cui esso, soprattutto in area anglosassone, si nutre, in
particolare sotto quella sua peculiare forma, come nel caso di Edmund Burke,
della riduzione della Tradizione ad un mero costituzionalismo
“abitudinaristico” o “consuetudinaristico” dagli evidenti connotati storicisti,
nel senso che si tratterebbe del diritto costituzionale non scritto in quanto
storicamente consuetudinario, ossia sviluppatosi all’interno della vitalistica
“kultur” popolare, ed introiettato per abitudine nella coscienza del singolo
cittadino/suddito. Una cosa alquanto diversa dal riconoscimento di un Ordine
Etico, fondato sul Logos e fondamento del Kosmos, che la coscienza è sì
chiamata a riconoscere ma non per abitudine quanto, invece, per accoglienza,
alla Luce della Rivelazione, della realtà ontologicamente donativa dell’uomo e
del mondo.
Diluendo, come fanno appunto i conservatori, con una
forte dose di soggettivismo “romantico” la Tradizione, il risultato non può che
essere quello dello scioglimento del consuetudinarismo nel contrattualismo
sociale con l’accettazione inevitabile dell’individualismo e di conseguenza del
liberalismo, nell’inedita formula del liberal-conservatorismo o, se si vuole,
del conservatorismo liberale. In altri termini, nella formula politica old whig
e in quella religiosa anglicano-presbiteriana.
Per dirla con Joseph Ratzinger «Il liberalismo
economico si traduce sul piano morale nel suo esatto corrispondente: il
permissivismo» e viceversa (3).
Certi settori ecclesiastici, anche a causa delle
ambigue indicazioni della stessa gerarchia, sono stati indotti, dai loro
“cattivi maestri”, a credere che, a fronte del relativismo etico teorizzato e
praticato dalla sinistra, difendere la famiglia naturale ed il diritto naturale
significa, per contro ed automaticamente, sposare il conservatorismo politico e
sociale unito al liberismo economico.
Secondo detto schema la difesa del diritto naturale e
familiare fa tutt’uno con politiche liberiste ed antistatualiste laddove il
relativismo sarebbe l’inevitabile e sempre conseguente portato di ogni tendenza
“solidarista”, se non apertamente “socialista”, tanto nella sua versione
statualista-keynesiana che in quella socialdemocratica (liberal in
America).
Un tragico errore di prospettiva, questo, che
impedisce di vedere quanto, in fin dei conti, sia il conservatorismo che il
progressismo si nutrano della stessa filosofia di matrice individualista.
Chi difende la famiglia naturale, nella sua
indissolubilità, e più in generale i “corpi intermedi”, deve chiedersi per
quale recondito motivo una società, fondata appunto sulla stabilità familiare,
dovrebbe, poi, connotarsi per le sue politiche economiche liberistiche nel
tripudio del più dissolvente individualismo e non dovrebbe, al contrario,
essere anche socialmente conservatrice nei riguardi dei rapporti di lavoro e
dell’economia e quindi rigettare, insieme alla libertà assoluta del mercato,
ogni forma di precarizzazione del lavoro, di facilità per le imprese di
scaricarsi del “peso” dei lavoratori e di facilità di delocalizzare
assecondando una concezione non solo irresponsabile ma anche antinazionale
dell’azienda, dunque contraria al diritto di natura dal momento che anche
l’“appartenenza nazionale” è appunto “diritto di natura” cui il capitale, non
solo il lavoro, deve soggiacere.
Non dovrebbe, infatti, un conservatore opporsi alla globalizzazione
ed alla liberalizzazione del movimento dei capitali, se davvero è la stabilità
sociale quella che ha a cuore una “conservative mind” e non invece
l’utilitarismo antisociale dell’interesse egoistico?
Insomma chi si sente conservatore sul piano etico
entra in contraddizione con sé stesso quando, sul piano sociale, inalbera la
bandiera del liberismo. Con l’aggravante che l’antirelativismo etico diventa,
in tal caso, una farisaica ed ipocrita copertura ad usum plebis, come appunto
dimostrano da secoli l’aristocrazia di sangue e finanziaria britannica e quella
solo finanziaria americana.
