In occasione di questo inizio del sinodo
sulla famiglia, voluto da Francesco I, una rivista in rete riporta l’omelia
pronunciata da Benedetto XVI il 3 giungo 2012 a Milano, al VI Incontro mondiale delle famiglie, la riproduce quasi a dimostrazione
dell’ortodossia da lui ivi professata.
Mi atterrò al tema precipuo del discorso
tenuto due anni fa, perché, dovendo considerare la validità rivendicata al
Vaticano II (pure citato nello stesso discorso) da chi presiedette all’adunanza,
dovrei passare ad altre conclusioni, ad altre conseguenze.
Va riconosciuto che l’oratore formulò
concetti in linea col corretto magistero: la creazione del maschio e della
femmina umani tenuti a procreare, il sacramento del matrimonio sancito da Gesù
Cristo, le unioni familiari dei figli della Chiesa necessarie nondimeno alla
società, la loro comunione universale, e questa universalità realizzata secondo
il mandato della predicazione evangelica, mentre dalla parola non deve andar disgiunto
il precetto dell’amore e il suo esempio da rappresentare.
Fin d’ora però, notiamo come, accennando alla
similitudine del matrimonio di Cristo con la Chiesa, venga tralasciato il
carattere di capo (ben evidente nella lettera paolina) attribuito al marito e come
esso scompaia nella pari dignità dei coniugi, pur ammettendosi le loro
attitudini complementari. Restano anche assenti in ogni dove l’attributo cattolico e il termine Corpo mistico. Per giunta, spuntano
alcuni errori, del resto conformi all’insegnamento dell’ultimo concilio:
“Il vostro amore è fecondo innanzitutto per
voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene l’uno dell’altro […] È
fecondo poi nella procreazione, generosa e responsabile…”
Ci ritroviamo di fronte ai fini del matrimonio.
Una questione basilare. Invertendo i fini, si dà credito, tra l’altro, alle
false buone ragioni che determinano la crisi coniugale. Infatti l’amore
coniugale si presta all’equivoco, è duplice: sentimento affettuoso, caritatevole
secondo Cristo + sentimento particolare dell’attrazione tra i sessi (da non
confondere con il naturale impulso posto all’origine dell’accoppiamento) che
può scemare o cadere senza motivo di pregiudizio per il sacro vincolo.
Ora, la chiesa sempre stabilì che la
generazione dei figli costituisce lo scopo primario, mentre quello secondario
consiste nel rimedio alla concupiscenza, e l’amore reciproco è moderato dalla
carità, restando ad essa subordinato. Il divario tra la concezione tradizionale
e quella successiva è dogmaticamente notevolissima.
Purtroppo il primo posto erroneamente
assegnato all’amore equivoco rientra nella normalità. La gerarchia e i fedeli
del passato appaiono almeno superati, e la risoluzione più comoda sarebbe, al
solito, quella giusta. Gesù prescrisse la rinuncia, consigliò di prendere la
croce, i santi l’adottarono e la benedissero, ma chi se ne ricorda? I cristiani
evoluti, adulti e risvegliati ritengono, in pratica, che la croce sia un
insulto alla loro dignità. Perciò propendono stoltamente per la pietosa eutanasia.
Così, tra le raccomandazioni rivolte a
genitori e figli, escono il “coltivare il dialogo”, il “rispettare il punto di
vista dell’altro”, in una benevolenza incondizionata, che non si cura
dell’ammonizione fraterna, del separarsi dagli ostinati nel travisare la fede,
nel dare scandalo, nella disubbidienza, che ci sono sempre; eccome se ci sono!
E l’omissione di tale opera di misericordia spirituale e di tale precauzione
anche recitata nell’Atto di dolore (“propongo
di fuggire le occasioni prossime del peccato”) vanno in continuità con la
precedente sopravvalutazione e compiacenza verso l’amore coniugale.
