Escono
contemporaneamente due volumi, La libertà tirannia di Luigi Taparelli
d'Azeglio s. j., presentato da Gianandrea de Antonellis ed edito da Solfanelli in
Chieti, e Libera e una! L'età del Risorgimento fra Tradizione e Rivoluzione di
Corrado Camizzi, edito da Thule in Palermo. Si tratta di due testi
divergenti/convergenti, nei quali sono esposte le ragioni del frazionismo
legittimista e del movimento unitario.
Taparelli
d'Azeglio, contestatore irriducibile del progetto unitario, nel 1860 dichiarava
la sua avversione scrivendo, nella Civiltà Cattolica: "Chi è che
non abbia udito la stampa libertina gridare altamente che un popolo non è
greggia di pecore, che i popoli non si vendono? Or bene ecco il Piemonte
condannato dalla propria iniquità ad entrare risolutamente i codesto traffico
di carne umana: eccolo chiedere all'Austria che venda la Venezia ed il resto
della Lombardia, agli Estensi Modena, ai Borboni Parma, al Pontefice le
Romagne".
Ineccepibile alla luce
della giurisprudenza pura, l'accusa di padre Taparelli d'Azeglio
tendeva a sottovalutare i diritti associati all'esistenza reale di una storia e
di una cultura nazionale contraria alla discesa degli europei lurchi.
La
carta geopolitica dell'Italia pre-unitaria, cara ai legittimisti, era, di
fatto, disegnata dall'alleanza dei dominatori stranieri con i tiranni
nazionali, oltre che dal fantasma della inesistente donazione costantiniana.
Emblema
della disunità è pertanto il Maramaldo, mercenario al servizio di Carlo V,
partecipe al sacco di Roma e assassino
di Francesco Ferrucci.
La
legittimità rivendicata in buona fede da Taparelli d'Azeglio era in realtà il
prodotto di odiose invasioni straniere (quasi figure della spada di Brenno) e
di spregevoli opportunismi e tradimenti italiani.
Interprete
insigne della destra nazionale, Camizzi riconosce che "l'Italia nacque
come formazione politica, nel breve volgere di due anni e in maniera sostanzialmente
eversiva, fu cioè il frutto di una serie di usurpazioni, malamente rabberciate
da alquanto improbabili plebisciti".
Se non che Camizzi, a
differenza del Taparelli e dei suoi anacronistici continuatori, Angela
Pellicciari ad esempio, rammenta che "i principi italiani videro la
maggiore garanzia di stabilità, anziché nel consenso e nella fiducia dei loro
popoli, nella protezione di una potenza europea interessata a garantire, con la
sua influenza omogeneità a sicurezza".
Al
proposito, Camizzi cita la tesi di Francesco Leoni, secondo cui "nel
clima della Restaurazione si manifestarono due tendenze nell'opinione pubblica
di sentimenti controrivoluzionari, quella di coloro che ritenevano doversi
almeno prendere coscienza di quanto era accaduto nell'arco di venticinque anni
e dunque adattare la strategia del movimento sanfedista ad una realtà che, bene
o male, era mutata e quella degli intransigenti, che respingevano ogni modifica
introdotta introdotta nelle menti e nel contesto socio-politico dalla Rivoluzione
francese e dall'esperienza napoleonica".
La
radice dell'avversione al risorgimento è la conclamata incapacità di vedere e
il tarlo assolutista in azione devastante nelle monarchie europee e, al suo
seguito, la folle pretesa di sottomettere le chiese nazionali.
Non è
dunque possibile contestare la puntuale sentenza di Camizzi: "non si
può difendere in sede storica un mondo che rappresenta un passato senza alcun
avvenire, come pretenderebbero di fare gli storici revisionisti più
radicali".
Le disoneste ombre
della massoneria garibaldina, giustificano il rifiuto della malsana
strategia liberale, non il rifiuto di un bene prezioso e inalienabile quale è
l'unità della Patria.
La
critica dei metodi, in definitiva, non può e non deve rovesciarsi nel rifiuto
del risultato, l'impresa unitaria, felix culpa da cui dipende la
speranza di non essere schiacciati dalle teutoniche natiche della cancelliera
Merkel.
Piero Vassallo
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