Chi invece, progressista, difende il lavoro stabile,
una concezione sociale dell’impresa, critica la globalizzazione e la
liberalizzazione dei movimenti di capitale, e vorrebbe una maggiore stabilità
sociale anche nei rapporti di lavoro ed economici, dovrebbe chiedersi come si
possa pretendere tutto questo e contemporaneamente apprezzare il relativismo
etico ossia lo scioglimento facile di ogni relazione familiare, la
parificazione a quella naturale di altre forme precarie, quindi revocabili ad
nutum, di convivenza, il “contratto a tempo determinato” applicato al
matrimonio laddove invece lo si rigetta nell’azienda, la reificazione del feto,
reso un “prodotto organico” di cui sarebbe possibile sbarazzarsi come si fa con
i residui di qualsiasi produzione, laddove si osteggia giustamente la
reificazione del lavoratore da parte del capitale che vuole usarlo e poi
gettarlo via come uno straccio.
Il progressista, preoccupato degli attacchi sempre più
virulenti al Welfare, dovrebbe avere il coraggio di ammettere apertiis verbis
che è stato proprio il relativismo etico, ciecamente propugnato dalla sinistra,
a consentire la debacle finanziaria dello Stato sociale permettendo alle forze
liberal-conservatrici di riacquistare terreno fino allo smantellamento quasi
totale del Welfare.
Prendiamo, ad esempio, il sistema pensionistico,
grande e meritoria conquista di civiltà. Nato in un mondo di solidi legami
familiari e di civica solidarietà sociale, esso si reggeva, fino a pochi anni
fa, sul metodo a ripartizione che consentiva a tutti, appunto
solidaristicamente ossia indipendentemente da quanto versato da ciascuno al
fondo pensione statuale (in Italia, l’Inps) in proporzione del proprio reddito,
di avere, dopo una vita di lavoro, una pensione pari, o quasi, a quella massima
goduta dai più abbienti. Il metodo a ripartizione funzionò fino a che, grazie a
flussi demografici costanti nella popolazione, il numero di chi usciva dal lavoro
per la pensione ed il numero di chi invece, giovane, entrava nel mondo del
lavoro, cominciando a versare contributi previdenziali alla cassa comune,
rimase pressoché in equilibrio e tendenzialmente alla pari. Sicché ciascun
giovane lavoratore sosteneva un vecchio pensionato potendo aspettarsi a sua
volta che un domani un altro avrebbe sopportato il peso della sua vecchiaia.
Insomma un sistema di solidarietà intergenerazionale
che aveva per presupposto la stabilità della famiglia. Ma, successivamente, a
partire dalla rivoluzione antropologica permissivista e
individualistico-libertaria del ’68, stretto da scelte politiche scellerate
che, per motivazioni clientelari, acconsentirono alle cosiddette “baby
pensioni”, ossia a privilegi per particolari categorie che così anticipavano di
parecchio l’età pensionabile, e contemporaneamente dallo sfaldamento della base
contributiva dovuto alla disarticolazione dell’istituto familiare con
conseguente crollo demografico, l’equilibrio tra lavoratori attivi e lavoratori
pensionati si ruppe e ciascun lavoratore in attività venne a trovarsi a
sostenere anche tre pensionati, con conseguente squilibrio finanziario nella
sostenibilità del sistema di Welfare pubblico.
Questo tracollo, causato dal permissivismo etico, ha
rimesso in gioco quelle forze liberiste che mirano allo smantellamento del
sistema previdenziale pubblico, in nome del libero mercato (nel caso di specie,
il mercato delle assicurazioni e quello dei fondi pensioni privati che poi sono
anche parte di quei “mercati finanziari” alla continua ricerca di occasioni
speculative per accrescere le bolle finanziarie al fine di assicurare ai propri
soci il dovuto ed al tempo stesso far lucrare agli azionisti i massimi e più
subitanei possibili guadagni).