Torniamo al punto di maggior interesse. “Una
parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli insegnamenti
della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento
e di separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra
fatica. Vi incoraggino a rimanere nelle vostre comunità, mentre auspico che le
diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza”.
Con queste frasi termina il passo del
discorso, che lascia una vacuità destinata ad essere riempita nel modo
prevedibile e peggiore.
Intanto, si considerano solo i fedeli che
presumibilmente “condividono gli insegnamenti della chiesa sulla famiglia”.
Dobbiamo supporre che non ci si curi di quelli che non li condividono o credono
di condividerli sbagliando? Sembra di no. La preoccupazione di incoraggiare “a
rimanere nelle vostre comunità” e le “adeguate iniziative di accoglienza e
vicinanza” non sarebbero necessarie per chi accetta la legge di Dio e cerca di
comportarsi di conseguenza. Dunque l’ambiguità, dopo la mancanza delle
opportune precisazioni di monito: indissolubilità del matrimonio validamente
contratto, dovere per i coniugi separati di astenersi dal divorzio e dal
concubinato, perdita per il pubblico peccatore (divorziato risposato o
concubino) del diritto a ricevere la comunione. Fin da quando gli usi del
paganesimo contrari all’indissolubilità del matrimonio erano ancor vivi, i
Padri (vedi san Cipriano e sant’Agostino) si pronunciarono per il divieto di
somministrare la Particola ai peccatori notori e impenitenti.
Preso spunto dall’unità della famiglia
cristiana, il popolo credente è definito: “popolo che – come insegna il
Concilio Vaticano II – deriva la sua unità dall’unità del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo (Cost. Lumen gentium,
4)”.
La comunione dei santi, figli di Dio per
adozione, avviene nel Corpo mistico, del quale Cristo è il capo. L’unità della
Trinità si deve alla natura divina e al concerto delle tre Persone, con cui i
fedeli sono uniti mediante il battesimo e la permanenza nella Chiesa, ma con
cui non hanno una stessa divina unità. Benedetto XVI intendendo significare e
ricordare che l’unione dei fedeli “deriva” dall’unità di Cristo nella Trinità,
il concetto resta comunque astruso, atto a eludere quello chiaro e tondo
possibile, che identifica la Chiesa col Corpo mistico.
“Occorre educarsi a credere, prima di tutto
in famiglia, all’amore autentico, quello che viene da Dio e ci unisce a Lui e
proprio per questo ci trasforma in un Noi, che supera le nostre divisioni e ci
fa divenire una cosa sola, fino a che, Dio sia tutto in tutti (1 Cor. 15, 28)”.
C’era bisogno di questa interpretazione
tendenziosa data alle parole dell’Apostolo delle genti e smentita, prima di
Giovanni XXIII, dagli esegeti e dai teologi accreditati presso la Santa Sede? E
che cosa c’entra ora, per noi, la prospettiva millenaristica o evoluzionistica
per la quale si avrebbe infine un’unità umana redenta, benedetta, quando Dio
sarebbe o potrebbe essere tutto in tutti?
Sì, ce n’era bisogno per far uscire dalla sensazione
d’impotenza tanta gente che, non mettendosi in pari con la dottrina del Vangelo
e coi sacramenti, disfaceva le famiglie, o che vedeva attorno a sé la loro rovina
in aumento, anziché in diminuzione. E un’illusione d’essere sulla buona strada
risolutiva serve adesso a mascherare l’inutilità piuttosto empia d’un sinodo,
che pretende di trattare una materia già definita in modo ampio e dogmatico. Un
sinodo indirizzato a consentire la violazione della legge eterna e il
sacrilegio; un sinodo il cui esito sia per indurre più facilmente al divorzio e
alla convivenza colpevole coloro i quali si ritroveranno forzati a esercitare
la virtù faticosa cui si sono sottratti, senza che ne venga un rimedio del male
commesso e del peccato.
Piero Nicola
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