Perché non possiamo
dirci antifascisti
L'ipoteca comunista
sul Novecento cattolico
La complessità e la varietà delle
scuole di pensiero e degli stati d'animo in circolazione durante il ventennio
scoraggiano il qualunque tentativo di definire con esattezza il pensiero
prevalente nelle dottrine del fascismo [ad esempio il neo-idealismo che informa
la dottrina proposta da Giovanni Gentile e il neotomismo che qualifica la
dottrina di Carlo Costamagna] e ancor più di unificare i moventi e le ragioni
delle adesioni al regime.
Fascismo rimane pertanto un concetto
generico e sfuggente, che si presta purtroppo alle più infondate
interpretazioni e ai più bizzarri e intrepidi usi.
La variegata maggioranza degli intellettuali
del Novecento italiano, ad ogni modo, aderì senza motivazioni o riserve di
scuola al regime fascista.
Tra il 1922 e il 1943 condivisero o nutrirono
simpatia per la politica di Mussolini i futuristi, i neoidealisti, i
nazionalisti, i vociani, i dannunziani, i pirandelliani, i nietzschiani, i
neopagani, i maghi eleusini, i ginnasti tantrici e, insieme con loro,
autorevoli pensatori e studiosi cattolici, quali Agostino Gemelli, Nicola
Petruzzellis, Carmelo Ottaviano, Pietro Mignosi, Michele Federico Sciacca,
Armando Carlini, Amintore Fanfani, Giulio Bonafede, Guido Manacorda, Domenico
Giuliotti, Piero Bargellini ecc.
Poche e fragili le eccezioni al consenso totalitario:
alcuni intellettuali adamantini, che la vulgata al potere giudica assolutamente
refrattari, ossia Benedetto Croce, editore di una rivista stampata sulla carta
assegnata dal duce, il sentenzioso Norberto Bobbio, scrittore di suppliche al
bieco tiranno, Giacomo Noventa, collaboratore del Frontespizio e
banditore dell'intesa dei cattolici con
i fascisti, Cesare Pavese, autore di un diario segreto, nel quale si legge il
consenso alla rivoluzione sociale proposta dai fascisti dell'ultima ora.
L'analfabetismo in camicia nera è dunque un
argomento che naufraga nel ridicolo, quando
la cultura del ventennio è messa al confronto con la patetica, umiliante
ristrettezza dell'opposizione italiana al fascismo.
"Fascismo", infine,
diventa una parola jettatoria e ricattatoria, quando è usata dai poteri
forti, dagli iniziati e dagli orfani di
Marx per scongiurare il rischio rappresentato dalla temuta presenza di
cattolici fedeli alla tradizione nazionale cioè in sintonia con l'Italia di San
Francesco, di San Tommaso d'Aquino, di Santa Caterina da Siena e di San Pio X.
Esito della ridicola mitologia televisiva
intorno alla selvaggia ignoranza dei fascisti è la fumante coda di paglia, che
gli strateghi comunisti e laicisti hanno applicato ai democristiani e ai preti
pavidi, al fine di neutralizzarli, addomesticarli e modernizzarli.
Dal fumo di quella resistente coda esce
l'estenuazione del pensiero cattolico cioè l'incauta apertura alla modernità
degli illuminati, fedeli a Jacques Maritain e ai suoi interpreti
degasperiani e/o dossettiani.
A 69 anni dalla morte di Mussolini, il
bruciante e ostinato fumo della suddetta coda di paglia, si diffonde ancora ed
ispira, ad esempio, la goffa dichiarazione di un autorevole prelato, secondo il
quale sarebbe serio ed opportuno rammentare che il Beato Giovanni Battista
Montini fu un antifascista sfegatato, ove sfegatato è sinonimo di
fanatico.
Antifascismo fanatico e progressismo, a
prescindere dalla scarsa credibilità della notizia sul viscerale
antifascismo di Paolo VI, che a suo tempo apprezzò il Maritain autore di Antimoderno,
sono i motori italiani della deprimente scolastica, che ha impoverito e
alterato la cultura politica dei cattolici squalificando e incapsulando le idee
tradizionali contaminate dalla condivisione fascista.
L'antifascismo di prammatica, infatti, ha
cancellato dall'orizzonte della cultura cattolica la riforma corporativa dello
stato moderno (quale fu concepita da
Giuseppe Bottai e dai suoi collaboratori nella Normale di Pisa), l'intervento
dello stato nell'economia e il progetto di far partecipare i dipendenti alla
gestione dell'impresa.
Trapiantato sul corpo della filosofia politica
dei cattolici l'antifascismo ha in seguito prodotto la svolta indirizzata alla
censura delle scelte, con le quali i cattolici avevano risposto alle sfide
delle rivoluzioni moderne di stampo liberale e socialista.
Il marchio antifascista è impresso a fuoco
sulla purgante e conformistica ideologia dell'ex fascista don Giuseppe
Dossetti, suggeritore dell'avventuroso cardinale Giacomo Lercaro e ispiratore
degli scolarchi bolognesi, Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni, gli
intellettuali che hanno avviato un movimento inteso ad allineare la teologia
cattolica al pensiero progressista, declinante nelle torbidezze postmoderne.
Ovviamente, la confutazione e il rifiuto
dell'antifascismo non possono essere indirizzati alla riabilitazione e al riuso
della cultura onnivora del ventennio.
Si deve invece tentare il riscatto delle idee
cattoliche - il corporativismo e il superamento della gestione capitalistica
dell'impresa, l'intransigenza sul matrimonio, la difesa della maternità - che
furono adottate dall'avanguardia fascista e pertanto rifiutate da quella
censura resistenziale, che agisce tuttora nel cuore del pensiero
catto-progressista.
La via d'uscita dalle rovine
democristiane/degasperiane/dossettiane, sulle quali è costruita l'attuale subordinazione
dei clericali ai postcomunisti e ai radical-chic festanti nel Pd, è pensabile
solamente al prezzo di un vero atto di audacia finalizzato alla
riappropriazione delle idee cattoliche sepolte sotto la strumentale valanga
dell'antifascismo.
Senza il coraggio della ribellione allo
storico ricatto della sinistra, la politica d'ispirazione cristiana non ha
altro futuro che la perfetta flessione nel Pd, cioè la capitolazione al furore
pederastico, all'allucinazione malthusiana, alla genetica mostruosa, al
dissesto sociale e al regresso economico. Un futuro miserabile discendente
dalla tenerezza clericale allo striscio fra le righe della nuova
teologia, che associa falsa misericordia, disordine strutturale e thanatofilia.
Piero Vassallo
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