"Eia
eia alalà" di
Giampaolo Pansa
Le due anime del
fascismo:
la conclamata violenza
e la dimenticata cultura
Giampaolo
Pansa unisce l'onestà dello storico di polso a una rara padronanza di quella
lingua italiana, patibolo cui sono avviati gli stenterelli d'insuccesso
e/o di effimero successo.
La
felice unione del suo piacevole stile di narratore con la meticolosa ricerca
d'archivio ha prodotto "Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo", cronaca
& romanzo del fascismo, che invita a una lettura dotta e
piacevole. Il libro in questione, appena uscito dai torchi di Rizzoli, è
destinato a riscuotere un successo straordinario.
Pansa
stabilisce la verità intorno alla causa dell'insuccesso socialista: nel 1919 la
sinistra era "un gigante paralizzato da due spinte contrarie e
inconciliabili. Quella dei massimalisti, rivoluzionari negli slogan,
però incapaci di scatenare la rivoluzione predicata di continuo. E quella dei
riformisti, che non osavano andare al governo neppure quanto i partiti della
borghesia democratica li invitavano a farlo".
E di
seguito riconosce che le contraddizioni - i nodi del socialismo "vennero
sciolti con un colpo di spada dell'offensiva squadrista. Un blitz che ebbe
inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre
del 1922".
Di qui lo svolgimento
di un racconto in cui la puntuale e veritiera rievocazione del fatto storico
corre parallela al romanzo delle incertezze politiche e dei roventi amori
vissuti dall'immaginario autore di un memoriale consegnato a Pansa da una
vecchia compagna di studi.
Il
protagonista del racconto è un ricco agrario, reduce dalla grande guerra, che
vive nel crocevia tra le interessate simpatie per le camicie nere e i dubbi
destati dai metodi spietati, dalle implacabili rivalità cameratesche e
dagli esiti per lui deludenti della rivoluzione fascista.
Pansa
ricostruisce puntualmente e senza sbavature la storia delle violenze compiute
dai fascisti di Casale Monferrato, Alessandria e Mortara, in risposta
all'azione sovversiva dei socialisti.
La sua
agile e mai macchinosa prosa rammenta altresì e documenta la sequela di abusi,
violenze e corruzioni, che accompagnò l'ascesa del fascismo alla dittatura.
La
convincente rievocazione di Pansa ha solo un difetto, dimentica che il fascismo
(forse anche nell'area di Casale Monferrato) non si esprimeva soltanto nella
violenza esercitata da manganellatori professionisti: fu anche e sopra tutto
espressione del pensiero elaborato da un robusto e autorevole fronte
culturale, che comprendeva interventisti (Gabriele D'Annunzio, ad esempio),
futuristi (Filippo Tommaso Marinetti), vociani (Giovanni Papini e Giuseppe
Prezzolini), neoidealisti (Giovanni Gentile),
e cattolici refrattari al partito di don Sturzo (Francesco Orestano).
La
dottrina del fascismo, senza nulla concedere al nostalgismo di De Maistre,
avviò inoltre una puntuale critica al bifido risultato - liberalismo e
socialismo - del pensiero sedicente moderno.
Il
fascismo non fu la versione estrema/feroce della proverbiale Beozia. Pansa,
autore che mai cede alla tentazione della menzogna, omette tuttavia di rammentare che la
maggioranza degli studiosi italiani condivise e sostenne apertamente il
progetto fascista.
Singolare
ed eloquente, ad esempio, è il caso di Luigi Pirandello, che chiese la tessera
del Pnf nel giorni dell'insorgenza popolare causata dall'assassinio di Giacomo
Matteotti.
L'adesione
massiccia degli intellettuali, peraltro, si misura dal numero - ben sedici -
dei professori dell'università di Napoli epurati da Adolfo Omodeo nel 1944.
L'epurazione
degli studiosi fu attenuata e infine sospesa quando fu evidente che il suo
perfetto compimento avrebbe decapitato la cultura italiana. In seguito gli
intellettuali italiani, atterriti dalla sconfitta, si convertirono all'antifascismo,
ma questa è un'altra storia.
