giovedì 2 ottobre 2014

Le due anime del fascismo

"Eia eia alalà" di Giampaolo Pansa

Le due anime del fascismo:
la conclamata violenza e la dimenticata cultura

  Giampaolo Pansa unisce l'onestà dello storico di polso a una rara padronanza di quella lingua italiana, patibolo cui sono avviati gli stenterelli d'insuccesso e/o di effimero successo.
 La felice unione del suo piacevole stile di narratore con la meticolosa ricerca d'archivio ha prodotto "Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo", cronaca & romanzo del fascismo, che invita a una lettura dotta e piacevole. Il libro in questione, appena uscito dai torchi di Rizzoli, è destinato a riscuotere un successo straordinario.
 Pansa stabilisce la verità intorno alla causa dell'insuccesso socialista: nel 1919 la sinistra era "un gigante paralizzato da due spinte contrarie e inconciliabili. Quella dei massimalisti, rivoluzionari negli slogan, però incapaci di scatenare la rivoluzione predicata di continuo. E quella dei riformisti, che non osavano andare al governo neppure quanto i partiti della borghesia democratica li invitavano a farlo".
 E di seguito riconosce che le contraddizioni - i nodi del socialismo "vennero sciolti con un colpo di spada dell'offensiva squadrista. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922".
 Di qui lo svolgimento di un racconto in cui la puntuale e veritiera rievocazione del fatto storico corre parallela al romanzo delle incertezze politiche e dei roventi amori vissuti dall'immaginario autore di un memoriale consegnato a Pansa da una vecchia compagna di studi.
 Il protagonista del racconto è un ricco agrario, reduce dalla grande guerra, che vive nel crocevia tra le interessate simpatie per le camicie nere e i dubbi destati dai metodi spietati, dalle implacabili rivalità cameratesche e dagli esiti per lui deludenti della rivoluzione fascista.
 Pansa ricostruisce puntualmente e senza sbavature la storia delle violenze compiute dai fascisti di Casale Monferrato, Alessandria e Mortara, in risposta all'azione sovversiva dei socialisti.
 La sua agile e mai macchinosa prosa rammenta altresì e documenta la sequela di abusi, violenze e corruzioni, che accompagnò l'ascesa del fascismo alla dittatura.
 La convincente rievocazione di Pansa ha solo un difetto, dimentica che il fascismo (forse anche nell'area di Casale Monferrato) non si esprimeva soltanto nella violenza esercitata da manganellatori professionisti: fu anche e sopra tutto espressione del pensiero elaborato da un robusto e autorevole fronte culturale, che comprendeva interventisti (Gabriele D'Annunzio, ad esempio), futuristi (Filippo Tommaso Marinetti), vociani (Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini), neoidealisti (Giovanni Gentile),  e cattolici refrattari al partito di don Sturzo (Francesco Orestano).
 La dottrina del fascismo, senza nulla concedere al nostalgismo di De Maistre, avviò inoltre una puntuale critica al bifido risultato - liberalismo e socialismo - del pensiero sedicente moderno.   
 Il fascismo non fu la versione estrema/feroce della proverbiale Beozia. Pansa, autore che mai cede alla tentazione della menzogna,  omette tuttavia di rammentare che la maggioranza degli studiosi italiani condivise e sostenne apertamente il progetto fascista.
 Singolare ed eloquente, ad esempio, è il caso di Luigi Pirandello, che chiese la tessera del Pnf nel giorni dell'insorgenza popolare causata dall'assassinio di Giacomo Matteotti.
 L'adesione massiccia degli intellettuali, peraltro, si misura dal numero - ben sedici - dei professori dell'università di Napoli epurati da Adolfo Omodeo nel 1944.
 L'epurazione degli studiosi fu attenuata e infine sospesa quando fu evidente che il suo perfetto compimento avrebbe decapitato la cultura italiana. In seguito gli intellettuali italiani, atterriti dalla sconfitta, si convertirono all'antifascismo, ma questa è un'altra storia.
 La riduzione della vicenda fascista a impresa di bruti, ignoranti e mascalzoni è pertanto un'impresa difficile. Oltre tutto non furono pochi gli studiosi uccisi dagli antifascisti e i molti giovani intellettuali che partirono volontari e caddero in combattimento.
 In definitiva: non si può demonizzare il fascismo senza travolgere e squalificare la storia culturale del Novecento italiano. 

