Scuola una volta era sinonimo di emancipazione
dall’ignoranza e dalla miseria. I giovani destinati all’istruzione perseguivano
obiettivi sociali. Anche coloro che la conseguivano nei seminari, spesso, il
più delle volte, lo facevano per sfuggire alla terra o alla malasorte di una
salute precaria. Con la fine degli ordini privilegiati, anche la Chiesa alla lunga si è
riempita di proletari non solo tra il basso clero ma anche ai vertici. Si pensi
al card. Siri, figlio di una portinaia, o a Giovanni Roncalli, figlio di
contadini della Bassa bresciana. Fatalità dei tempi? Sta di fatto che fu
Roncalli ad aprire il Concilio Vaticano II, che uno come Pio XII non avrebbe
mai voluto, e fu un papa come Paolo VI a congedarlo prima che cantasse il gallo
diabolico della dissoluzione. La memoria del popolo arriva e dura quanto la
fame. Lunga, fiché dura, cortissima quando smette e non ne sente più i morsi.
Oggi andare a scuola fa scuotere il capo ai più
anziani e indignare chi ne è fuori. Visti i risultati sociali, a cosa serve la
scuola?
L’istruzione pubblica, anche prima di diventare
di massa, era sinonimo di possibilità di inserimento sociale offerta dallo
Stato ai cittadini in cambio di salvaguardia ideologica delle sue istituzioni.
Un sinallagma accettabile, e soprattutto conveniente. Studio, sistemazione
professionale certa, posizione economica decorosa.
Oggi le cose sono cambiate. Quando tutto deve
giungere a tutti la distribuzione si inceppa. Nessuno una volta notava il
freddo delle aule o la loro fatiscenza. Contava di più il contenuto educativo,
l’opportunità. I nostri genitori si portavano lo scaldino da casa e gli
insegnanti, col cappotto sulle spalle, poggiavano i piedi freddi su una pedana
di legno sotto la cattedra per restare un po’ isolati dal suolo umido. Noi, già
alle medie, non entravamo in classe alla notizia che i termosifoni erano
spenti.
E’ pur vero che i professori all’antica non
sempre erano insegnanti. Ricordo il mio insegnante di greco darci del “lei” e
non saperla più lunga del manuale Perrotta, mentre nella sezione C, al piano di
sopra dell’antico convento adibito a Ginnasio-Liceo, insegnava una giovanissima
e briosa professoressa di italiano e latino che era un incanto ascoltarla.
Tutta compresa nel suo tailleur verde
smeraldo passeggiava davanti alla cattedra, con qualche incursione tra i banchi
che aveva lasciato da poco, a parlare del Foscolo e del Leopardi come di amici
di famiglia, con la dimestichezza che te li fa sentire solidali con i tuoi
vagheggiamenti e le tue pene giovanili. Nel suo sguardo si notava la fierezza
di chi aveva sudato le sue carte e riscaldato tante sedie prima di arrivare a
quella cattedra.
Eppure, la generazione della graziosa e
coltivata professoressa non ci ha lasciato una bella Italia. E neppure una
bella scuola. Perché?
Per tentare una risposta, dobbiamo distinguere
l’istruzione dalla cultura. Ciò che ha rovinato la scuola italiana è stata la
progressiva distanza che si è aperta tra l’esigenza vocazionalmente elitaria
della cultura, e le istanze di segno contrario di una istruzione massificata e
destinata erga omnes, volgarizzata e
scollegata perciò dalla intrinseca problematicità delle elaborazioni critiche.
L’istruzione pubblica massificata ha richiesto una scuola di burocratici
ripetitori di nozioni a buon mercato, non educatori intellettuali, e perciò nel
giro di qualche anno ha potuto assoldare anche senza concorso cattivi docenti
che erano stati già cattivi discenti. Con quattro soldi di stipendio li ha
destinati a vita a un ruolo sempre più marginale ma sicuro, inamovibile,
insindacabilmente fisso e inguaribilmente mediocre. Soprattutto nelle scuole
medie inferiori, ricettacolo variegato di laureati non liceali, dalla sintassi
approssimativa e gestori di un triennio sostanzialmente inutile e complessivamente
dannoso per l’igiene mentale dei ragazzi.