Per il momento tali forze sono riuscite a soppiantare
il metodo a ripartizione con quello a contribuzione, per il quale ciascuno,
individualisticamente, otterrà una pensione meno che proporzionale, dato il
calcolo che ora è fatto mediamente sull’intero arco della vita lavorativa, a
quanto versato in termini di contributi previdenziali, ed ad introdurre, benché
al momento solo come complementare a quello pubblico, il sistema delle
assicurazioni previdenziali private. Ma non si può escludere che in un futuro,
forse neanche tanto lontano, le forze neoliberiste riusciranno ad eliminare
completamente il sistema previdenziale pubblico in favore del sistema
assicurativo privato, sicché della propria pensione ciascuno sarà responsabile
sulla base della propria individuale capacità contributiva. Inutile dire che
chi non riuscirà a versare nulla, o verserà poco, andrà ad aumentare le fila
dei vecchi e degli indigenti davanti alle mense della Caritas.
Un discorso analogo potrebbe farsi per il sistema
sanitario pubblico, anch’esso nato in un mondo di solidi legami sociali ed ora
travolto, in favore della sempre più presente, ma per pochi, sanità privata,
dal tracollo demografico che ha ristretto la base fiscale e contributiva sulla
quale si reggeva originariamente il sistema.
La sinistra progressista deve fare un “mea culpa”
grande quanto la catena himalayana per aver accettato il radicalismo libertario
permissivista o, come lo chiamava Augusto Del Noce, neoborghese trasformando i
suoi partiti storici in partiti radical-chic di massa.
La destra liberal-conservatrice, fino alla attuale
svolta “libertaria”, e la sinistra social-progressista si sono spartite il
peggio del relativismo, etico e sociale, assegnandosi reciprocamente, l’una
all’altra, la rappresentanza politica ed elettorale di una metà del medesimo
“individualismo auto-deterministico” che sta alla loro radice. Ma, sempre fino
alla virata permissivista ora in atto nel campo conservatore, hanno anche fatto
proprio, specularmente, quanto di meglio vi è nell’“antirelativismo”, anche in
questo caso assegnandosene, reciprocamente, ciascuna la rappresentanza politica
di una metà.
Sorge, a questo punto, spontanea una domanda: non
sarebbe stato compito e missione storica, in questo tempo, del Cattolicesimo
politico opporsi a questa artificiale suddivisione e rivendicare a sé,
contemporaneamente, sia l’antirelativismo etico che l’antirelativismo sociale e
proporre una politica fondata inseparabilmente e paritariamente tanto sui
“principi etici non negoziabili” quanto sul “solidarismo sociale” nella miglior
tradizione cattolico-sociale, che non è solo “sussidiarista” ma anche
“comunitarista” e pertanto non repellente nei confronti della statualità intesa
nel suo giusto e riconosciuto ruolo di Comunità politica?
Ma, tornando alla questione principale di questo
intervento, se la svolta libertaria nel campo conservatore arriva solo ora, non
bisogna dimenticare che quella verso l’accreditamento del neoliberismo nel
campo progressista l’ha anticipata. Non certo in Italia – dove anzi la vediamo
configurarsi, contestualmente alla svolta etico-permissivista nel centro-destra
berlusconiano, soltanto in questi giorni nel PD renziano, con il contemporaneo
mal di pancia della vecchia, anche in senso generazionale, sinistra
catto-comunista (bersaniani-civatiani-vendoliani) – ma all’estero sì.
A partire, ad esempio, dal neolabour di Tony Blair in
Inghilterra, che tanto piaceva alla City finanziaria, e dal clintonismo negli
Stati Uniti, che aboliva la Glass Steagall Act permettendo la libera attività
speculatrice da parte delle mega banche trans-nazionali tipo Goldman Sachs,
fino al neosocialismo libertario di Zapatero in Spagna, che contenendo le
rivendicazioni salariali favorì l’afflusso di capitali finanziari ed il
formarsi di bolle speculative, poi drammaticamente esplose, ed alla
socialdemocrazia tedesca di Schröder che con le riforme Hartz, le stesse che
oggi Renzi propone per l’Italia, ha precarizzato il mercato del lavoro a solo
vantaggio del capitale – lavoro che così torna ad essere, contro l’auspicio del
buon Leone XIII a fine XIX secolo, soltanto una merce liberamente quotata sul
mercato come ogni altra merce.
La verità, la quale poi spiega sia la virata
permissivista dei conservatori sia quella liberista dei progressisti, è che
nella “società liquida”, come descritta da Zygmunt Bauman, nessun legame può
pretendere per sé la stabilità che fu tipica della “società solida”, ossia
della società antica tanto pre-moderna quanto, benché in forme artificiali e
non più “naturali”, moderna.
