Nel 1991 il regista americano Sidney Lumet
girò Un'estranea fra noi, coinvolgente e mellifluo film teologico,
interpretato con straordinaria bravura da Melanie Griffith ed Eric Thal.
Lumet
usò un'esile storia gialla quale pretesto per mettere in scena e (quasi)
risolvere il dilemma che divide in due emisferi la cultura degli ebrei
americani: vivere secondo l'antica teologia e perciò sottostare agli estenuanti
formalismi della cabala oppure inseguire l'estrema, disinibita allegria
moderna, che è profetizzata dall'erotismo felicitario, danzante nei film
stucchevoli e zuccherosi prodotti a Hollywood e interpretati da Fred &
Ginger gli ispiratori di Fellini?
Simbolo
dell'oscillazione tra i misteri della cabala e il rampante erotismo
cinematografico, il film di Lumet svela le incertezze e le contraddizioni della
società ebraica d'oggi, narrando l'amore
tormentato tra una rovente poliziotta newyorchese, che professa
l'ideologia disinibita e neopagana dei postmoderni, e un severo rabbino, che
dedica il suo tempo allo studio e alla sequela dell'esoterismo cabalista.
Il
finale del film sembra alludere all'irrealizzabilità del compromesso tra i generi
culturali in circolazione nel tradizionale e nel moderno
(americanizzato) ambiente ebraico.
Se non
che, tra le sottili e intriganti righe dei dialoghi, s'intravedono i segni di
una via indirizzata al superamento della discordia tra la religione ebraica e
il paganesimo hollywoodiano.
Ricorrendo
alla sottile e quasi sfuggente rappresentazione di allusivi simboli - la danza
sacra dei cabalisti e la perpetua danza profana dei desolanti Fred Astaire e
Ginger Rogers - entra in scena la insospettata somiglianza tra cabala e Kama
Sutra e tra musica sacra e rock and roll.
In sostanza,
Lumet fa intravedere la possibilità di armonizzare e comporre il rigore
cabalistico con l'edonismo e la permissività hollywoodiani.
Il
messaggio nascosto nel film, in ultima analisi, propone la continuità
della cabala esoterica nella filosofia spicciola professata dai cineasti ebrei
(e non ebrei, ovviamente) che nella Mecca del cinema e nelle sue
succursali all'estero, lavorano alla propaganda degli strumenti della (pseudo)
felicità profana.
Lumet è
lontano dal cattolicesimo e (verosimilmente) ignaro dell'accusa di
disertare/mutilare la teologia biblica, che, prima del disgraziato Concilio
ecumenico Vaticano II, i cattolici
rivolgevano ai pensatori ebrei in allontanamento dalla fede messianica.
Ma la
sottile/sotterranea rappresentazione cinematografica del dilemma - Gerusalemme
o Hollywood? - che agita non pochi ebrei d'America, ripropone (forse senza
intenzione) il dogma extra Ecclesiam nulla salus, un classico assioma di
quell'apologetica, che fu affievolita e quasi spenta dai teologi ecumenici e
heideggeriani (Karl Rahner) e fumettisti (il felliniano Jorge Mario Bergoglio,
ad esempio) rampanti nelle agitate sessioni del Vaticano II e nel
post-concilio.
Quando
si osservano le oscure/eterodosse suggestioni - di lontana origine frankista -
che agitano la cultura ebraica d'età contemporanea - la trasformazione marxiana della fuga dal
faraone in emancipazione dalla fede monoteista; la drastica contestazione
freudiana della religione di Mosé; l'ateologia neognostica di Walter Benjamin,
Ernst Bloch e Jacob Taubes; la fumosa estetica di Theodor Adorno, il rigetto
della legge naturale da parte di Hans Kelsen e Jurgen Habermas; le estreme
trasgressioni lodate e generosamente finanziate da Georg Soros e Bill Gates -
il rischio di una caduta della cultura
degli ebrei d'America nel paganesimo ovvero l'incombere di una conversione ai
miti danzanti a Hollywood, si rivela tutt'altro che remoto.
L'ignoranza
dell'esatto contenuto dei testi del Talmud a monte dell'opinione
insinuata dal film di Lumet, sconsiglia la formulazione di un giudizio [che
espresso in questa sede sarebbe temerario] sulle affinità correnti tra
l'ebraismo dell'epoca neotestamentaria e la cultura di Hollywood.
E'
pertanto auspicabile che il dialogo tra ebrei credenti e cattolici fedeli alla
tradizione, tra Israele e resto d'Israele non sconfini in una
incresciosa polemica sul coinvolgimento di intellettuali ebrei nella
cinematografia neopagana. L'esemplare svolgimento del film di Lumet induce
tuttavia a compiere una scelta oggi teologicamente scorretta ossia
a rammentare il rischio incombente
sull'avventuroso dialogo degli ecumenisti cattolici con il complesso e
variegato mondo ebraico.