Di quegli anni persi, a parte una magnifica prof
di matematica siciliana, vestita sempre di nero, ricordo solo mogli isteriche e
macchiette da avanspettacolo che passavano la loro ora di lezione chiacchierando
e scherzando. Alcuni anziani con la sesta classe elementare erano più decorosi
di loro. Ma qualunque insegnante, anche bravo, che cosa poteva fare di meglio
senza un acclarato dovere d’ufficio? Una volta un collega chiese a una di
queste macchiette se conoscesse il nome del ministro della P. I. che l’aveva
immessa in ruolo ope legis senza
concorso, e lei rispose candidamente che non se ne intendeva di politica.
Scuola alla buona. Media è un acronimo che sta
per Mediocri Docenti In Attesa della fine del mese.
Naturalmente, con le nuove immissioni
universitarie di questa nuova fauna studentesca, anche la cultura ne ebbe a
risentire, scadendo progressivamente a livelli di assoluta mediocrità
intellettuale. Col Sessantotto, anche la cultura abbandonò l’Università e si
arroccò in cenacoli sempre più elitari. Il trait
d’union tra istruzione e cultura,
tra elaborazione e divulgazione, non era più costituito dalla scuola ma dalla
politica. da professori preparati a
professori impegnati, il passo fu
breve. Non più lo studio e l’aggiornamento, ma la militanza politica fece la
differenza tra l’insegnamento routinario e quello creativo, cioè
ideologicamente orientato. Il mio prof di storia e filosofia era un marxista
dichiarato e non spese neppure una parola per la scolastica e Tommaso, passando
di filato da Aristotile a Hume e a Kant per fermarsi a Marx dopo un processo
sommario a Hegel. La storia europea era presentata da lui come la “madre di
tutte le rivoluzioni”, sicché i periodi di calma erano indicati come un’anomalia
rispetto ai fisiologici torbidi socio-politici. I ragazzi con lui non
studiavano ma leggevano i quotidiani estremisti, anche in classe, dandosi arie
sapute. Ma era questo lassismo intellettuale la “libertà di pensiero”?
Coi miei figli è stato peggio. L’esperienza di
uno di essi a un Liceo di Campobasso è stata allucinante, col preside ex
insegnante di educazione fisica e già direttore didattico spaurito e in balia
degli insegnanti e della sua vice-preside, che la faceva da padreterno. Mi sono
mio malgrado scontrato con un pazzoide urlante che tremava parlando e inveiva
in pubblico come un ossesso prendendosela coi ragazzi e i genitori per non
ammettere la sua inadeguatezza a quell’incarico retribuito dallo Stato.
Ammonito e sospeso dal preside su mia pressione, sta ancora lì, al suo posto, a
prendersi lo stipendio al posto di altri più portati e capaci all’insegnamento,
mentre mio figlio, dopo tante spese e amarezze, è dovuto andarsene, minacciato
di bocciatura e bocciato a settembre sempre da lui, l’ossesso, nonostante le
spudorate assicurazioni contrarie del preside, con la complicità passiva dei
colleghi, compresa quella di italiano, che gli aveva dato nove al primo
quadrimestre e poi si è accodata alle antipatie della vice-preside. Cose che
capitano le antipatie personali? In Italia, però. E nessuno è intervenuto dal
Provveditorato a difendere il ragazzo. Anzi, tutte bocche cucite. Ho persino
scritto del caso vergognoso a Mons. Bregantini, così melenso e disponibile
verso i più deboli a sentirlo in pubblico, ma senza ricevere risposta. Cose
dell’insignificante microcosmo molisano? Sì, ma della scuola pubblica, non di
un dopolavoro ferroviario.
Ora, mi chiedo. Come è possibile che un
baraccone economico come quello del Liceo convitto di Campobasso, che ha un
giro di affari milionari tra mense, rette e continui viaggi “educativi” a spese
dei genitori, possa stare impunemente in piedi, senza una inchiesta
ministeriale o della Procura? Ho cercato un coinvolgimento di un foglio locale
piuttosto battagliero, ma il buon direttore è stato inibito alla pubblicazione
dal direttore responsabile della testata, con la scusa che anche lui ci aveva i
figli in quel Liceo. Un genitore, per di più avvocato e responsabile di un
giornale, che senso civico ha sviluppato a scuola e all’università? Se questo
il risultato della scuola di massa, non era meglio una scuola di pochi ma
buoni?