Nel post-moderno trionfa l’“Unico” di Stirner – che
non casualmente è il pensatore cult degli anarcoliberisti –, trionfa il
solipsismo assoluto con i suoi oscuri retroterra “magico-idealisti”. Il “cogito
cartesiano” giunge, nell’età postmoderna, al termine della sua parabola storica.
Ed, infatti, nella “società liquida” nient’altro trova legittimazione per gli
uomini di questa miserabile epoca se non il proprio “io” che si fa signore e
giudice di ogni morale, proclamando inesistente qualunque altra morale se
non coincide con la soggettiva manifestazione del proprio egoismo innalzato al
rango di “diritto dell’uomo”. Tutto il reale è, idealisticamente, ricondotto
all’“io” e di esso viene affermato essere soltanto una manipolabile, a
piacimento, proiezione.
Se il mondo è proiezione del mio “io” non c’è,
pertanto, nulla che possa intromettersi tra me e la mia libido dominandi, sia
che essa si esprima come lussuria sia che essa si esprima come potere
finanziario ed economico. Sicché ogni legame, familiare, nazionale o sociale,
che è di impedimento alla realizzazione del mio “individualismo assoluto” è da
abbattere come violenza che mi si vuol fare, come negazione della mia libertà
totale. L’altro da me, cristianamente parlando il “mio prossimo”, diventa, come
diceva Sartre, il nemico, l’inferno esistenziale.
Con buona pace di Diego Fusaro, l’alienazione non è
nella Trascendenza ma nel suo disconoscimento, nella protervia di false
religiosità – quella ideocratica, che si accompagnò alla modernità, quella
della merce-feticcio, in particolare nella sua forma di “merce virtuale” quali
sono i “prodotti derivati”, che è esplosa nella post-modernità contrassegnata
dalla liberalizzazione e dall’egemonia del capitale finanziario – che l’essere
umano, naturaliter religiosus, si costruisce da sé quando è privato degli
autentici orizzonti rivelati dell’Oltre-immanente, radice, fondamento e anima
dell’aldiquà.
L’alienazione, quella vera e definitiva, è soltanto
questa ossia il misconoscimento della propria umile condizione creaturale di
figli uniti dallo Spirito nel Figlio del medesimo unico Padre, quale fondamento
stesso della sola possibile relazionalità non utilitaristica che è concessa
all’uomo.
La finanza ed il capitale sono gli agenti post-moderni
di tale alienazione – quella dell’homo faber fortunae suae per la quale la
vita, i beni e la stessa libertà non sono dono da condividere ma egocentrismo
da affermare ed imporre – non meno di quanto nella modernità lo sono stati la
volontà di potenza della politica e della tecnologia.
L’unica sovrastruttura, ossia falsa coscienza,
esistente è solo quella dell’“eritis sicut Dei”, ovvero la deformazione
ontologica del cuore umano sedotto dall’idea dell’auto-deificazione, che nella
vicenda storica ha trovato svariate manifestazioni le quali sembrano oggi tutte
convergere nell’autoreferenzialità del potere finanziario globale.
L’autoreferenzialità, appunto, dell’“io” che, misconosciuta la propria
creaturalità, si erge a “dominus” mediante l’adorazione luciferina del
denaro-feticcio nella pretesa assoluta sua libertà di azione, contro ogni
morale eteronoma alla quale oppone la propria morale autonoma nella rivendicata
coincidenza della “verità” e del “bene” con l’utile egoistico.
Questa libertà, tuttavia, è essenzialmente necrofila e
porta alla morte dell’uomo, tanto nella sua singolarità quanto nella sua
relazionalità.
L’“amore omosessuale”, inevitabilmente infecondo,
sterile, privo della stessa possibilità di donare vita – salvo quella
artificiale e prometeicamente manipolabile della “provetta” – quindi, in fondo
egoistico ed autoreferenziale, fa il paio, come faccia della stessa medaglia,
con l’“amore per il denaro dal denaro” altrettanto autorefenziale ed
altrettanto sterile ed improduttivo perché socialmente, ed anche
economicamente, distruttivo, usuraico, speculativo, infecondo di quel bene che
è la dignità di un lavoro onesto e stabile per tutti.