La
riduzione della vicenda fascista a impresa di bruti, ignoranti e mascalzoni è
pertanto un'impresa difficile. Oltre tutto non furono pochi gli studiosi uccisi
dagli antifascisti e i molti giovani intellettuali che partirono volontari e
caddero in combattimento.
In
definitiva: non si può demonizzare il fascismo senza travolgere e squalificare
la storia culturale del Novecento italiano.
r
L'errore
e l'orrore hanno abitato in tutti i palazzi edificati dalla politica. La
venerata democrazia, dei moderni, ad esempio, fu battezzata con il
sangue innocente delle carmelitane di Compiègne e delle benedettine di Orléans
e con quello incolpevolmente frivolo della regina Maria Antonietta.
La
differenza tra palazzo e palazzo risiede nella misura dell'orrore. Nella casa
del fascismo, ad esempio, il delitto razzista fu un abitatore occasionale e
marginale. Non così nella casa germanica.
Silvano
Panunzio, ha raccontato che suo padre, autorevole fascista della prima ora,
fece visita a Mussolini alla vigilia della promulgazioni delle leggi razziali e
gli dichiarò che una legge capace di colpire anche gli amici valorosi e fedeli
(ad esempio Giorgio Del Vecchio) oltre che migliaia di innocenti, era una
pessima legge. Pallido in volto e in silenzio, Mussolini accompagnò alla porta
il suo animoso critico.
Dal
novembre del 1938 al settembre del 1943, gli ebrei italiani subirono
ingiustizie e umiliazioni ma nessuno di loro fu deportato o assassinato.
L'abbacinante
paradosso del razzismo italiano si legge nella vicenda esemplare del console
generale Alberto Liuzi, caduto nella battaglia di Guadalajara il 12 marzo del 1937. A dimostrazione
dell’irrazionalità delle leggi antisemite, il regime fascista gli assegnò la
medaglia d’oro alla memoria e gli intitolò un sommergibile, che (con un nome
ebraico) condusse azioni di guerra fino all’aprile del 1941, quando fu
affondato dagli inglesi.
L'avventizio
antisemitismo dei fascisti è inescusabile ma non può essere associato all'ideologia
dello sterminio nazista.
Furono
peraltro numerosi e mai ostacolati da Mussolini i fascisti che si opposero
all'arresto e alla deportazione di ebrei italiani in Germania. Il questore di
Fiume Giovanni Palatucci, ad esempio, poté sventare il piano degli alleati tedeschi grazie al sostegno del
governo italiano, che, nella primavera del 1943, gli consentì di trasferire in
Basilicata (su un treno speciale) gli ebrei fiumani, che i nazisti intendevano
deportare in Germania.
Nella
relazione scritta dal comandante delle Ss, che effettuarono il rastrellamento
nel ghetto di Roma, si legge che in alcune case, sicuramente abitate da ebrei,
la porta fu aperta ai tedeschi da uomini in camicia nera, chiaramente impegnati
a confondere i persecutori per proteggere i veri inquilini.
E'
certo (e il libro di Pansa in qualche modo lo conferma) che la tragica
inclinazione della guerra fascista alla inevitabile sconfitta produsse scelte
contraddittorie: Giovanni Gentile, Barna Occhini e i redattori della rivista
fiorentina "Italia e Civiltà", ad esempio, sostennero la
necessità della pacificazione nazionale, altri (e fra loro i terroristi in
camicia nera, che agivano tra Alessandria e Casale) scelsero la via della
ferocia disperata. Ad ogni modo l'azione violenta delle camicie nere fu
parallela a quella dei partigiani comunisti.
Durante
l'angosciante eclissi dell'amor di patria, in cui fu combattuta la guerra
civile 1943-1945, non tutti i fascisti furono neri e non tutti partigiani
furono candidi.
Infine
non furono pochi gli intellettuali in camicia nera, che percorsero, seguendo il
nobile esempio di Gentile, la via della moderazione e della carità, senza
obbedire alle sirene dell'opportunismo.
Tali
uomini pagarono con la vita una difficile e imperdonabile scelta. La loro
testimonianza non può essere consegnata al libro dell'obbrobrio, dal momento
che un perseguitato ebreo, il professor Ketteler, definì parricidio l'uccisione
di Gentile, l'uomo che l'aveva aiutato a sfuggire ai nazisti.
Piero Vassallo
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