Non sto generalizzando. So bene delle eccezioni.
Ma il problema è che siano tali mentre dovrebbero essere la regola nella scuola
pubblica, dove noi mandiamo i nostri ragazzi a educarsi, se non proprio a
formarsi. Ma chi ha formato ed educato gli insegnanti? Chi li ha abilitati a
stare in posti così delicati?
Se vi è una crisi in Italia è quella del sapere.
A ogni livello. Da dove viene la nostra classe dirigente, locale e nazionale?
Dove hanno imparato la sintassi i nostri politici? E come potrebbero malpagare
gli insegnanti avendo un po’ di considerazione della cultura e un po’ di pudore
di fronte agli studiosi? Ma la politica italiana, e la scuola italiana, sono
ormai del tutto autoreferenziali, sono ambienti autistici, di persone alienate
dalla realtà esterna che si parlano e sparlano addosso, come nelle trasmissioni
giornalistiche, senza interlocutori istituzionali. Nessuno risponde a nessuno.
Basta essere là. Semel politicus semper
politicus. E così a scuola, semel
impiegatus semper stipendiatus.Ma si può?
L’Italia è un paese nella cui cultura sono nate
le corporazioni. Ma tra tante corporazioni protette, solo quella scolastica non
è stata mantenuta e protetta. Eppure se c’è un campo della vita civile dove più
peso ha la tradizione ai fini della resa intellettuale e professionale è quello
della cultura, in cui è estremamente importante che il sapere si sedimenti e
diventi abito mentale, Bildung spirituale.
Se non per tradizione genetica, per retaggio d’ambiente. L’estro artistico di
un Ludovico di Baviera era comunque contenuta entro gli schemi rigidi della sua
tradizionale educazione nobiliare, che poteva condurlo alla ossessione musicale
per Wagner o all’architettura dei suoi favolosi castelli, ma non alla follia
incommensurabile di uno Hitler, che al potere concepisce in grande ciò che la
sua meschina mentalità plebea ragionava in formato mignon tra sodali di bettola. Qualunque sciocchezza, innocente e
compatibile se privata, diventa pericolosa se pubblica e accreditata dal
potere. Vi ricordate la mimica balconara di Mussolini? Nella piazza di
Fucecchio faceva ridere gli amici, a piazza Venezia esaltava le folle
prostrando l’Europa.
Ciò che in Italia, e in generale in tutte le
democrazie del nostro tempo, è all’origine dei mali nazionali e nel mondo è il
fomite dei tracolli sociali, è il falso ritenimento che il passaggio tra la
dimensione privata e quella pubblica sia dovuta a un rapporto meramente
quantitativo e non a un passaggio qualitativo, per cui le stesse idee che
alimentano le ambizioni personali possono alimentare, se divulgate en masse, quelle dei popoli. Lo stesso
pregiudizio anima la teoria utilitaristica degli empiristi, che sostengono la
naturale e spontanea composizione degli interessi individuali con quello
sociale generale. Ma, molto semplicemente, non è così. Infatti, il privato
pensa da privato, curando che il suo orticello sia ordinato ai propri bisogni,
e non a quelli comuni. Ma moltiplicare tutti i singoli problemi privati di una
comunità sociale non potrà mai darci una soluzione pubblica, la quale afferisce
a un altro ordine di considerazioni, quello inerente al bene comune. E così
come l’intelligenza di tutti gli uomini non potrà mai superare quella
dell’umanità, questa stessa, non perché ipoteticamente unanime, potrebbe
eguagliare quella della Provvidenza, che non a caso è divina.
Gli uomini fanno ciò che possono, e delegare un
brocco a competere per pietà democratica con campioni da corsa, non solo non si
rende merito al giusto valore ma è anche inutile. I vari Mussolini, Hitler,
Stalin ci hanno provato a cambiare le sorti dei popoli, ma non hanno costruito
neppure lontanamente una civiltà paragonabile a quella millenaria dei patrizi
romani e di quelli medievali europei.