Questa è la lezione che conservatori e progressisti,
“destri” e “sinistri”, dovrebbero comprendere come necessario ed inevitabile
presupposto della ricerca di alternative ad un mondo di liquidità relazionale e
di individualismo collettivo.
Senza prima aprire gli occhi su quanto siamo andati
dicendo non c’è alcuna possibilità di smascherare e quindi sconfiggere il vero
“nemico del genere umano”, il cui suadente sibilare riecheggia, in ogni epoca,
sin dall’alba dei tempi.
Luigi
Copertino
NOTE
1) Naturalmente, onde evitare alla
lobby la solita, inutile, stantia fatica dell’alzata di scudi politicamente
corretta, diciamo subito che qui non è in discussione il rispetto dovuto alla
persona dell’omosessuale in quanto, appunto, essere umano. Né è in discussione
il rafforzamento di ogni tutela giuridica contro le violenze psico-fisiche, gli
abusi anche verbali e le discriminazioni in ordine al lavoro o all’accesso ai
pubblici uffici ed ai servizi pubblici a danno delle persone omosessuali. Ogni
genere di persecuzione contro gli omosessuali è non solo ingiusta ma anche stupida.
Quel che è qui in discussione è la pretesa, anche questa profondamente
ingiusta, degli omosessuali organizzati di far passare la loro condizione (che
non è affatto una libera scelta) come qualcosa di normale per trasformare in
anormalità l’eterosessualità, fino a voler equiparare le unioni tra soggetti
dello stesso sesso a quelle tra soggetti di sesso diverso e ad accampare,
contro e nell’incuranza del diritto dei minori ad avere un padre ed una madre,
la pretesa di adottare figli. Che gli omosessuali convivano o abbiano forme
giuridicamente riconosciute di unione non è la questione centrale. Quel che è
la questione dirimente è se tali unioni debbano essere sotto un profilo
giuridico identiche al matrimonio eterosessuale con conseguenti diritti e doveri,
ad iniziare dalla educazione della prole naturalmente impossibile a concepirsi,
per sterilità intrinseca del rapporto, nell’unione omosessuale. I rapporti di
dare ed avere come quelli ereditari tra omosessuali possono semplicemente
essere regolati, con qualche correttivo al fine di semplificazione e
precisazione, con le norme già vigenti del codice civile, ad iniziare dalla
donazione. Certamente lo Stato non può sempre tradurre in legge penale quel che
è per la morale naturale illegittimo (in certi casi, come ad esempio per
l’omicidio, lo Stato invece può e deve tradurre l’illecito morale anche in
illecito penale). Ma la pretesa di indifferenza da parte dello Stato rispetto
al contenuto umano, ossia alla eterosessualità, del matrimonio non è sostenibile
neanche nei termini della laicità, dal momento che quest’ultima non esula dal
riconoscimento di quanto la realtà oggettiva delle cose impone. Non a caso,
l’omofilia fa leva, per accreditarsi contro ogni evidenza oggettiva,
sull’ideologia del gender che pretende, illusoriamente, di fare della
sessualità una libera e soggettiva scelta individuale. E con questo siamo già
al cuore della questione da noi in questo articolo trattata che è lo svelamento
ultimo del soggettivismo come matrice profonda dello stesso conservatorismo,
soprattutto se di importazione anglosassone.
2) L’ironico riferimento è al libro
intervista di Rino Cammilleri al banchiere Ettore Gotti Tedeschi «Denaro e
Paradiso – I cattolici e l’economia globale», Lindau. Un tentativo di
accreditare, contro Max Weber, l’etica calvinista in casa cattolica, facendo
risalire al medioevo, dunque ad epoca precedente la Riforma, le radici del
capitalismo liberista. Peccato che il maggiore storico dell’età di mezzo,
Jacques Le Goff, abbia ritenuto del tutto impresentabile una tale tesi (cfr. J.
Le Goff «Il mito del Medioevo capitalista» in Avvenire, del 15.10.2010).
3) Cfr. Vittorio Messori «Rapporto
sulla Fede – a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger», Mondadori,
1993, p. 83.
Nessun commento:
Posta un commento