Rischio
che, secondo il dotto teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli, un pensatore
che in nessun modo può essere accusato di anti-ebraismo, consiste nella
tendenza "a smorzare le pur profonde differenze che esistono tra
ebraismo e cristianesimo".
L'incauta
affermazione di Bergoglio, che dispensa gli Ebrei dalla conversione a Cristo, è
misura della crisi di identità, che è stata confermata dall'andamento bizzoso
del recente sinodo dei vescovi
Sarebbe
quindi destinato a naufragare nel paradosso un dialogo tra ebrei e cattolici
condotto senza le precauzioni necessarie a scongiurare il rischio di dimenticare
la resa ai miti e ai sollucheri ideologici, nel film
simbolico/enigmatico/esoterico, miti rappresentati dal tip-tap eseguito, dai ballerini Fred
Astaire e Ginger Rogers.
Il mistico
tip-tap prefigura anche i cedimenti all'ecumenismo (in realtà sincretismo/trasformismo)
di non pochi credenti (teologi, vescovi, cardinali, papi) contemporanei.
Impostato
secondo i criteri del buonismo, il confronto tra l'antico e il nuovo - il
tradizionale e il moderno - oscura
l'orizzonte teologico e, per un verso, ottiene il rafforzamento delle ambiguità
circolanti nel mondo ebraico, per l'altro desta fra i cattolici la
irresistibile tendenza ad approvare e ossequiare gli ebrei la qualunque cosa
essi dicano o facciano.
Il già
citato Padre Cavalcoli non nasconde il timore che "oggi la Santa
Sede abbia nei confronti degli Ebrei un atteggiamento di eccessiva indulgenza e
quasi di adulazione".
Posto,
ad esempio, che il danzatore Fred Astaire apparteneva al popolo ebreo, quale è
la conseguenze che un cattolico buonista può trarre dall'espressione - gli
ebrei sono nostri fratelli maggiori -
pronunciata da Giovanni Paolo II durante
la visita alla sinagoga di Roma e confermata/accelerata da Francesco I, secondo
il quale gli Ebrei non devono convertirsi: sono cristiani anche se non credono
in Cristo? Forse si deve sostenere seriamente che Bergoglio è il fratello
minore di Fred Astaire e/o di Lumet nella fede? Nella fase
storica in cui impunite monache cantano la canzone blasfema della Ciccone forse
si può osare tanto?
Il
suono grottesco e deragliante di tali ipotesi indurrebbe a dubitare che
Giovanni Paolo II abbia inteso dire che gli ebrei sono attualmente eredi
legittimi di Abramo, il padre di tutti i credenti.
D'altra
parte è noto che l'autorevole teologo Brunero Gherardini ha escluso che i fratelli
maggiori costituiscano tuttora il popolo eletto, in base a un'esatta
interpretazione delle tesi di San Paolo (specialmente Rom., 9, 6-12: fratello
maggiore è Esaù, fratello minore Isacco).
La tesi
di mons. Gherardini è stata confermata solennemente dal sinodo dei vescovi
mediorientali riuniti in Roma nell'ottobre del 2010.
Un
eminente illustre studioso cattolico, Francesco Mercadante, di recente, ha
rammentato, con formula perfetta, l'abolizione della primogenitura e il
livellamento dei compensi ai vignaiola della prima ora - i cir4concisi - e a
quelli dell'ultima ora - i gentili: "Paolo sovverte l'ordine del mondo
conferendo alle genti la legittimazione nella dignità della primogenitura
spirituale, da esercitare come retaggio di un popolo di Dio fatto tutto di
primogeniti, senza distinzioni di merito tra circoncisi e incirconcisi, come
pure, passando al compenso, tra operai della prima ora e operai della
undicesima ora" [1].
Luigi
Copertino, ha infine rammentato che Benedetto XVI, "non ha esitato,
nonostante le stridule grida della sinagoga, a riproporre le preghiere del
Venerdì Santo per la conversione degli ebrei".
E
questo sia suggel ch'ogn' omo sganni (Inf. XIX, 21). Dovrebbe.
Separato
dalla teologia paolina della storia e gettato nelle gambe ubiquitarie del più
inconsulto e zuccheroso ballo hollywoodiano, il dialogo tra ebrei e cattolici
si ridurrebbe alla declinazione di umoristici malintesi, danze modernistiche,
finzioni teologiche, acrobazie storiografiche, adulazioni scivolose e
avventurose obliquità.
La
presunta carità, opponendosi ostinatamente all'intransigentissima verità, si
dissolverebbe nell'aria fritta emanata dalle colonne sonore, che accompagnano
l'evasione cinematografica e televisiva a buon mercato.
Una
seria considerazione del problema, d'altra parte, non può nascondere la verità
non hollywoodiana e pre -felliniana sul popolo ebraico, che, lo ha rammentato
Julio Meinvielle, "è un popolo sacro, scelto da Dio tra tutti i popoli
per compiere la missione salvifica dell'umanità apportandoci, nella sua carne
il Redentore" [2].
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