Sono state meteore, tragiche ma effimere, pericolose ma transeunti, durate
pochi anni e non secoli.
Anche i poveracci mandati dal consenso popolare
al potere fanno ciò che possono, e non è colpa loro se non sono nati per
governare i popoli. Ce li ha mandati il sistema, ma un brocco resta un brocco.
Parimenti a scuola. Li si è mandati a studiare, a laurearsi e a insegnare, ma
quanti di loro vi erano portati? Un medico maldestro lascia una garza in pancia
e ricuce. La si riapre e la si toglie e si ricuce. Ma un insegnante malsano i
danni che fa sono a volte permanenti, perché indietro non si torna. Una mia
insegnante alle Medie spiegava il pessimismo leopardiano asserendo che egli
vedesse il mondo “dietro un vetro grigio anziché rosa”. Una mia compagna
obiettò che anche la finestra del suo bagno aveva un vetro grigio ma tutti
cantavano lo stesso facendosi la doccia. Allora se ne fece una risata. Ma la
povera prof non riuscì ad andare oltre perché lei stessa non l’aveva capito,
come poteva farlo capire? Aveva lo stesso titolo di studio della prof del mio
liceo, ma con la differenza essenziale che questa aveva capito ciò che poi
riuscì a far capire ai suoi alunni, l’altra no. E tutte due insegnavano e percepivano
lo stesso stipendio. A quale delle due potendo scegliere avremmo affidato
volentieri i nostri figli?
L’autonomia scolastica non è la confusa
uguaglianza tra di chi merita l’impiego e chi non è idoneo al servizio
pubblico, così come non vi è da confondere la descrizione della confusione con
una confusa descrizione. Ma per selezionare una valida classe insegnante
occorre prioritariamente assegnare un ruolo al docente secondo i fini della
scuola pubblica. Se questi fini sono l’inserimento nel mondo del lavoro, allora
la scuola sarà solo l’ufficio tecnico delle industrie regolato dal mercato. Non ci sarebbe niente di male se
pensiamo di pianificare la vita sociale in senso tecnocratico e comtiano. Resta
nondimeno una circostanza che non può essere elusa. Ossia che l’esperienza
umana non è riducibile alla mera vita bio-politica ma è esposta a quella
“angoscia” per il trascendente che sostanzia la libertà dell’uomo impedendogli
di definirsi nell’equazione di ciò che mangia. Se dunque l’istruzione pubblica
si limiterà a destinare briciole di sapere nozionistico destinate al lavoro,
rinunciando alla formazione morale dei giovani, qualche istituzione privata
dovrà pur provvedervi, altrimenti avremo nei migliore dei casi un popolo di
formiche laboriose e competenti ma senza una visione complessiva della realtà,
e quindi soggetto alle momentanee seduzioni dei piaceri e alle paure dei
bisogni. O si torna a fare della famiglia il luogo della formazione morale dei
giovani, o se ne deve fare carico la
Chiesa , proponendosi come la riserva morale della nostra
civiltà in declino.
Le vecchie generazioni, moralmente educate,
hanno saputo resistere a flagelli umani e a naturali carestie senza
sostanzialmente mutare il senso della loro vita, fidando nella provvidenza e
nei loro principi. Ma ai tempi odierni, una contingenza economica sfavorevole
basta a gettare il panico nelle masse superstiziosamente attaccate alle
promesse di benessere con cui i regimi democratici le tengono buone facendo
digerire loro ogni palese ingiustizia sociale e la stessa incapacità di governo
delle classi politiche, preoccupate solo di ottenere il potere col loro
consenso. In mancanza di una formazione morale dei giovani, quale sarà il
collante ideale che legherà la loro vita personale ai destini comuni?
L’interesse immediato, per definizione “liquido” e mutevole?
Questa non è una domanda da quiz d’ingaggio
lavorativo, ma è pur tuttavia la questione essenziale la cui risposta rende il
senso stesso della vita collettiva, facendo della scuola un laboratorio di
valori e di speranze sociali.
Costantino Marco
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