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 L'errore e l'orrore hanno abitato in tutti i palazzi edificati dalla politica. La venerata democrazia, dei moderni, ad esempio, fu battezzata con il sangue innocente delle carmelitane di Compiègne e delle benedettine di Orléans e con quello incolpevolmente frivolo della regina Maria Antonietta.
 La differenza tra palazzo e palazzo risiede nella misura dell'orrore. Nella casa del fascismo, ad esempio, il delitto razzista fu un abitatore occasionale e marginale. Non così nella casa germanica.
 Silvano Panunzio, ha raccontato che suo padre, autorevole fascista della prima ora, fece visita a Mussolini alla vigilia della promulgazioni delle leggi razziali e gli dichiarò che una legge capace di colpire anche gli amici valorosi e fedeli (ad esempio Giorgio Del Vecchio) oltre che migliaia di innocenti, era una pessima legge. Pallido in volto e in silenzio, Mussolini accompagnò alla porta il suo animoso critico.
 Dal novembre del 1938 al settembre del 1943, gli ebrei italiani subirono ingiustizie e umiliazioni ma nessuno di loro fu deportato o assassinato.
 L'abbacinante paradosso del razzismo italiano si legge nella vicenda esemplare del console generale Alberto Liuzi, caduto nella battaglia di Guadalajara il 12 marzo del 1937. A dimostrazione dell’irrazionalità delle leggi antisemite, il regime fascista gli assegnò la medaglia d’oro alla memoria e gli intitolò un sommergibile, che (con un nome ebraico) condusse azioni di guerra fino all’aprile del 1941, quando fu affondato dagli inglesi. 
 L'avventizio antisemitismo dei fascisti è inescusabile ma non può essere associato all'ideologia dello sterminio nazista.
 Furono peraltro numerosi e mai ostacolati da Mussolini i fascisti che si opposero all'arresto e alla deportazione di ebrei italiani in Germania. Il questore di Fiume Giovanni Palatucci, ad esempio, poté sventare il piano  degli alleati tedeschi grazie al sostegno del governo italiano, che, nella primavera del 1943, gli consentì di trasferire in Basilicata (su un treno speciale) gli ebrei fiumani, che i nazisti intendevano deportare in Germania.
 Nella relazione scritta dal comandante delle Ss, che effettuarono il rastrellamento nel ghetto di Roma, si legge che in alcune case, sicuramente abitate da ebrei, la porta fu aperta ai tedeschi da uomini in camicia nera, chiaramente impegnati a confondere i persecutori per proteggere i veri inquilini.
 E' certo (e il libro di Pansa in qualche modo lo conferma) che la tragica inclinazione della guerra fascista alla inevitabile sconfitta produsse scelte contraddittorie: Giovanni Gentile, Barna Occhini e i redattori della rivista fiorentina "Italia e Civiltà", ad esempio, sostennero la necessità della pacificazione nazionale, altri (e fra loro i terroristi in camicia nera, che agivano tra Alessandria e Casale) scelsero la via della ferocia disperata. Ad ogni modo l'azione violenta delle camicie nere fu parallela a quella dei partigiani comunisti.
 Durante l'angosciante eclissi dell'amor di patria, in cui fu combattuta la guerra civile 1943-1945, non tutti i fascisti furono neri e non tutti partigiani furono candidi.
 Infine non furono pochi gli intellettuali in camicia nera, che percorsero, seguendo il nobile esempio di Gentile, la via della moderazione e della carità, senza obbedire alle sirene dell'opportunismo.

 Tali uomini pagarono con la vita una difficile e imperdonabile scelta. La loro testimonianza non può essere consegnata al libro dell'obbrobrio, dal momento che un perseguitato ebreo, il professor Ketteler, definì parricidio l'uccisione di Gentile, l'uomo che l'aveva aiutato a sfuggire ai nazisti.

Piero Vassallo

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